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Taking up the Invitation from a Crab – Appunti di Viaggio
Nota: Trattandosi di un articolo composto da “appunti di viaggio”, la pubblicazione completa del testo procederà in maniera progressiva, componendosi nel tempo con nuove parti più avanti, seguendo i ritmi del “viaggio” di chi scrive.
Primo appuntamento: 07/10/2025
Obiettivi dell’articolo, più qualche nota sul metodo
In questo articolo commenterò An Invitation from a Crab, raccolta di storie realizzata da panpanya e pubblicata in Italia da Star Comics a fine 2020. La raccolta è stata la prima uscita della testata panpanya Works. Nonostante la collana sia ormai arrivata alla settima pubblicazione,1 però, è facile notare come le opere di panpanya non sembrino aver riscosso un grande successo tra il pubblico italiano. Se prendiamo come indicatore di popolarità la pubblicazione di articoli su siti di settore, video approfondimenti o post social, per esempio, si nota come le pubblicazioni italiane di panpanya siano raramente affrontate, anche solo per fare rapide recensioni o commenti. Da un certo punto di vista, posso capire come la produzione di panpanya possa apparire eccentrica, avvicinandosi poco a diverse fette di pubblico; da tutt’altra prospettiva, però, trovo assai strano che queste opere non abbiano ricevuto un’attenzione maggiore all’interno di ambiti più “professionali”.
Negli anni, infatti, ho avuto tantissime occasioni di parlare in modo entusiastico di panpanya con Matteo e con Lorenzo Di Giuseppe; ciò che ha sempre sorpreso tutti e tre è come nelle storie di panpanya, dietro un’apparente leggerezza stilistica e narrativa, si nascondesse una grande solidità tematica e artistica. Quelle che, a un primo sguardo, sembravano solo delle storielle bizzarre, in realtà nascondevano riflessioni profonde – seppur concretissime – sulle abitudini, sulle nostre percezioni, sul legame che abbiamo con la quotidianità e con la memoria. Si noti che questi stessi temi, seppur affrontati in modo diverso, hanno suscitato un certo interesse “critico” negli anni, in relazione ad autori orientali molto apprezzati come Taniguchi Jirō, Matsumoto Taiyō, Adachi Mitsuru e – in una qualche misura – anche in mangaka molto popolari come Urasawa Naoki.
Come è, allora, che questi stessi temi non sono stati ritrovati anche nella produzione di panpanya?
Dal momento che in questi anni ho apprezzato così tanto le raccolte di panpanya, mi sembrava ingiusto non tentare – quantomeno – a legittimarle, provando a far emergere questioni e tematiche sotterranee che possono interessare a potenziali lettori. In generale, quando si apprezzano delle opere, si dovrebbe provare a far notare quanto possano essere interessanti. Ecco, quindi, il motivo principale dietro questo scritto.
Al contrario di altri articoli, però, ho optato per un approccio diverso. Le opere di panpanya sono raccolte di storie di lunghezza medio-breve nelle quali – nonostante esista uno sfondo stilistico ed espressivo comune – troviamo notevoli variazioni sui temi e sulle situazioni rappresentate. Oltre a questo, avevo il timore che un’analisi eccessivamente astratta allontanasse troppo chi legge dalle singole storie. Provare a fornire un’analisi complessiva della raccolta, quindi, mi sembrava abbastanza inadeguato. Ho preferito, piuttosto, fare un commento delle singole storie, anche qua adottando un metodo un po’ diverso da quello che possiamo trovare in altri articoli di Terre Illustrate o di Keiko – Rivista. Nel titolo parlo, infatti, del commento come una serie di appunti di viaggio, termine decisamente strano per parlare di un’analisi artistica.
Mi permetto di prendermi un po’ di spazio per spiegare cosa ho in mente. Se non avete, però, interesse verso questioni più astratte legate allo stile e ai modi di fare critica artistica, potete tranquillamente passare alla sezione Panoramica Generale.
Sullo stile dell’articolo. Gli appunti di viaggio sono un prodotto scritto che compiliamo durante un percorso. Cosa scriviamo in questi appunti? Le cose più disparate. Magari, camminando per una città, l’atmosfera di una strada ci colpisce particolarmente e vogliamo provare a catturarla a parole. Magari vogliamo ricordarci di un evento bizzarro che avviene proprio davanti ai nostri occhi, violando ogni nostra aspettativa. O, ancora, magari stiamo cercando un ristorante a cui siamo interessanti e abbiamo bisogno di appuntarci le indicazioni per raggiungerlo. Anche da questi brevi esempi, emergono due aspetti fondamentali che caratterizzano gli appunti di viaggio.
Il primo è la loro frammentarietà: quando scriviamo degli appunti di viaggio, non è richiesto alcun tipo di sistematicità o di unità strutturale. Seppur sia vero che una volta tornati a casa possiamo voler ordinare i nostri appunti, rendendoli più uniformi e integrandoli con ricordi e conoscenze a posteriori, inizialmente non esiste una vera e propria progettazione dietro la loro scrittura. Se sapessimo già cosa scrivere ancor prima di partire, forse non avrebbe troppo senso tenere degli appunti di viaggio.2
Il secondo aspetto che emerge è il legame tra gli appunti di viaggio e la soggettività di chi li compila. Come dicevo, realizzare degli appunti di viaggio può avere una funzione mnemonica (ricordarsi cosa succede), espressiva (descrivere le sensazioni che proviamo) o anche orientativa. Tutte funzioni che sono realizzate in relazione a chi compila gli appunti. La stessa strada che può essere pregna di senso – e meritevole di essere riportata su carta – per qualcuno, può essere arida e poco interessante per altri. Oppure, perché dovrei appuntarmi il percorso per raggiungere quel ristorante a cui sono interessato, se so già come arrivarci o preferisco usare il GPS dello smartphone? Gli appunti di viaggio sono, in qualche misura, molto simili a dei diari e per questo andrebbero letti come appunti di qualcuno.
Questo commento a panpanya può essere inteso come degli “appunti di viaggio” proprio perché nasce dalla parziale sistematizzazione di un insieme di note, osservazioni e commenti che ho fatto durante la lettura delle storie che compongono An Invitation from a Crab. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, se durante la lettura lo stile cambiasse di netto da una storia all’altra, diventando più impressionistico e meno argomentativo. Inoltre, è possibile che alcune emozioni e risonanze di cui andrò a parlare potrebbero non apparire immediate o particolarmente salienti per chi legge. Da un certo punto di vista, non nego che questo sia una sorta di vezzo meta-letterario. Come sarà evidente a chi ha già letto alcune delle opere di panpanya, le varie raccolte si pongono sempre come una sorta di diario personale in cui le esperienze quotidiane, le abitudini, i ricordi, i sogni e le fantasie di chi disegna vanno a convergere. Ho ritenuto quindi divertente privilegiare un approccio alla scrittura che si ponesse in continuità stilistica con la raccolta, in modo da legare opera e commento in un unico insieme.
Ma questo è davvero fare critica d’arte?
Un’obiezione che qualcuno potrebbe fare all’intero articolo è che essere frammentari e aggiungere elementi soggettivi all’interno della propria analisi sia un pessimo modo di fare critica. Effettivamente, un’idea molto diffusa è che soggettività e critica siano due aspetti che non dovrebbero entrare in contatto. Al contrario, il lavoro di un buon critico passa anche dal saper “purificare” il più possibile le sue analisi da aspetti soggettivi; questa idea è generalmente legata al fatto che emozioni, pregiudizi e aspettative personali siano fattori eccessivamente variabili per essere considerati una base solida per fare critica d’arte. Analogamente al caso della strada descritto poco fa, una stessa opera può provocarmi emozioni fortissime almeno quanto può lasciare indifferente la persona al mio fianco. Ciò su cui, però, non possiamo discordare, sono i suoi aspetti strutturali, il suo valore storico o la raffinatezza tecnica con cui è realizzata; per questo dovremmo richiamare questi fattori “inopinabili” quando facciamo critica, così come dovremmo delegittimare l’appello a fattori soggettivi al suo interno. Dopotutto una cosa “può non piacermi” seppur “io riconosca il suo valore”.
Sinceramente, non solo credo che questa opinione sia sbagliata, ma credo che nasca da un modo di concepire la nostra soggettività che è eccessivamente ingenuo. Le emozioni e le aspettative, infatti, non sono cose che esistono “sottovuoto”, lontane dal mondo: come la psicologia ci insegna da decenni, queste dipendono sia da aspetti ambientali che da fattori squisitamente corporei. Il fatto che certe condizioni ambientali interagiscano con noi, provocandoci certe emozioni invece che altre, è qualcosa che è tanto oggettivo quanto la lista dei materiali usati per comporre una statua. Da questo punto di vista, quando un’opera ci lascia indifferenti e vediamo, invece, che provoca forti emozioni nella persona accanto a noi, ciò che dovremmo fare non è tanto ignorare gli aspetti emotivi poiché “eccessivamente variabili”. Casomai, dovremmo chiederci perché c’è questa differenza di reazione tra me e lui. Da quali aspetti personali dipenda e – nel caso fosse un’operazione sensata – se sia possibile metterci nella stessa condizione psicologica, in modo da provare sensazioni analoghe. Da questa prospettiva, fare critica non vuol dire solo avere una conoscenza approfondita su un’opera, ma anche essere capace di descrivere efficacemente il tipo di effetto che ci fa l’interazione con questa, sapendo districarne le ragioni sottostante. Anche tra i critici d’arte esiste una profonda disomogeneità, legata ai loro studi, alla loro vita emotiva e alla loro storia personale; considerare questa disomogeneità come un difetto e non come un punto di forza mi sembra decisamente poco fruttuoso. Ciò che farò nell’articolo sarà, appunto, provare a capire perché la raccolta di panpanya abbia un certo effetto psicologico su di me. Ciò che spero non è tanto di “far vedere” a chi legge le cose dal mio punto di vista, ma portarlo a riflettere su un preciso metodo di fare analisi.
A mio avviso, se c’è un ruolo sociale rilevante che i critici possono avere rispetto a chi decide di ascoltarli, questo non riguarda l’educazione al “buon gusto”, come credono in molti. Chi fa critica, casomai, dovrebbe occuparsi di costruire nuove forme di apprezzamento, che mostrino modi inediti di usare quegli “strani strumenti” che sono le opere d’arte, portando il pubblico a riflettere in modo più adeguato e profondo sulle loro abitudini e sulla loro vita interiore.
Panoramica Generale.3 An invitation from a crab è una raccolta composta da 18 storie brevi di lunghezza variabile e da 7 pagine di testo scritto chiamate “note”. Questa strana bipartizione rispecchia un approccio alla costruzione abbastanza profondo, che spero di far emergere bene nel commento. Anche rimamendo in un contesto letterario, una storia può essere realizzata avendo in mente tante funzioni differenti. Un autore può realizzare una storia a scopo formativo, come forma di svago, come espressione personale et cetera. Nel caso di panpanya, i libri della sua produzione hanno la stessa ergonomia di un coltellino svizzero, dal momento che le sue storie possono avere contemporaneamente intenti giocosi, stranianti, umoristici, malinconici o immaginifici. Questa varietà di funzioni non dovrebbe in realtà stupire in una raccolta di storie brevi, anzi, è qualcosa di molto comune. Tutte queste funzioni sembrano però il prodotto in un intento che muove l’intera produzione di panpanya, ovvero l’uso del libro come un oggetto a metà tra il diario e il taccuino di ricerca. L’impressione che provo leggendo i racconti di panpanya è infatti quella che potrei provare leggendo un ispirato scienziato che prova a descrivere i fenomeni naturali che gli si dispiegano di fronte durante la ricerca. Mentre però un naturalista può essere affascinato da certe reazioni chimiche o dal bizzarro comportamento dei bradipi, ciò che panpanya prova a descrivere sono i fenomeni della propria interiorità: credenze, sentimenti, abitudini, fantasticherie, ricordi.
L’autrice descrive minuziosamente l’effetto che fanno questi fenomeni interiori usando proprio il fumetto, come uno scienziato che prima cerca di descrivere quei fenomeni che tanto gli interessano e poi prova a costruire ipotesi esplicative, esperimenti concreti o situazioni mentali in cui testare delle leggi nascoste che intuisce di aver afferrato. In questo senso An invitation from a crab è un taccuino, almeno quanto è un diario, proprio perché i fenomeni che panpanya vuole descrivere sono quelli che possono essere catturati solo da una cronaca vissuta in prima persona. In questo senso, l’interiorità per panpanya non è un mondo completamente privato, esplorabile solo chiudendosi ermeticamente nell’indagine dei propri pensieri. Al contrario, panpanya sembra rigettare una simile visione romantica, concentrandosi sul fatto che le emozioni, i sentimenti e le fantasie dipendono in modo preponderante da ciò che succede fuori di noi, in una visione della psicologia che potremmo quasi definire ecologica. Per questo motivo panpanya non si appella troppo a metafore o allegorie che rappresentino ciò che succede dentro di lei ma, invece, usa lo strumento fumettistico come una sorta di banco di prova per costruire situazioni assurde in cui innescare quei meccanismi psicologici che lei stessa ha notato nel suo quotidiano. Si noti, infine, che l’approccio esplorativo dell’autrice non implica un distacco arido e freddo dalla propria interiorità. Bensì è un rapporto giocoso, di esperimento e sorpresa, quel tipo di rapporto splendido che non solo troviamo in altri grandi autori, ma che ci può permettere di vedere il quotidiano e noi stessi come qualcosa di unico, da cui trarre ispirazione. Tra le variegate realtà teoriche che emergeranno nel commento, questa mi sembra essere la più importante, l’approccio che è necessario cogliere per entrare nel mondo di panpanya.
Commento ad An Invitation from a Crab
Il volume/ Da fuori
Se lo consideriamo come prodotto cartotecnico, alcune parti di un volume a fumetti – come la copertina, la sovraccoperta, l’indice, il riassunto o il colophon– vengono il più delle volte considerati come elementi “esterni” al mondo descritto all’interno della storia. Chiaramente ci sono dei casi in cui questo non avviene: si pensi ai bellissimi schemi illustrativi nei volumi di Nausicaa della valle del vento di Miyazaki Hayao, che descrivono approfonditamente gli strumenti usati dai vari personaggi, oppure alle lunghe pagine riassuntive presenti in ogni volume di The Five Star Stories, necessarie per entrare all’interno dei mondi narrativi descritti in ogni singolo volume del capolavoro di Nagano Mamoru. È abbastanza raro, però, che copertine e sovraccoperte svolgano funzioni particolarmente complesse rispetto al contenuto di un’opera.4 Solitamente, le parti “più esterne” di un libro a fumetti hanno la funzione di attirare il lettore e dare un’idea del mood generale dell’opera o degli elementi che troveremo al suo interno, dal momento che il volume dovrà essere venduto in un contesto in cui non è possibile – idealmente – leggerlo integralmente prima dell’acquisto. Se valutiamo una copertina da questa prospettiva commerciale, questa non solo dovrà esprimere i fattori a cui accennavo prima, ma dovrà farlo nel modo più immediato possibile, in modo da catturare subito l’occhio del potenziale lettore. Da questo punto di vista, il guscio esterno di An Invitation from a Crab è, quantomeno, un caso peculiare.
Ricordo vividamente le sensazioni che ho avuto le prime volte che mi capitò di vedere – in negozio o nelle pagine online di Star Comics – la raccolta di panpanya e, proprio per i motivi detti sopra, la mia valutazione non fu delle migliori. A primo impatto, trovavo infatti sgraziata e dissonante la scelta grafica fatta per il fronte della sovraccoperta, in cui troviamo diversi tipi di formati rappresentativi. Nello spazio – abbastanza stretto in realtà – del fronte abbiamo stipati uno stemma, un’immagine evanescente in cui si nota un contrasto tra uno sfondo cittadino – disegnato e acquerellato su base fotografica – e un volto disegnato in uno stile molto stilizzato, definito da linee essenziali che occupano uno spazio bianco, in netto contrasto con la complessità dello sfondo. Sotto l’immagine, una colonna di testo scritto e, a fianco, una mappa di una zona del Giappone che non sono mai riuscito a identificare. Parliamo quindi di quattro elementi grafici differenti, tutti ammassati in uno spazio che dovrebbe avere la funzione di catturare al volo l’attenzione del lettore.
In più, mentre è facile cogliere – almeno superficialmente – il contenuto di un’immagine, la questione è molto più complessa per quanto riguarda una mappa o un testo scritto. Un’immagine può colpirti in pochi attimi anche vagando distrattamente per un negozio; un testo scritto, invece, può richiedere qualche minuto, portando a soffermarsi sul libro, per analizzarlo nel dettaglio. Azione che, spesso, un potenziale acquirente potrebbe non essere disposto a fare.5 Oltre a questa scelta comunicativa – che al tempo mi sembrava abbastanza inelegante e confusionaria – trovavo anche una dissonanza più superficiale proprio nella piccola immagine frontale, nel contrasto tra il realismo dello sfondo e l’eccessiva semplificazione del volto della protagonista. In realtà la cosa non avrebbe dovuto impressionarmi particolarmente, dal momento che molti autori che apprezzo – come Mizuki Shigeru e, in certe fasi, Tezuka Osamu – tendono a contrapporre ambienti realistici a figure umane disegnate in modo deformed; in questi autori, però, spesso questo contrasto tra elementi è mediato da una qualche uniformità stilistica – magari nello spessore del tratto o nella gestione dello spazio – cosa che non riuscivo a trovare nell’alternanza tra il volto di panpanya e il paesaggio cittadino.
A posteriori, è chiaro che questo senso di dissonanza che provavo tradiva un approccio erroneo alla struttura comunicativa del libro. In quelle occasioni avevo creduto erroneamente che l’oggetto dovesse essere valutato a partire da una serie di valori puramente legati alla piacevolezza visiva come, per esempio, il fatto che il disegno in copertina fosse memorabile o che, con un solo colpo d’occhio, questa esibisse delle peculiarità grafiche che potevano catturarmi e farmi interessare alla lettura. In qualche modo il mio approccio era legato a una disposizione psicologica che potrei definire come contemplativa:6 le cose si guardano e si apprezzano osservandole, in uno stato di attesa, sperando che la loro osservazione ci colpisca in qualche modo. Il guscio di An Invitation from a Crab, però, diventa più facilmente apprezzabile nel momento in cui il volume inizia a essere effettivamente usato come strumento. Con questo non mi riferisco solo al fatto che la copertina richieda un approccio “più complesso” dal momento che richiede anche di leggere una parte testuale, ma intendo dire che le parti esterne della raccolta iniziano a mostrare fattori di interessi nel momento in cui le usiamo come “basi” per un lavoro immaginativo – proprio come potrebbe succedere usando una mappa o un opuscolo di viaggio. Provo a spiegare meglio quello che intendo.
Iniziando a leggere la colonna di testo, ci troviamo di fronte a un racconto realistico in cui la narratrice riporta, con dovizia di particolari, un episodio bizzarro che la vede come protagonista. Passeggiando per la città, panpanya racconta di essersi imbattuta in un granchio che scorrazzava per strada; da lì inizia un inseguimento che termina di fronte a una pescheria. Ci sono due punti che secondo me andrebbero approfonditi, in relazione a questa storia.
Come dicevo, i fattori di apprezzamento di questa sovraccoperta non sono strettamente visivi quanto cognitivi; detto altrimenti, se prendiamo il racconto della caccia al granchio come elemento principale della sovraccoperta e lo mettiamo in relazione con gli altri (la mappa laterale e l’immagine sovrastante), notiamo come questi elementi possano servire a rendere più vivida l’immaginazione del lettore durante la lettura del testo. Uno può infatti usare l’immagine per visualizzare meglio la scena, così come può giocare con la mappa, rintracciando il percorso fatto dalla narratrice nel suo inseguimento. Non solo: se guardiamo l’aletta laterale oppure osserviamo la copertina del volume, tolta la sovraccoperta, troviamo altri elementi che ci possono aiutare a giocare ancora di più con il racconto. Nell’aletta della sovraccoperta, infatti, troviamo la foto di un granchio – con tanto di descrizione naturalistica sottostante – mentre la copertina rappresenta le basole di un percorso pedonale, che potremmo vedere come quello percorso dalla protagonista. Vediamo quindi come, in realtà, i vari elementi grafici “di superficie” del volume possano avere una funzione che non è direttamente grafica, ma servano a costruire un ambiente immaginativo per entrare nell’atmosfera generale della raccolta. Come dicevo, questo approccio non va a favorire tanto il lato percettivo “diretto” quanto quello che potremmo definire cognitivo (qui inteso come “non strettamente legato all’esperienza percettiva”). Poco prima ho parlato di “mappe” proprio perché la sensazione che a me sembra di provare, in questi casi, è simile a quella che provo quando devo organizzare un viaggio o un percorso di trekking e mi ritrovo a leggere, in anticipo, delle guide per comprendere i luoghi da visitare e i percorsi da prendere senza rischiare di perdermi. Anche in quei casi c’è una componente cognitiva alla base di questi oggetti rappresentazionali, che passa dalla combinazione di testo scritto, cartine, immagini e altri elementi che possono permettermi di orientarmi in modo efficace. Passando alla seconda osservazione, è molto interessante notare come, già in questa breve storia iniziale, sia possibile trovare una serie di elementi tematici che saranno presenti in tutta la raccolta. Troviamo infatti:
Struttura “a diario”: le storie vengono quasi sempre innescate a partire da eventi bizzarri o fatti peculiari che irrompono nel quotidiano della protagonista. Questo rapporto tra quotidiano e non-quotidiano e la sovrapposizione fittizia tra l’autrice e la protagonista dei racconti permettono di concepire le storie come parti di una sorta di diario o di un taccuino. Questa impressione è anche rafforzata dalle riflessioni presenti nelle note, che sono spesso datate e servono a intervallare le varie storie.
Cura nelle descrizioni di artefatti, fenomeni naturali e pratiche sociali: qui ci stiamo riferendo sia a oggetti e fenomeni reali – che possono ritrovarsi anche nel nostro mondo – che finzionali, inventati di sana pianta da panpanya. In entrambi i casi, la visione di panpanya su simili questioni è quella di una naturalista che studia i fenomeni che si trova di fronte, provando a ricavarne conoscenze e leggi generali.
Interesse per il contesto urbano: panpanya predilige i contesti urbani per ambientare le sue storie. In ogni caso, anche nei casi in cui la narrazione avvenga fuori dalla città, la presenza di elementi antropici è costantemente presente. Detto questo, è comunque bizzarro notare come, nonostante le produzioni umane siano praticamente onnipresenti nelle storie di panpanya, l’autrice tenda a rappresentare spesso oggetti che non svolgono più la loro funzione primaria oppure il cui uso è praticamente incomprensibile. Si passa infatti da quartieri disabitati e oggetti inutilizzati fino ad architetture e prodotti artefattuali talmente bizzarri7 che – come succede spesso nella produzione di Sakabashira Imiri – è quasi possibile percepire questi stessi elementi come naturali, generati spontaneamente.
Umorismo basato sul paradosso: nel racconto che è presente in sovraccoperta, per esempio, l’humour deriva da una serie di fattori quali l’idea che un granchio sia un’animale che fa parte della fauna cittadina e il contrasto tra la minuziosa attenzione naturalistica di panpanya (tale da segnarsi anche il percorso fatto inseguendo il granchio) e l’ingenuità manifestata dal non aver notato il cartellino del prezzo attaccato al granchietto.
Riflettendoci, la copertina del volume è effettivamente un’ottima presentazione del volume, dal momento che al suo interno sono presenti una serie di elementi che un lettore può aspettarsi e ritrovare nella raccolta. La cosa interessante è che, in questo caso, questi aspetti non sono tanto veicolati dagli aspetti visivi del volume, ma richiedono un uso multifattoriale degli elementi che compongono la parte esterna dell’opera. Se qualcuno si fosse chiesto perché fosse così importante dedicare tutto questo spazio a un elemento “esterno” all’opera, ecco qua la spiegazione.
An Invitation from a Crab richiede al lettore, sin dall’inizio, un forte lavoro immaginativo, in modo da sintonizzarsi con i temi e con l’approccio psicologico che l’autrice avrà all’interno del volume. Da questa prospettiva, potremmo anche dare una lettura divertente al titolo stesso della raccolta, ripreso dalla storia che apre il volume. Quella che è descritta nella sovraccoperta e nella prima storia non è una “invitation” quanto una vera e propria caccia alla preda: la protagonista insegue il povero granchio perché vuole cucinarlo! Potremmo però intendere from a crab in senso metonimico: incontrare un granchio in una città è una cosa alquanto strana, sicuramente un evento inaspettato; potremmo quindi intendere invitation from a crab come un “invito” che ci viene fatto quando ci troviamo di fronte a eventi unici o bizzarri e abbiamo la sensazione che questi vogliano chiamarci a giocare con loro. La scelta di partecipare attivamente spetta poi a noi.
An invitation from a crab di panpanya
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Prima storia: Un invito da un granchio.
L’atmosfera immaginativa che possiamo creare esplorando l’esterno del volume trova uno sfogo più concreto con la prima storia della raccolta. Un invito da un granchio, infatti, altro non è se non la versione a fumetti del racconto sulla caccia al granchio che leggiamo sulla sovraccoperta. Stessa storia, due media differenti; questo mi porta immediatamente a fare una riflessione su una differenza espressiva fondamentale tra le due versioni. Nella versione presente sulla sovraccoperta il testo scritto è supportato da una mappa che ci permette di immaginarci in modo più nitido l’inseguimento, spingendoci a fantasticare sul tipo di traiettoria fatto dalla protagonista. In qualche modo la possibilità di mappare il percorso fatto dalla protagonista è parte del gioco che possiamo costruire con gli ingredienti che ci vengono forniti nella parte esterna del volume. Notiamo invece come questo aspetto legato all’orientamento e alla mappabilità dell’ambiente cada facilmente in secondo piano all’interno della controparte fumettistica: le scalinate e le strade percorse da panpanya sono infatti decisamente generiche e difficilmente potrebbero essere usate per immaginare un percorso uniforme. In questo non aiuta nemmeno la natura frammentaria delle sequenze e del disegno che rendono difficile fare una ricostruzione spaziale accurata dell’inseguimento. Ciò che a me pare enfatizzato, casomai, è la verticalità delle architetture e dello sviluppo urbano, oppure il senso di frenesia che l’autrice esprime con continui cambi di tratto durante l’inseguimento. In questo senso, credo che il fumetto esprima molto bene un senso di dispersione all’interno degli ambienti cittadini che è praticamente assente nella prima versione della storia. Continuando a parlare della versione a fumetto della storia, comunque, una cosa che mi colpisce particolarmente del disegno di panpanya8 è il contrasto tra due diverse modalità di disegno, legate a ciò che l’autrice vuole rappresentare. La prima di queste modalità può essere ritrovata in una rappresentazione molto dettagliata degli ambienti, dei palazzi e degli oggetti; questa scelta dà spazio a viste suggestive ed esprime un solido senso di concretezza nella rappresentazione degli ambienti.9 Questa concretezza, però, sembra venir meno nel caso in cui a essere rappresentati siano la protagonista o gli altri comprimari. In tutti questi casi, la mia impressione è che la loro rappresentazione sia più evanescente, in un modo quasi contraddittorio. La materialità del corpo vivente della protagonista e degli altri è, infatti, spesso definito da un bianco intenso che viene delimitato da pochi tratti, molto sintetici ed espressivi. Sono proprio queste poche linee a dare volume ai personaggi dandogli un minimo di materialità, in modo da non farci percepire i loro corpi come quelli di fantasmi che fluttuano tra gli ambienti cittadini. Cosa questo contrasto tra la materialità degli ambienti e l’immaterialità dei personaggi voglia esprimere è qualcosa su cui riflettere in seguito.10
11
Sono nei pressi di casa mia, eppure mi sembra di vedere tutto con occhi nuovi, forse perché sto inseguendo un granchio.
Affermazione bizzarra. Qui panpanya sta riflettendo sul fatto che, in qualche modo, ci sia un legame causale tra le sue capacità percettive e il fatto di star inseguendo un granchio, come se l’azione che sta compiendo cambiasse il modo in cui vede le cose intorno a sé. L’autrice sta, quindi, facendo una precisa affermazione sulla natura della sua esperienza personale: il modo in cui lei può vedere12 una stessa cosa può variare sensibilmente a seconda di cosa sta facendo. Ciò che si sta affermando, quindi è che vi sia un legame tra cosa cerchiamo dall’ambiente intorno a noi e il modo in cui noi lo esperiamo. Le stesse strade che la protagonista percorre ogni giorno per andare a scuola sembrano diverse nel momento in cui i suoi obiettivi concreti sono differenti dal solito. Normalmente lei percorre la strada con l’obiettivo di andare a scuola, qua però quegli stessi spazi devono essere percorsi per inseguire un granchio! L’idea che i nostri obiettivi pratici abbiano un qualche effetto sul modo in cui percepiamo le cose è un’idea ormai affermata in diversi ambiti di ricerca;13 ciò che è interessante notare, però, è come panpanya ricavi questo tipo di teorie senza richiamare esplicitamente delle teorie scientifiche. La maggior parte delle idee che l’autrice presenta nel corso della raccolta, parlando della natura della sua esperienza personale, sono ricavate infatti da una sottile osservazione dei suoi processi interiori, di ciò che le succede direttamente interagendo con il mondo. Mi permetto di sottolineare questi punti perché, nel corso della raccolta, il rapporto tra esperienza e obiettivi pratici tornerà a più riprese, con diverse variazioni. A volte, per esempio, panpanya potrebbe essere interessata a capire come la nostra percezione cambia in relazione ai ricordi, altre volte alle abitudini, altre ancora alle aspettative e così via.
Un altro tema trasversale che emerge da questo racconto, direttamente legato alla questione della percezione, è quello della quotidianità. Se dovessi fare un’osservazione evocativa, ma un po’ esagerata, direi che l’interesse per il quotidiano è il nucleo essenziale di tutta la produzione di panpanya. Qui con quotidiano non mi riferisco a qualcosa di carattere sociale o lavorativo, ma sto parlando di una sua caratterizzazione puramente psicologica. Tutti noi sviluppiamo delle routine e delle abitudini che rendono, per periodi di tempo più o meno lunghi, più stabili le nostre esperienze. Magari facciamo sempre la stessa strada per andare a lavoro, le nostre giornate si suddividono in attività molto simili tra loro, impostiamo una dieta che richiede una regolarità nei pasti, qualche sera della settimana possiamo dedicarla a uscire o a guardare un film con gli amici, … questi sono solo alcuni esempi di pratiche che vanno a costituire il quotidiano di una persona. Il quotidiano, in altre parole, è quell’insieme di abitudini, aspettative, rituali, sensazioni e comportamenti ripetuti che sono associati allo stile di vita di un individuo. Da questo punto di vista, ognuno di noi ha un quotidiano differente. È anche vero, però, che possono esistere somiglianze tra le quotidianità di individui diversi; spesso queste regolarità sono legate a fattori caratteriali, materiali, culturali. Ciò che sembra interessare a panpanya è proprio questo concetto di quotidianità e il modo in cui l’inaspettato può entrare nelle nostre abitudini; Un invito da un granchio è un racconto esemplificativo, da questo punto di vista. La storia inizia con un evento inatteso, che non fa parte della quotidianità della protagonista. Questo la porta a vivere una breve avventura in cui il percorso che vede ogni giorno acquista un senso differente, totalmente nuovo. L’episodio della caccia al granchio, però, è solo uno dei possibili approcci al tema; in realtà il rapporto tra quotidiano e non-quotidiano ha una struttura molto più variegata e complessa in panpanya.
Prima nota: Atmosfera.
È sufficiente concludere la prima storia per vedere come il tema del quotidiano emerga con un’accezione abbastanza diversa a pagina 9, con la prima nota. Ai miei occhi lo scritto ha il fascino di una riflessione notturna, in cui qualcuno, alla fine di una lunga giornata, inizia a pensare a qualcosa che gli è rimasto particolarmente impresso. Quando riconosciamo un evento come strano o peculiare, può succedere che in qualche modo questo sia già implicitamente “carico di teoria” per noi; magari ci colpisce perché abbiamo qualcosa da dire a riguardo e non viceversa. Dopodiché, in un momento di riposo, abbiamo il tempo e la disposizione d’animo adatta per lasciare che questo “carico teorico” vada a dispiegarsi, mentre ci perdiamo nella riflessione; non è forse nemmeno importante che si arrivi a un vero e proprio risultato concettuale, ma è sufficiente che il pensiero vada a orientarsi secondo ciò che ci ha colpito. In questo caso, ciò che la protagonista coglie è qualcosa che lei chiama atmosfera, che si manifesta notando l’austerità nella voce del presentatore di un vecchio notiziario. A partire da questo anomalo tessuto di sensazioni uditive, in particolare a partire dal modo chiaro e nitido di parlare del presentatore, l’autrice trova una rottura con la propria esperienza quotidiana, con il modo in cui il parlato televisivo fa parte della sua attuale esperienza abitudinaria. Proprio come nella storia precedente, ciò che si nota è qualcosa di anomalo, che non fa parte del modo in cui la nostra esperienza è standardizzata: nel caso della caccia al granchio questo generava esaltazione e frenesia, ad andare incontro a sentieri inesplorati. Qui invece, la novità ha un carattere calmo e riflessivo, innescando una riflessione generale. A partire da questa “anomalia atmosferica”, l’autrice inizia a immaginare le possibili ragioni che portavano i conduttori a preferire un modo così impostato di parlare. Un primo risultato – ammetto, abbastanza inaspettato anche per me a una prima lettura – che l’autrice indivua può essere tranquillamente inscritto nelle linee teoriche tracciate dal Benjamin dell’Opera d’arte sul rapporto tra tecnologia e percezione. Di fatto, l’autrice fornisce un chiarissimo esempio sul modo in cui gli strumenti tecnologici di un certo periodo storico abbiano un effetto forte sul modo in cui la percezione degli individui va a strutturarsi. panpanya ipotizza infatti che la scelta di articolare i discorsi in un modo ‘sì regimentato dipendesse dalle caratteristiche tecniche della strumentazione microfonica del tempo, che aveva bisogno di un certo tipo di stimolazioni acustiche perché funzionasse in modo efficace. A partire da un bisogno legato alla strumentazione tecnologica, certi tipi di strutture percettive si sviluppavano, quindi, e diventavano un elemento comune, parte della quotidianità di chiunque seguisse la televisione al tempo. Con il cambiamento degli strumenti tecnologici, sono anche cambiate le performance vocali richieste ai presentatori e, di conseguenza, anche l’atmosfera sonora associata. Seppur l’ipotesi non venga confermata, la riflessione è sicuramente suggestiva e denota un’attenzione molto profonda sul ruolo che gli strumenti tecnici hanno sulla nostra esperienza. A fianco di questa bella riflessione, però, vedo anche una declinazione del tema del quotidiano che si distacca dal modo in cui questo era stato trattato in Un invito da un granchio. In entrambi i casi troviamo la stessa dinamica, in cui un’anomalia dà vita a qualcos’altro, dicevo già prima. Ciò che però è davvero interessante notare è che, in questo caso, a innescare un senso di dissonanza dal nostro quotidiano è qualcosa che, in tempi più lontani, era stato parte del quotidiano di qualcun altro. Non a caso, panpanya sembra quasi proporre un criterio di classificazione storica delle atmosfere, connesso alle risorse tecnologiche del periodo. Ciò che mi ha colpito, e che meriterebbe un approfondimento, è quindi la sensibilità che panpanya dimostra nel riconoscere una cosa che, per quanto scontata, non riusciamo facilmente a tenere a mente: il fatto che quella che ho chiamato quotidianità abbia una vita vera e propria e che, proseguendo lugubremente con questa metafora biologica, arrivata a un certo punto anche questa muoia. Quando questo succede, ciò che prima ci sembra evidente e ovvio diventa estraneo e meno immediato da comprendere; in qualche modo si distacca dalla nostra vita. In modo speculare a ciò che avviene nel caso della strada per andare a scuola nel racconto precedente, finché qualcosa fa parte della nostra quotidianità, per noi appare come familiare. È solo distanziandosi dal contesto quotidiano in cui viviamo certe cose, però, che notiamo alcune caratteristiche che non avremmo potuto cogliere altrimenti.
Secondo appuntamento: 17/10/2025
Seconda storia: Ricordi incomprensibili.
Un aspetto grafico su cui mi sono concentrato commentando la prima storia (Un invito da un granchio) è la rappresentazione dell’ambiente urbano. Questo aspetto è centrale nella produzione di panpanya, quindi spero non sorprenderà se, nel corso del commento, vi farò spesso richiamo. La descrizione di ambienti antropizzati, però, non è l’unico elemento “materiale” che ricorre in modo continuativo nelle storie dell’autrice. Già in questo secondo racconto, infatti, troviamo un’altra caratteristica centrale nella produzione artistica di panpanya: l’attenzione accurata per gli artefatti.
14 d’ora in avanti userò anche termini come “oggettistica” e simili con questa specifica accezione. Che tipo di artefatti vuole descrivere panpanya, leggendo le sue storie? In realtà, oggetti di tutti i tipi: si passa da oggetti di uso quotidiano a produzioni fantastiche ed esotiche, di difficile comprensibilità. I motivi alla base di questa attenzione possono essere molteplici: in questa storia, per esempio, l’accurata descrizione dell’oggettistica ha sia un valore simbolico – nel momento in cui l’incapacità di decifrare i regali della nonna si lega alla rarefazione del ricordo – che uno umoristico. Ciò che è interessante notare, però, è come panpanya usi “tutti gli aspetti” che compongono gli artefatti che descrive nelle sue storie. Mi spiego meglio. Un artefatto è solitamente composto da un aspetto materiale/strutturale (come è fatto, il materiale di cui è fatto, …) e uno funzionale (per quale scopo è stato costruito, come deve essere usato) che vanno a interagire. Un martello è composto da un manico e da una testa; il primo solitamente fatto con un materiale flessibile e realizzato con una forma che rende facile l’impugnabilità. La seconda, invece deve essere fatta con un materiale resistente, che permetta di battere l’oggetto efficacemente. Impugnabilità e martellabilità sono delle funzioni che sono realizzate dalla “materia” che compone il martello: l’oggetto è fatto per compiere certi compiti e la materia viene manipolata da chi lo progetta per svolgerli al meglio. Ecco, quando dirò che panpanya usa l’oggettistica in modo inusuale potrei riferirmi a entrambi questi aspetti. Ci sono dei casi – come questa storia – in cui l’oggetto che viene inventato dall’autrice è bizzarro sia a livello materiale, sia a livello funzionale; ci sono, però, anche dei casi in cui a livello materiale l’oggetto che panpanya descrive è affine alla nostra quotidianità, ma è il modo in cui è usato a risultare stravagante. Simmetricamente, troveremo anche delle situazioni in cui un oggetto svolge una funzione affine alla nostra esperienza quotidiana, ma a partire da una struttura materiale totalmente inaspettata. In questo senso, possiamo parlare di un vero e proprio realismo artefattuale nella produzione di panpanya, nel senso in cui l’autrice sembra catturare e manipolare al meglio gli aspetti essenziali che caratterizzano la produzione di oggetti.15 Passiamo alla storia. Come dicevo, due aspetti che mi hanno colpito particolarmente di questa seconda storia possono essere compresi solo concentrandosi sugli assurdi giochi che la nonna regala a panpanya, nei suoi ricordi. Da una parte c’è sicuramente un aspetto umoristico. A occhio, credo che la presa comica del racconto dipenda principalmente da due aspetti strettamente interconnessi. Il primo riguarda, sicuramente, la stravagante ergonomia degli oggetti che, da semplici giocattoli esotici, iniziano a diventare sempre più incomprensibili, fino a sembrare artefatti provenienti da una storia di fantascienza. Questo senso di paradossalità comica è accentuata anche dall’uso della ripetizione a pagina 12, in cui i regali aumentano gradualmente di complessità.
Inoltre, questi strani oggetti vengono anche presentati come regali. Se fatto come gesto di affetto, un regalo è un’azione in cui porgiamo a una persona qualcosa che abbiamo a cuore o che – ipotizziamo – il ricevente possa apprezzare. Passiamo quindi al secondo aspetto comico della vicenda, ovvero l’incomunicabilità – per usare un’espressione un po’ pacchiana e volgarizzata – tra nonna e nipote.
mood del racconto non intende mai essere né paranoico né dissacrante. Al contrario, l’atmosfera che si respira nel racconto è leggera e giocosa, seppur con una nota malinconica. Di fronte agli assurdi regali della nonna, panpanya reagisce con il leggero imbarazzo che hanno i bambini quando non capiscono “il mondo degli adulti” e, anche nel finale, il ricordo della nonna viene trattato in modo ironico e vagamente dolce. Oltre alla funzione umoristica, come accennavo già prima, uno potrebbe anche analizzare l’uso dei regali del racconto per trovare anche un aspetto simbolico. In qualche modo regalare è un atto comunicativo, dal momento in cui pensiamo che la funzione che un oggetto svolge possa dire qualcosa della relazione che abbiamo col ricevente; comprendere perché ci viene regalato un artefatto, quindi, vuol dire anche comprendere le intenzioni del regalo. Il punto, però, è che spesso non comprendiamo molte cose dei comportamenti altrui, specialmente nel rapporto che abbiamo con persone che abbiamo vicine. Il comportamento, anche benevolo, di certe persone può sembrarci totalmente impenetrabile certe volte e potremmo rimpiangere di non aver compreso qualcuno. Nel caso di panpanya, l’incapacità di comprendere i regali si lega all’incapacità di comprendere le intenzioni della nonna – il suo mondo privato potremmo dire. Questo aspetto, è ripreso proprio nel finale, che racchiude un po’ tutti gli elementi che ho discusso finora. La lettera della nonna – uno degli oggetti comunicativi per eccellenza – si pone proprio in continuità con gli altri regali: un artefatto che non permette di comprendere le intenzioni di chi lo produce e che, a prima vista, non sembra avere una chiave d’uso come tanti altri giocattoli. Seppur la cosa venga trattata con leggerezza dall’autrice, è comunque innegabile, però, che vi sia un elemento malinconico nel fatto che questa impossibilità di comprendere un’altra persona venga poi assimilata nei nostri ricordi, lontano dalla nostra vita attuale.
Seconda nota: Distacco.
Aspetti rarefatti e, a tratti, malinconici possono essere ritrovati anche in questa seconda nota che presenta una struttura generale molto simile alla prima. Anche in questo caso, infatti, l’autrice apre il suo appunto parlando di un’esperienza quotidiana (buttare la spazzatura la sera) durante la quale nota un aspetto bizzarro; questo aprirà a riflessioni e ipotesi legate alla sua interiorità.
L’analogia tra le due note, in realtà, si presenta solo a un livello molto generale, dal momento che questa parte scritta – apparentemente semplice, ma dotata di una notevole densità riflessiva – presenta degli obiettivi speculativi diversi. In Atmosfera, l’autrice individua un particolare elemento psicologico – quella “atmosfera” che dà il nome alla nota, appunto – dandone una descrizione introspettiva. Dopodiché panpanya inizia a fare delle ipotesi per provare a capire quali siano le radici di questo fenomeno, correlate a fenomeni esterni. La nota, quindi, si presenta esclusivamente come avente una struttura esplicativa: l’autrice ha un fenomeno di fronte e prova a capirne le cause formulando ipotesi astratte. Anche nel caso di Distacco esiste effettivamente un elemento descrittivo, in cui l’autrice individua un particolare effetto psicologico e prova a razionalizzarlo; ciò che differenzia questa nota dalla precedente, però, è la presenta di un elemento sperimentale al suo interno. In questo commento la produzione di panpanya verrà spesso considerata come un ibrido tra un taccuino per le osservazioni scientifiche e un diario. Un diario può essere usato per compiere tante azioni diverse, ma lo stesso può valere per un taccuino osservativo. Uno scienziato può infatti usare un taccuino come un supporto cognitivo per aiutarsi nei calcoli, ma può anche usarlo per appuntarsi dei risultati, progettare esperimenti o abbozzare modelli grafici. Rimanendo all’interno della metafora di An Invitation from a Crab come taccuino, la prima nota può essere considerata come il prodotto di una ricercatrice che prova a comprendere i motivi dietro a un fenomeno. Una chimica si trova di fronte a un’inattesa reazione polimerica e prova a ipotizzarne le cause, segnandole su dei fogli. In questa seconda nota, però, panpanya non è solo intenzionata a descrivere un fenomeno, ma a comprenderlo per costruzione; in qualche modo, qua l’autrice è da intendere come una tecnica di laboratorio che vuole capire come manipolare degli elementi per accrescere la sua conoscenza del mondo. A differenza di una studiosa di chimica, però, ciò che panpanya prova a “manipolare” per accrescere le sue conoscenze sono i suoi stessi pensieri, i suoi ricordi e le sue sensazioni, in modo da avere accesso a nuove strutture di senso. Spero che alla fine di questo commento si possa capire meglio ciò che intendo.
Come dicevo, la nota inizia da un contesto quotidiano, mentre panpanya sta andando a buttare la spazzatura. È sera, la poca luminosità naturale permette di scorgere un aereo che brilla nel cielo.
Fin qua, tutto normale. L’animo di panpanya, però, viene scosso nel momento in cui pensa al fatto che, all’interno dell’aereo, ci siano effettivamente delle persone che, come lei, stanno vivendo la loro vita. Questo pensiero elicita nell’autrice un sentimento di distacco – da qui il nome della nota – che diventa la base per la sua indagine. L’idea è che, sì, panpanya sta provando questo turbante sentimento; cosa potrebbero provare, però, le persone sull’aereo che stanno guardando sotto di loro? Anche loro provano un sentimento analogo? Prima di rispondere alla domanda – in modo molto brillante aggiungerei – l’autrice individua una gradualità di tipi nel sentimento di distacco:
Dato che gli aerei volano in genere a diecimila metri di altezza, in pratica si trattava di un veicolo che si muoveva a una distanza di appena dieci chilometri da terra, eppure il senso di distacco era rafforzato dal fatto che si trovava in cielo.16
Da questo denso passaggio possiamo ricavare che il sentimento di distacco può essere, sì, legato alla distanza spaziale; le distanze, però, non hanno tutte lo stesso valore nel provarci un sentimento di distacco.
Detto altrimenti, pensare a una persona che vive a dieci chilometri di distanza da casa nostra mentre è impegnato negli obblighi casalinghi o lavorativi ci potrebbe provocare un sentimento di distacco diverso rispetto a pensarlo sopra un aereo che vola a dieci chilometri di altezza. Cosa cambia? Rimanendo in linea con l’apparato concettuale dell’autrice, potremmo notare una differenza rilevante nel tipo di ambiente che i due soggetti stanno vivendo. Mentre panpanya pensa alle persone dell’aereo, si ritrova in un contesto cittadino; la notte sta calando, siamo intorno all’ora di cena, accanto a lei – plausibilmente – ci sono altre persone che si riposando o si stanno preparando per affrontare la giornata successiva. I piedi di panpanya sono ben ancorati al suolo e, intorno a lei, ci sono quegli oggetti materiali e direttamente toccabili, afferrabili, che troviamo in un contesto cittadino. Una persona che sta viaggiando in aereo, al contrario, è circondato da un ambiente molto diverso, composto perlopiù da elementi paesaggistici se uno sta vicino a un finestrino. Lo spazio da esplorare è assai più limitato, le cose che potremmo toccare sono molte meno e non è nemmeno chiaro se possiamo dire che chi è su un aereo è “ancorato al suolo”.
Ora, plausibilmente il senso di distacco è proprio legato al fatto che, pensando ai passeggeri, l’autrice si ritrova a immaginarsi un ambiente “materiale” molto distante da quello che sta vivendo in quel momento. Dal momento che, però, la distanza tra i passeggeri dell’aereo e panpanya è la stessa – seppur “invertita” – c’è da chiedersi se anche loro provino un sentimento analogo. È qui che entra in gioco l’aspetto sperimentale della nota, che la differenzia da Atmosfera.
Per comprendere cosa un passeggero di un aereo o un pilota possano provare guardando la città, panpanya decide di usare una via introspettiva: “comprendere un sentimento” qui è inteso come un
processo in cui cerchiamo, con l’immaginazione, di metterci nei panni di un’altra persona. Dal momento che l’immaginazione è anche legata ai nostri sentimenti, se riusciamo efficacemente a immaginarci la situazione in cui sta vivendo una persona, plausibilmente dovremmo provare anche sentimenti analoghi, o no? In realtà non è detto. In primo luogo, non è chiaro se i sentimenti che proviamo quando immaginiamo qualcosa siano gli stessi che abbiamo quando viviamo direttamente quella stessa cosa – non immaginata. In secondo luogo, immaginare è sempre un’azione parziale, in cui “selezioniamo” delle cose da immaginare: rappresentarsi “interamente” una situazione sembra praticamente impossibile e, di conseguenza, può essere molto difficile immaginare le cose giuste per avere le giuste reazioni empatiche. L’immaginazione, però, non è solo un modo per “replicare la realtà col pensiero”, ma può essere usata anche in modi molto più interessanti come in questa nota panpanya stessa rende chiaro. La strategia dell’autrice infatti è quella di usare una forma di immaginazione analogica per provare a comprendere gli stati d’animo dei passeggeri dell’aereo. L’idea è proprio quella di isolare un’esperienza che l’autrice ha già avuto in vita sua e che sia sufficientemente simile a quella che vuole provare a capire e immergerla – per usare termini algebrici – nel nuovo contesto immaginativo. Concretamente, panpanya prende come riferimento un’esperienza che ricorda bene – il sentimento che si prova quando, in autostrada, si vedono delle case lontane – e la usa per immaginarsi cosa potrebbe provare un passeggero dell’aereo.
Mi è riaffiorata alla mente l’esperienza di quando viaggio in autostrada a bordo di una macchina. Il paesaggio che si vede dall’autostrada, che non ha vie laterali, trasmette un senso di distacco peculiare. […] Suppongo che un pilota, vedendo dal suo aereo le luci delle strade del mio quartiere, possa provare una sensazione simile.
In un certo senso, questa sovrapposizione analogica è molto sensata. Proprio come nel caso del viaggio in aereo, anche in autostrada ci troviamo circondati da un ambiente materiale che è composto da pochi elementi toccabili e molti intangibili. L’autrice, inoltre, specifica anche l’assenza delle vie laterali, per aumentare ancora di più l’idea che i luoghi che vediamo dall’auto siano effettivamente inaccessibili. Oltre a questo, anche quando viaggiamo in auto non possiamo dire di essere concretamente “ancorati al suolo”. In generale, è sensato descrivere un viaggio come quello autostradale come manchevole di concretezza e, da questo punto di vista, fioriscono le somiglianze con lo spostamento aereo. Dal momento che c’è una somiglianza sufficiente, quindi, è possibile usare il viaggio autostradale per comprendere quello aereo. L’aspetto pratico e sperimentale della vicenda sta proprio in questo uso costruttivo dell’immaginazione. Il ricordo del sentimento che leghiamo a una vecchia esperienza viene preso e viene “forzato” all’interno di una nuova costruzione mentale, in cui proviamo a capire se sia sensato provare certe sensazioni o se la nostra immaginazione “faccia resistenza”. Non solo, dal momento che l’analogia panpanya / pilota e abitante / guidatore tiene, l’autrice prova a usare l’esperienza che sta provando – quella di distacco, vedendo un aereo lontano – per comprendere quello che, invece, una persona esterna, che vive in prossimità dell’autostrada, prova pensando alle macchine che passano.
Terza storia: La storia dei pesci.
L’invenzione di artefatti stravaganti, in realtà, è solo uno dei modi con cui panpanya sperimenta con gli aspetti psicologici e sociali del quotidiano. Questa e la prossima storia (Innovation), infatti, sono in qualche modo simmetriche. Il contesto in cui entrambe le storie sono ambientate è quello lavorativo: in questa la protagonista lavora da pescivendola, nella prossima come operaia di fabbrica. La simmetria sta nel modo in cui panpanya usa la sua vena immaginativa per modificare le dinamiche che definiscono il lavoro a cui l’autrice è interessata. Ne La storia dei pesci, infatti, l’autrice inserisce un elemento completamente alieno alla nostra quotidianità per indagare come le pratiche lavorative cambierebbero, come i pescivendoli svilupperebbero nuove strategie per trattare questo nuovo elemento inventato dall’autrice. Al contrario, Innovation mostra come possano esistere modi assurdi e imprevedibili alla base della produzione di una risorsa – l’energia elettrica, in questo caso – senza che vi sia niente di esterno. È la pratica stessa a essere descritta come lontana dal nostro mondo, in quel caso.
La storia dei pesci, il racconto mostra come la capacità immaginativa di panpanya non sia solo legata agli artefatti, ma trovi una controparte anche nel mondo organico. Al centro del racconto sono i sugarelli parlanti, specie inventata dall’autrice che ha sviluppato una peculiare strategia evolutiva per sopravvivere alla pesca umana: i sugarelli parlanti sono infatti capaci di imitare la lingua parlata, in modo da impietosire i pescatori e aumentare le loro chances di sopravvivenza.
L’idea stessa di un’imitazione apre il campo a riflessioni variegate sul nostro rapporto con gli animali non-umani: i sugarelli stanno solo imitando o c’è un barlume di consapevolezza dietro i loro atti linguistici? Siamo davvero capaci di distinguere i due casi? La questione getta un aspetto crudele su tutto il racconto che – in ogni caso – va tenuto costantemente di conto, specie se messo in relazione all’universo lavorativo descritto dall’autrice. Come dicevo, un aspetto affascinante della sperimentazione di panpanya è il modo in cui mostra come i sugarelli parlanti abbiano delle conseguenze sulle pratiche ittiche. Detto altrimenti, ciò che possiamo notare con interesse è come l’esistenza dei sugarelli parlanti abbia portato dei pescivendoli a elaborare nuove strategie di lavoro che, in altri casi, non esisterebbero. Uccidere animali vivi per la produzione di cibo è un lavoro ingrato e crudele, che plausibilmente nessuno vorrebbe svolgere. Nel racconto di panpanya, però, questo aspetto viene ancora più accentuato. Mentre panpanya si ritrova nella situazione di dover uccidere un sugarello parlante per la prima volta per preparalo alla vendita, le emozioni che prova sono contrastanti e divisive, tanto che la protagonista non riesce neppure a compiere l’atto.
panpanya, esclamando:
Ah Ah Ah! La prima volta è così per tutti! […]
Non ti era mai capitato di pulire dei pesci parlanti?17
Inoltre, poco dopo:
Un principiante, sentendoli, potrebbe pensare di lasciarli andare. Ma noi siamo dei professionisti!18
Queste affermazioni suggeriscono non solo che un professionista dell’ambito ittico non debba esitare, passando sopra alla crudeltà del gesto, ma osserva che le sensazioni provate da panpanya sono, in qualche modo, una forma di iniziazione, di rito di passaggio che tutti i pescivendoli degni di tale nome devono passare. Questa situazione suggerisce che, nel mondo in cui i sugarelli parlanti esistono, agli sfilettatori di pesce sia richiesto qualcosa di ancora più crudo rispetto a quelli del nostro mondo, dal momento che viene richiesto loro di sopprimere dei potenziali dubbi sulla natura cognitiva dei sugarelli. Questa attenzione per le pratiche specialistiche non riceve, però, un’enfasi esclusivamente psicologica, ma anche concreta. Tra pagina pagina 18 e 19, infatti, ci troviamo di fronte a una dettagliata rappresentazione del metodo di sfilettatura normalmente attuato per i sugarelli parlanti; evento che avviene proprio davanti agli occhi dell’incerta protagonista. Come dicevo, il processo è molto curato e rappresentato con minuzia di particolari, quasi a voler enfatizzare l’intento dimostrativo (e quasi manualistico) dell’operazione.
Un invito da un granchio.
Prendiamo il ritaglio che va da pagina 17 a pagina 18. Mentre è ancora in vita, il sugarello parlante è rappresentato con uno stile di disegno molto simile a quello della protagonista e di altri personaggi presenti nei racconti. Nel momento in cui, però, il povero sugarello inizia a essere sfilettato, il disegno diventa molto dettagliato e materiale, con uno stile analogo a quello usato dalla protagonista per rappresentare oggetti inanimati e ambienti cittadini. Ci sarebbe da riflettere su questa scelta stilistica, proprio perché trova un caso analogo nel racconto che apre la raccolta.
La mia ipotesi è che, in certi casi, panpanya alterni due modalità di rappresentazione per descrivere una stessa cosa a partire da come questa è percepita dalla protagonista. Scartando altre proposte interpretative che ritengo sbagliate e che allungherebbero inutilmente il commento, credo che la lettura più adatta è che questo cambio di stile possa essere presente in due casi: il primo è quando la protagonista-autrice non considera certe cose come oggetti mentre il secondo caso riguarda il fatto che la protagonista sviluppi una carica affettiva o un rapporto peculiare con certe cose. Per spiegare il primo punto possiamo considerare proprio questa storia: nel momento in cui il malcapitato sugarello viene sfilettato, questo cessa, anche agli occhi della protagonista, di essere un organismo vivente che può interagire con lei, ma diventa del cibo, un oggetto di consumo. Allo stesso modo, il granchio di Un invito da un granchio viene rappresentato realisticamente dalla protagonista dal momento che il suo obiettivo è proprio di mangiarselo. Il fatto che lo stile di disegno del granchio cambi, diventando simile a quello di panpanya, nel momento in cui lei lo prende in braccio per trasportarlo potrebbe invece rispecchiare proprio il secondo caso. La protagonista è ancora intenzionata a mangiarsi il povero crostaceo, ma il fatto di averlo preso con sé toccandolo ed entrando in contatto con lui lo rende, in qualche modo “unico”, segnando un qualche tipo di (crudele) avvicinamento affettivo.
Quarta storia: innovation.
Seguendo l’ordine della raccolta, innovation è il primo racconto a superare le poche pagine di estensione, arrivando intorno alla trentina. Una domanda che può sorgere spontanea è se questo cambio di formato abbia una conseguenza non banale19 sulle caratteristiche della narrazione, differenziando la storia dalle precedenti. Il discorso è complesso. Possiamo notare, prima di tutto, che, seppur a fronte di una maggiore quantità di pagine, la struttura più generale delle storie di panpanya resta immutata: c’è un evento bizzarro che avviene / la protagonista nota qualcosa di strano – quasi un mistero da risolvere – e la storia si conclude con la fine dell’investigazione sull’evento, che può avere risoluzione sia positiva che negativa.20 Questa impostazione quasi-investigativa viene mantenuta anche in innovation. Ciò che mi colpisce, però, è come la maggiore estensione della storia abbia una conseguenza su come questa astratta struttura narrativa vada a concretizzarsi. Prendiamo, per esempio, le prime tre storie della raccolta. Le poche pagine di Un invito da un granchio danno una natura più impressionistica al racconto: nelle poche pagine che compongono il racconto la protagonista non può dare spazio a troppi pensieri che – al contrario – si presentano come frettolosi e frammentari. Analogamente, questa frammentarietà può essere ritrovata proprio nella composizione dell’inseguimento, in cui gli ambienti si susseguono in modo disomogeneo. Se penso a ciò che provo mentre devo correre per inseguire qualcosa – che sia un autobus o altro – posso notare che l’ambiente che percepisco intorno a me diventa parziale e meno vivido; sicuramente questa parzialità è legata al fatto che io sia concentrato verso un obiettivo e non abbia tempo e modo di osservare con calma i dintorni. Questo aspetto di incompletezza è, in qualche modo, catturato dalla storia, anche in virtù della sua brevità materiale. Se pensiamo, invece, a Ricordi incomprensibili e al La storia dei pesci, entrambe le storie sono impostate come un investigazione che non trova soluzione. Da una parte le intenzioni della nonna rimangono impenetrabili, dall’altra rimane insoluto se i sugarelli parlanti siano davvero consapevoli di ciò che stanno dicendo. È vero che la struttura generale dei racconti di panpanya è spesso definibile come quasi-investigativa, però vorrei far notare che un’investigazione può avere varie forme. Poniamo di leggerci un bel romanzo giallo in cui però, alla fine di estenuanti investigazioni, il caso si rivela così complesso che l’assassino non viene trovato. Qui la mancata risoluzione del caso può esprimere vari sentimenti: l’incertezza del detective, il senso di difficoltà nel comporre delle prove o il senso di paranoia legato alla paura di accusare un innocente. Plausibilmente un romanzo che vuole esprimere questi stati d’animo sarà favorito nel caso in cui il libro fosse particolarmente lungo. Anche nel secondo e nel terzo racconto di An invitation from a crab ci troviamo di fronte a degli interrogativi irrisolti; la lunghezza di entrambe le storie, però, veicola un altro tipo di sentimenti. Da un certo punto di vista, entrambi i racconti possono essere viste come degli enigmi, degli indovinelli, delle sorte di kōan che servono a chi legge per riflettere su alcune questioni.
Passiamo ora a innovation. La lunghezza di innovation può essere interessante se messa in rapporto a questioni che riguardano il senso di ripetizione lavorativa che possiamo trovare nella storia. Innovation si svolge in due ambienti principali: la scuola in cui panpanya studia e la centrale elettrica in cui svolge un lavoro part-time. Ora, concentrandoci sull’ambiente più importante dei due per la narrazione, la centrale richiama, molto più in generale, alcuni dei grandi temi dell’arte tra ‘800 e ‘900 come quello della vita in fabbrica, della conseguente alienazione dal proprio prodotto da parte degli operai o, ancora, della meccanizzazione del lavoro manuale. Tutti temi complessi e molto raffinati di cui possiamo trovare un’istanza anche all’interno di innovation. Ciò su cui vorrei concentrarmi, però, è il fatto che la lunghezza della storia permetta di costruire, in relazione alla centrale, una sorta di micro-quotidianità tutta interna alla storia. Chiunque abbia fatto un lavoro ripetitivo, che non ha veramente voglia di fare, per mettere da parte qualche soldo avrà provato probabilmente qualcosa di simile: esistono una dimensione e un ritmo che sono esclusivamente interni al lavoro e che, in qualche modo, influenzano anche ciò che dobbiamo fare fuori dal lavoro. Se, per esempio, dobbiamo presentarci abitualmente in un luogo di lavoro a una certa ora, probabilmente svilupperemo dei ritmi e delle abitudini che sono legati all’atto di andare a lavorare. Anche solo l’atto di compiere un percorso per raggiungere il luogo di lavoro, per esempio, potrebbe assumere una dimensione diversa, quasi rituale, che va a “prepararci” per “passare” all’interno di un mondo in cui vigono delle regole differenti. Questo aspetto è catturato molto bene da un parte del racconto compresa da pagina 28 a 30, in cui dei sobborghi malinconici e solitari accompagnano la protagonista nel suo percorso per il lavoro.
panpanya nasce da un interrogativo che riguarda il suo lavoro: in che modo il mio lavoro – quello di rompere ripetutamente delle noci di cocco – dovrebbe essere legato alla produzione di energia elettrica? Tornando ai grandi temi legati al lavoro di fabbrica a cui facevo riferimento prima, la domanda di panpanya può essere vista, sì, come una manifestazione più generale dell’alienazione operaia verso il prodotto finale del loro lavoro, ma anche come un’interrogazione che riflette uno specifico approccio investigativo sul rapporto tra oggetto prodotto e produzione. Ciò che interessa a panpanya qua non è tanto fare un’affermazione politica, quanto di comprendere questo assurdo processo che ha come risultato la produzione di energia elettrica. La ripetizione degli ambienti, concessa dalla maggiore lunghezza, qua ha sia una funzione simbolica che una climatica. Simbolica perché possiamo notare come, con il ripetersi degli ambienti e, parallelamente, con il procedimento dell’investigazione, l’architettura della fabbrica diventi sempre più deforme e opprimente. Il riferimento qua è alle pagine 44 – 46, che sembrano richiamare nel modo organico – quasi metastatico – del loro sviluppo una versione abbozzata delle forme del Blame! Di Nihei Tsutomu. In questo caso il fatto che la fabbrica sia anche per noi un ambiente familiare è importante nel momento in cui la protagonista, decidendo di addentrarsi nei meandri della centrale per scoprire la verità, viola un luogo a cui non avrebbe dovuto accedere. Scoprire il segreto della centrale equivale a valicare degli spazi che non associavamo alle nostre abitudini lavorative. Una volta valicato questo spazio, l’edificio diventa sempre più opprimente, costituendo una vera e propria costruzione simbolica del climax investigativo e comico della vicenda. La risoluzione di questo climax ha come conseguenza un travolgente effetto comico provato dall’assurdità della scena. Capiamo bene, però, come questo non sarebbe stato possibile senza aver descritto la centrale come un luogo – seppur sgradevolmente – familiare.
Quinta storia: Inferno.
Su questa divertente storia ho poco da dire, se non qualche rapida considerazione sul contrasto grafico-narrativo su cui gioca la narrazione. Mentre il titolo e le prime pagine sembrano presagire una situazione tragica e oscura, la risoluzione va a dissipare comicamente queste aspettative nefaste. Questo contrasto è incarnato anche dall’uso del colore: mentre le prime pagine sono dominate dalla presenza di acquerelli scuri che acuiscono l’atmosfera drammatica della scena, nell’ultima tavola i colori si schiariscono d’improvviso. Il bianco diventa infatti predominante e la quantità di testo aumenta nettamente dando l’idea, nel momento in cui si volta la pagina, che la tensione drammatica sia svanita e siamo davanti a una risoluzione inaspettata.
Terza nota: Oscillazione.
Se dovessi isolare il femomeno che la “ricerca psicologica” di panpanya vuole descrivere in questa nota, probabilmente parlerei del legame tra concentrazione e percezione interiore del tempo. Come in tanti altri elementi della raccolta, il processo che l’autrice vuole descrivere è innescato da un evento che viola le sue aspettative. Nello specifico, parliamo di un fenomeno visivo: la strana oscillazione di un albero porta infatti panpanya a interrogarsi sui possibili motivi di questo avvenimento. A muoverlo non può essere il vento, che è assente; che sia un bambino che è salito sull’albero per giocare? Oppure no, chissà. Questa anomalia percettiva porta l’autrice a concentrarsi, formulando un fiume di ipotesi da cui si lascia trascinare. A un certo punto, però, questo fiume viene interrotto da un’osservazione meta-riflessiva: questa continua formulazione di ipotesi sembrava un lavoro che era andato avanti per un arco di tempo molto disteso mentre, in realtà, non era durato poco più di una manciata di secondi. C’è quindi un legame tra concentrazione e passaggio del tempo interiore? Maggiore è la concentrazione che usiamo nello svolgere un’azione, più il tempo sembra dilatarsi nella nostra interiorità: questa è la regolarità interiore che panpanya sembra voler documentare indagando il proprio animo. Non è infatti un caso che, dopo che la narratrice ha descritto minuziosamente le proprie ipotesi per diverse righe senza trovare soluzione, vada poi ad affermare di aver avuto la sensazione di averlo [l’albero] osservato a lungo, mentre invece si è trattato solo di un breve istante. Che la nostra capacità attenzionale sia legata alla sua coscienza temporale è qualcosa che si ritrova spesso nella produzione giapponese. Anche solo pensando a qualche titolo mainstream contemporaneo legato all’azione, un richiamo di questo fenomeno può essere ritrovato in grandi opere come Hunter x Hunter di Togashi Yoshihiro o Jujutsu Kaisen di Akutami Gege. Passando a casi meno popolari – ma sempre legati al tema dell’azione o dello sport – è possibile trovare dei fenomeni analoghi anche in forme più realistiche come quelle presenti in Shigurui di Yamaguchi Takayuki o all’interno di Ping Pong di Matsumoto Taiyō. Questi sono solo alcuni esempi ma, in generale, non è raro trovare un’attenzione particolare per fenomeni che riguardano l’alterazione della percezione del tempo in opere che descrivono azioni molto intense e condensate, come negli sport o nelle lotte. Molto più difficile è trovare racconti che esemplificano questi meccanismi in contesti quotidiani.
Terzo appuntamento: N.D.
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Note
L’ultimo volume pubblicato è Fish Society, uscito nell’agosto del 2023. ↩︎
Anzi, a volte può anche succedere che non ci sia niente da scrivere durante un viaggio. ↩︎
D’ora in avanti mi permetto di fare due operazioni indebite: la prima sarà riferirmi a panpanya usando il genere femminile; parlo di operazione indebita dal momento che il genere di panpanya è tutt’ora sconosciuto. Il motivo per cui decido comunque di usare il femminile è – ahimé – per la mia mancanza di abitudine nell’uso del neutro nei contesti più formali in cui devo usare la lingua scritta; per questo motivo ho deciso di accodarmi alla traduzione italiana, che si riferisce alla protagonista delle storie con il femminile. La seconda operazione indebita sarà proprio quella, in certi casi, di usare il nome panpanya sia per riferirmi all’autrice che alla protagonista delle storie; per fare ciò mi sento in parte legittimato dalla natura molto personale dell’opera, che permette un’identificazione tra autrice e personaggio fittizio. ↩︎
Degli esempi richiedono, solitamente, di andare verso forme più sperimentali di fumetto, come può succedere per il Rusty Brown di Chris Ware. ↩︎
Io per primo. ↩︎
L’espressione è volutamente pacchiana, perché spero riesca a dare l’idea di qualcosa che richiede un tipo di “immobilità” e passività esperenziale. ↩︎
Tanto che farne reverse engineering sembra praticamente impossibile. ↩︎
Prendo questa storia come riferimento, ma credo sia una riflessione estendibile a buona parte della sua produzione. ↩︎
Seppur spesso, in virtù di un uso decisamente bizzarro dei volumi, gli oggetti ambientali sembrano quasi capaci di deformare, curvare lo spazio intorno ai soggetti viventi. ↩︎
La mia idea è che questa differenza nelle modalità di rappresentazione sia legata a una distinzione che panpanya implicitamente fa tra agenti e ambienti. Ciò che ho più volte notato durante la lettura, infatti, è che la seconda modalità di rappresentazione è riservata a quel tipo di cose che possono agire attivamente con l’ambiente: esseri umani, pesci, salamandre et cetera. Questa idea entra in contrasto con un fatto abbastanza fondamentale, presente già in questo racconto: se quella che ho chiamato seconda modalità viene usata per gli agenti biologici, perché il granchio della storia è, invece, rappresentato con la prima modalità (ovvero in modo dettagliato, tendente al realistico)? Si osservi che, in realtà il granchio viene rappresentato in entrambi i modi durante il racconto: il secondo stile viene adottato nel momento in cui la protagonista lo prende con sé, entrandoci in contatto. La mia ipotesi (che ritornerà anche nel commento di uno dei racconti successivi) è che la seconda modalità valga per esseri viventi che panpanya non percepisce come oggetti: l’alternanza tra primo e secondo stile dipenderebbe, forse, dal fatto di considerare un po’ crudelmente il fuggitivo come qualcosa da mangiare (come un oggetto quindi) o come un essere vivente con cui interagire (nel momento in cui viene sollevato). ↩︎
Pag. 6, vignette 3,4,5. ↩︎
Io direi che, in questo caso, “vedere” può essere inteso in modo più generale come “avere esperienza”. ↩︎
Sicuramente dei testi sull’argomento possono essere trovati nella letteratura scientifica nata dalla produzione pionieristica di James Gibson. Altrimenti, se qualcuno non fosse troppo interessato ad approfondire le questioni dal punto di vista delle scienze psicologiche, mi viene a mente che questo concetto è stato presentato anche in un breve testo: Ambienti Umani e Ambienti Animali scritto dal biologo Jakob von Uëxkull, ultimamente riscoperto anche nell’ambito dell’ecocritica letteraria. ↩︎
In un senso ampio, anche gli ambienti urbani, le tradizioni, le costruzioni linguistiche e simili sono produzioni artefattuali. Io invece voglia parlare specificamente di oggetti maneggiabili, come gli utensili. Preferisco non usare il termine “utensile”, però, perché, come vediamo in questa storia, in realtà non è ben chiaro se gli oggetti descritti abbiano un qualche tipo di utilità pratica. ↩︎
Da questo punto di vista, sarebbe molto interessante approfondire la questione cercando affinità e differenze tra panpanya e altri importanti artisti pop che si sono interessati alla rappresentazione di oggetti meccanici o cimeli nel panorama giapponese, quali Otsuka Yasuo, Miyazaki Hayao, Okawara Kunio, Anno Hideaki, Otomo Katsuhiro, Toriyama Akira, Nagano Mamoru, Urasawa Naoki e tanti altri. ↩︎
Pag. 15. ↩︎
Pag. 18, vignette 5,6. ↩︎
Pag. 19, vignetta 5. ↩︎
Qui con “non-banale” mi riferisco a caratteristiche che non riguardino solo la maggiore quantità di immagini o cose simili. ↩︎
Nella prima storia, per esempio, la presenza di un granchio in un ambiente cittadino ha una risoluzione positiva e il mistero viene “risolto”. Nelle altre due storie brevi, al contrario, la situazione non arriva a una vera e propria soluzione, in questo senso possiamo considerarle “negative”. ↩︎
Etica, Dilemmi e Scelta in Togashi Yoshihiro
Questo articolo è stato scritto originariamente tra agosto e novembre del 2021. La mia intenzione iniziale era quella di pubblicarlo esclusivamente all’interno di una raccolta su fumetto e animazione, evitando di prendere un altro spazio sul blog di Matteo. Riflettendoci, non c’erano ragioni vere e proprie per non pubblicarlo online. Semplicemente, quando si scrive è anche bello sperimentare e variare gli ambiti di pubblicazione. In ogni caso, negli anni ho comunque passato il testo a vari amici come Matteo, Paolo Toti, Matteo Cardelli, Luca, Danilo Manzi e Lorenzo Di Giuseppe, che hanno fatto sempre seguire a un’attenta lettura delle fruttuose discussioni. Oltre a loro, lo scritto è arrivato anche a un’altra persona che ne è rimasta particolarmente entusiasta, tanto da voler scrivere un nuovo articolo che fosse (idealmente) il proseguimento del mio. Pensavo che fosse un’esagerazione, invece è andata effettivamente così: Settembre è il mese più crudele - perché vale la pena perdersi dentro York Shin City, che sarà presente in Keiko - Bedroom Comics Criticism #1, si pone proprio in continuità con Etica, Dilemmi e Scelta in Togashi Yoshihiro. Nonostante l’articolo di Keiko (che mi è stato già inviato) sia in linea di principio apprezzabile anche senza aver letto il mio, mi sembrava comunque una buona cosa che i lettori e le lettrici vi avessero accesso, in modo da avere sotto gli occhi il quadro completo. Spero la troverete una lettura gradevole.
Ecco perché i tipi troppo seri sono difficili da trattare.
Yū Yū Hakusho)
Introduzione
Quando ci approcciamo alle narrazioni (realistiche o meno) non è difficile ritrovarci a dare una valutazione morale degli eventi che ci si presentano davanti. Questo succede con ogni tipo di storia, dai romanzi, al cinema fino ai fumetti. Si potrebbe forse sostenere che, in qualche misura, ogni tipo di narrazione ha un impegno morale sottostante; allo stesso modo, però, è innegabile che in alcune opere questo valore traspaia con maggiore lucidità.
Devilman, Akira, Monster o Nausicaä della valle del vento è veramente difficile non notare una forte componente etica al centro dell’opera. Storie di questo tipo possono infatti avere un ruolo fondamentale per il lettore: Monster può portare a interrogarsi sul valore di certi dilemmi morali nel momento in cui la propria deontologia si trova in contrasto con un particolare contesto, mentre Nausicaä può farci riflettere sul modo in cui concepiamo la natura e come dobbiamo agire nei suoi confronti1.
2 e che alcune possano essere più adatte rispetto ad altre per questo ruolo. Lo scopo di questo articolo è mostrare che il mangaka Togashi Yoshihiro dovrebbe essere compreso tra gli autori che presentano un’attenta problematizzazione morale all’interno delle loro opere.
mainstream, in particolare per Yū Yū Hakusho (conosciuto in Italia come Yu degli spettri) e Hunter x Hunter (opere già considerabili come classici nella produzione giapponese); questo non implica però che l’autore scelga delle tematiche o delle narrazioni superficiali nelle sue opere3. Ciò che proveremo a sostenere è che nelle opere di Togashi la componente etica sia, infatti, fondamentale per comprendere la poetica stessa dell’autore.
Level E), mentre l’ultima si focalizzerà su quelle più famose.
Nausicaä e la Natura: Un'analisi critica del fumetto di Miyazaki Hayao di Yupa
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Etiche humeane a grana grossa
Come abbiamo già accennato, il quadro interpretativo che prenderemo come riferimento per analizzare le opere di Togashi vede come figura cardine il filosofo scozzese David Hume. Qualcuno potrebbe trovare questo richiamo a Hume nel ventunesimo secolo come anacronistico. Tale accusa è aggravata dalla sua applicazione a opere pop di recente pubblicazione, come quelle di Togashi.
4: da una parte assistiamo a una ripresa delle cosiddette etiche della virtù (di cui le etiche humeane fanno parte), da un’altra è innegabile un interesse sempre maggiore per argomenti come le emozioni o la natura sociale dell’uomo. Oltre a questo, le etiche humeane si prestano particolarmente bene a essere integrate in un quadro naturalistico, cosa che permette loro di interagire fruttuosamente con ambiti come la psicologia cognitiva e la biologia.
5.
etiche delle virtù6 e che abbiano una matrice sentimentalista.
compassione verso il paziente e al coraggio verso delle regole che si avvertono come scorrette. Notiamo già, quindi, che le etiche della virtù possono essere considerate come teorie in cui il contesto ha un valore fondamentale, così come lo hanno le intenzioni e le ragioni dell’agente. A differenza di altre teorie etiche, il carattere e i bisogni degli individui coinvolti nell’azione morale sono estremamente importanti per un teorico delle virtù. Questa idea si sposa benissimo con la seconda caratteristica delle etiche humeane, cioè il fatto che i sentimenti siano usati come risorse che ci permettono di distinguere un’azione virtuosa da una viziosa.
approvazione o di biasimo che proviamo di fronte a una certa azione7.
Predicati come “agire moralmente” andrebbero quindi ancorati a chi enuncia il giudizio morale.
“essere virtuoso/vizioso per x”.
8.
9. La cosa interessante è che in etiche di questo tipo uno spazio rilevante non è occupato solo dai sentimenti degli individui, ma anche dalla nostra capacità di comprendere le ragioni degli altri quando compiono particolari scelte. Chiaramente comprendere le ragioni altrui potrebbe non essere sufficiente per ritenere un’azione come virtuosa, poiché potremmo trovare un’azione riprovevole pur comprendendone le ragioni. Quello che è importante tenere a mente è che la comunicazione dialogica tra individui e lo scambio di punti di vista diversi ha un ruolo centrale all’interno delle etiche humeane.
10.
La regola del gusto e altri saggi di David Hume (a cura di Giulio Preti)
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Come abbiamo già accennato, un’idea centrale in queste teorie è che le scelte morali non siano realisticamente sganciabili dagli interessi e dai desideri degli individui11: quando ci troviamo a fare delle scelte, potremmo non essere “trasparenti a noi stessi” e desiderare cose estremamente differenti tra di loro. Questo potrebbe portarci a non saper decidere che azione compiere in un particolare contesto. Riassumendo, ci troviamo di fronte a teorie che relativizzano la distinzione tra morale e immorale ai singoli individui che giudicano un’azione e che potrebbero non condannare come immorale la possibilità da parte di un agente di non saper agire di fronte a certi dilemmi morali. Arrivati a questo punto, un’obiezione abbastanza ovvia che potrebbe essere mossa alla teoria che abbiamo presentato è questa: se un’azione morale è veramente fondata sui sentimenti che proviamo singolarmente, allora non è possibile un vero e proprio disaccordo morale12. È normale che, quando compio un’azione, io approvi ciò che sto facendo, in quel caso l’azione sarebbe buona per me. Io potrei, però, compiere un’azione che danneggia molte persone e approvare comunque la mia stessa condotta. In questo modo un assassino potrebbe compiere un’azione virtuosa almeno quanto può compierla un santo, dal momento che entrambi hanno delle ragioni e dei sentimenti che permettono di approvare le loro stesse azioni. Questo problema viene parzialmente risolto considerando il concetto di simpatia che Hume presenta nel Trattato sull’intelletto umano13. Con simpatia ci riferiamo a un meccanismo psicologico non-inferenziale che ci permette, in gradi diversi, di provare le stesse sensazioni esperite da un individuo quando si trova in una particolare situazione14. Quella della simpatia è una sorta di tendenza naturale che gli uomini hanno di immedesimarsi nei panni degli altri, comprendendo le loro passioni e i loro interessi. In questo senso, quando compiamo un’azione che sia utile o piacevole per gli altri noi possiamo sentire che questi provano un piacere derivante dalla nostra azione, proprio in virtù della simpatia. Allo stesso modo, la simpatia ci permette di comprendere quando arrechiamo danno a qualcuno.
disaccordo: un’azione morale non sarà solo un’azione che noi stessi approviamo, ma che potrà essere approvata anche dagli altri in un contesto più generale possibile. In questo modo l’azione di un assassino potrebbe essere approvata da lui, ma trovare una disapprovazione totale da parte degli altri. La simpatia si presenta quindi come una guida necessaria per imparare ad agire moralmente.
dipende dal contesto sociale in cui è effettuata e può essere continuamente perfezionata15 a causa della variabilità dei nostri rapporti sociali. Questa idea permette di considerare una visione dell’etica fortemente vincolata ai contesti sociali e storici, in cui gli individui possono cambiare continuamente prospettiva rispetto alle cose tramite l’interazione virtuosa con gli altri. Da questo punto di vista, agire moralmente non è tanto un fatto, quanto un ideale a cui aspirare.
Come trattare uno stomaco invisibile
Dopo aver fornito le coordinate concettuali che useremo d’ora in avanti, possiamo iniziare a vedere come queste si applichino alle opere di Togashi Yoshihiro partendo da una storia breve presente in Level E, manga serializzato su Weekly Shōnen Jump dal 1995 al 1997 e pubblicato in Italia da Planet Manga nel 2012.
Ci sono diverse ragioni per dare a Level E un ruolo centrale all’interno di questo articolo. La prima ragione riguarda la sua scarsa popolarità tra i lettori italiani; tra le opere di Togashi portate in Italia, infatti, Level E è sicuramente la meno letta e conosciuta. Dietro questa analisi c’è quindi la speranza che qualche lettore interessato possa avvicinarsi a un manga decisamente meritevole. La seconda è che, a livello editoriale, l’opera risulta essere abbastanza peculiare: non solo Level E rappresenta un caso di pubblicazione mensile su rivista settimanale, ma, in un’intervista pubblicata per i 50 anni della rivista Weekly Shōnen Jump, è Togashi stesso ad affermare che la creazione dell’opera avesse lo scopo di mostrare un lato del suo carattere che non era riuscito a emergere in Yū Yū Hakusho16. Oltre a questo, Togashi parla di un suo interesse “duplice” per il fumetto, che l’autore paragona al rapporto dialettico tra yin e yang: mentre da una parte rimane costante la sua voglia di pubblicare per una rivista mainstream, dall’altra non nega un profondo interesse per riviste alternative come Garo. Queste due informazioni possono servirci per comprendere perché ritenere Level E così interessante. Di fatto è impossibile negare che, nella produzione dell’autore, l’opera sia quella che si allontana di più da strutture e tematiche mainstream; se consideriamo che questa natura più alternativa nasce proprio dalla volontà del mangaka di svelare “uno dei suoi lati nascosti”, è abbastanza plausibile pensare che Level E sia un’opera fondamentale per comprendere il pensiero e la poetica di Togashi.
Level E possiamo infatti trovare, seppur spesso a livello germinale, quasi tutti i nuclei tematici presenti nelle opere di Togashi: dal rapporto tra natura e cultura al tema del cannibalismo, dalla riflessione sull’importanza delle informazioni fino alla natura della finzione e del gioco. Questi e molti altri temi fondamentali appaiono in modo evidente all’interno di Level E; capiamo quindi come l’opera sia necessaria sia per comprendere meglio gli interessi dell’autore che per avere un quadro più chiaro degli argomenti affrontati nelle altre opere.
La storia breve che analizzeremo, cioè quella dei capitoli 004 e 005, affronta proprio il tema del cannibalismo, argomento già presente in Yū Yū Hakusho ma poi ampliato in Hunter x Hunter.
Level E e alter ego dell’autore) che viene esposto a un editor decisamente poco brillante. Quello che il principe Baka cerca di spiegare è che la sua opera può svolgere un ruolo di perfezionamento morale, permettendo ai lettori di comprendere punti di vista differenti dai propri. Un’idea simile è perfettamente in linea con una teoria humeana, dal momento che questa assume che le narrazioni abbiano proprio il ruolo di raffinare i sentimenti dei lettori nei confronti degli altri individui17.
Level E, anche la storia dei capitoli 004 e 005 parla di alieni che popolano la Terra all’insaputa degli umani; occasione che l’autore sfrutta per permettere a culture, società e visioni del mondo diverse di interagire. È infatti fondamentale notare che, sin dal primo capitolo dell’opera, l’interesse di Togashi sembra essere squisitamente socio-antropologico: l’immenso immaginario della fantascienza non è solo uno strumento narrativo ma anche un banco di prova per costruire culture e valori alternativi che possono facilmente entrare in conflitto con i nostri. Proprio questo interesse sembra giustificare in modo brillante la presenza nel racconto del tema del cannibalismo.
18. Yamamoto e gli altri componenti della sua famiglia sono gli ultimi conwelliani rimasti e si trovano nella terribile situazione di continuare a provare fame per coloro verso le quali provano attrazione sessuale, senza però potersi riprodurre. Come viene specificato, infatti, l’assimilazione di carne non conwelliana non ha alcuna funzione nella loro riproduzione. La cosa interessante da tenere a mente è proprio il fatto che i conwelliani continuano a provare questo tremendo senso di fame finché non si nutrono della partner e che questo sentimento non è placabile in altro modo (questo fenomeno xeno-biologico nella storia è chiamato stomaco invisibile); in un certo senso i conwelliani si “trovano costretti” a nutrirsi di carne umana, seppur sia completamente inutile a fini riproduttivi.
Il fenomeno del cannibalismo è molto complesso non solo per ragioni scientifiche ma anche per la sua forte connessione con le nostre intuizioni morali. Dal nostro punto di vista è abbastanza comune trovare il cannibalismo come un’azione immorale; interessante è riflettere sul fatto che, invece, non tendiamo a dare giudizi così netti quando il cannibalismo è effettuato da specie diverse dalla nostra. Intuitivamente, un motivo valido potrebbe essere che le azioni di un cannibale umano dipendano da azioni volontarie o razionali, cosa che magari non succede per altri animali19.
volontà in virtù della quale riusciamo ad attribuire responsabilità ad altri individui e a riconoscere le loro azioni come morali.
se gli fosse ordinato di non dormire20. Addormentarsi, infatti, sembra essere un’azione che non può essere controllata dalla volontà o da altri atti intenzionali (se non in minima parte), a differenza di azioni come leggere, scrivere o afferrare una palla. Una chiara applicazione delle etiche humeane si lega proprio a questo problema: il fatto che i conwelliani non abbiano controllo delle loro azioni li rende effettivamente colpevoli di azioni immorali? Mentre per certe etiche che si appellano a regole astratte il comportamento dei conwelliani è inequivocabilmente immorale (ad esempio teorie che ritengono che uccidere sia intrinsecamente sbagliato), possiamo capire che per un’etica humeana la cosa è molto più difficile.
avrebbe voluto parlare con Yamamoto, ma non avrebbe avuto niente da dirgli, e nella scelta, altrimenti ingiustificabile, dei protagonisti di continuare a lavorare nella clinica aliena che gli aveva fornito informazioni sui conwelliani. L’interpretazione più plausibile, perfettamente in linea con il quadro humeano, è proprio che i protagonisti, di fronte alla loro impotenza nella risoluzione del dilemma, abbiano deciso di fare maggiore esperienza con specie differenti per avere una sensibilità più sviluppata all’interno di quei contesti e capire quale sia il modo migliore di agire di fronte ad altri problemi simili21.
Esempi e spunti
Mentre la sezione precedente aveva lo scopo di presentare un caso che avesse una valenza generale, facilmente comprensibile anche da un lettore lontano dalle opere di Togashi, quella attuale serve a fornire una serie di esempi che possano rendere evidente la plausibilità di un approccio humeano alle opere dell’autore. D’ora in avanti si assume che il lettore abbia almeno una conoscenza basilare delle trame e dei temi di Yū Yū Hakusho e Hunter x Hunter.
Ancora carne, ma più ironia
Nonostante Yū Yū Hakusho sia principalmente ricordato per le sue scene di combattimento, è interessante notare come una forte tematizzazione morale emerga negli ultimi 60 capitoli dell’opera. Basti pensare che leggendo il capitolo 117, in modo totalmente inaspettato, il lettore si ritrova, tramite gli occhi di Sensui, ad assistere a un festino in cui decine di persone vengono perversamente torturate, fatte a pezzi e gettate in pozze di sangue. Questo cambiamento di stile, esplicitamente horror, fa da “apripista simbolico” all’interesse per i temi morali che l’opera inizia a sviluppare. Lo scopo evidente di questi ultimi capitoli è chiedersi fino a che punto dei principi morali possano essere generalizzabili22, mostrando come i rapporti tra bene e male siano in realtà estremamente sfumati: dopo aver combattuto con i demoni per buona parte della storia, i personaggi inizieranno infatti a interagire maggiormente con loro, fino a giustificare molte delle loro pratiche.
23. Questa scelta, a prima vista contraddittoria, può essere facilmente interpretata da un quadro humeano. Dobbiamo infatti ricordare che, dopo un anno passato nel regno dei demoni, Yusuke ha tutto il tempo di comprendere i valori dei demoni e le loro pratiche di vita. I demoni al seguito di Raizen si nutrono di carne umana, ma non ritengono il fatto così importante, tanto che alcuni ammettono tranquillamente di voler smettere di farlo24. All’interno di un’ipotetica scala dei valori, per i sottoposti di Raizen ciò che è importante è il divertimento provocato dallo scontro, la carne umana ha solo la funzione di accrescere la forza dei demoni permettendo loro di avere performance migliori durante il combattimento. Yusuke mostra di aver compreso pienamente questa scala di valori, per questo si propone di procurare della carne al padre. In quel contesto sociale l’azione non è sicuramente vista come immorale, mentre lo sarebbe stata nel caso il consumo di carne umana fosse stata già abolita nel regno di Raizen.
25, che non risparmia nessuno dei demoni con cui combatte. Dopo aver incontrato Itsuki, questo lo corrompe “come si fa con una bambina innocente facendole vedere un porno senza censure”26 mostrandogli le mostruosità di cui sono capaci gli esseri umani; proprio da lì Sensui decide di voler causare un genocidio umano. Nonostante siano entrambi detective del mondo degli spiriti, Sensui pare essere una versione degenerata di Yusuke e la ragione principale di questa differenza è radicata nel concetto di moralità che hanno i due. Mentre Yusuke viene scherzosamente considerato come un detective poco serio da Koenma, Sensui, al contrario, ha un ferreo senso di giustizia. Se Yusuke si adatta particolarmente bene a un’etica più concreta (come quelle humeane), Sensui è associabile a visioni etiche astratte e universalistiche. Di fatto, Sensui sembra voler sterminare gli esseri umani perché, come i demoni, anche questi sono malvagi per natura, se non peggio. L’imperativo di far estinguere i malvagi, che inizialmente era applicato solo ai demoni da parte di Sensui, subisce un cambio di dominio: dopo aver realizzato che gli umani sono capaci di azioni orribili, allora la norma deve essere applicata anche a loro. Posizioni di questo tipo sono chiaramente in contrasto con un’etica humeana e il fatto che Sensui sia descritto come un personaggio negativo, potrebbe essere interpretato come una critica verso un modo eccessivamente astratto di intendere le distinzioni morali. Dopotutto, il finale di Yū Yū Hakusho sembra suggerire proprio che mondi diversi hanno sistemi di valori complessi e ugualmente ricchi che, nonostante le differenze, possono in qualche modo provare a integrarsi e comunicare.
Yu degli spettri - New Edition di Togashi Yoshihiro
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“Forse perché non li conosciamo?”
Mentre in Yū Yū Hakusho le questioni morali iniziano a emergere solo nell’ultimo terzo dell’opera, Hunter x Hunter sembra ereditare sin dal principio una certa complessità tematica da Level E, complessità tematica spesso sviluppata in modi decisamente brillanti. È inutile dire che temi come quello di natura e cultura siano fondamentali nella saga delle Formichimere, così come per un lettore attento sarà impossibile non notare che il rapporto tra Komugi e Meruem viene impostato secondo quelle dinamiche comunicative e di comprensione dei valori reciproci che sono fondamentali nelle etiche humeane. Poiché lo spazio rimanente è veramente poco (e poiché sarebbe necessaria una serie di articoli per esaurire la ricchezza delle Formichimere), preferiamo fornire esempi tratti da una saga meno esplicita su queste tematiche, ciò quella di York Shin City.
York Shin City è una saga decisamente peculiare, sia dal punto di vista stilistico che da quello narrativo: di fatto la storia alterna momenti noir ad altri di thriller investigativo, sempre all’interno di un contesto horror di sfondo. Nonostante queste componenti estetiche siano fondamentali durante la lettura della saga27, uno spazio importante viene dedicato anche al modo in cui le azioni della Brigata Fantasma vengono percepite dai personaggi della storia.
shōnen classica ci troveremmo in un conflitto morale che rispecchia la divisione tra fazioni: da una parte avremmo i protagonisti della storia che incarnano valori corretti, dall’altra i nemici che rispecchiano dei comportamenti inaccettabili.
non li conoscono28.
Una simile affermazione si presta, chiaramente, a essere interpretata tramite il concetto di simpatia: il fatto che esista una distanza tra i membri della Brigata e altri individui esterni è ciò che li porta a valutare le loro azioni come non-immorali. La questione è facilmente comprensibile analizzando la struttura del Ragno. Questo si presenta come un gruppo in cui i membri versano un contributo di fedeltà verso un ente astratto, cioè il gruppo stesso. All’interno della Brigata esistono ruoli e funzioni e ognuno dei membri si rende conto della sua dispensabilità (o meno) nell’economia del Ragno29. Ciò che ha un valore primario è la sopravvivenza del gruppo.
compatta e comunitaria30, in cui i membri si identificano in un ruolo e provano fiducia solo per gli altri membri del gruppo, distanziandosi da strutture sociali più ampie. In un contesto simile è facile vedere come i membri della Brigata non provino alcun tipo di tendenza emotiva positiva verso gli esterni. Il lato più affascinante e profondo della questione si ha, però, dopo il rapimento di Chrollo. In quel caso il Ragno si spacca in due sottogruppi con opinioni differenti, tra chi vuole seguire gli ordini del capo (cosa che porterebbe alla morte di Chrollo) e chi vorrebbe sottostare alle regole dello scambio di ostaggi. Questa complicazione ulteriore è perfettamente in linea con la teoria che abbiamo presentato: nonostante esistano delle forti uniformità all’interno di un gruppo, è impossibile che i singoli individui non abbiano idee, desideri e necessità differenti.
a priori, ci permettano di classificare degli individui come santi o assassini. Piuttosto è più sensato concepire gli altri come coacervi di comportamenti virtuosi e viziosi, spesso in contraddizione; questa perdita di generalità nelle classificazioni morali non è da considerare come un difetto, ma come un fattore fondamentale per comprendere meglio le ragioni altrui e sviluppare in modo più adatto la nostra sensibilità morale.
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Bibliografia
Balistreri, M. (2010). Etica e romanzi. Firenze, Le Lettere.
Botti, C. (2014). Prospettive femministe. Milano-Udine, Mimesis.
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Greco, L. (2008). L’io morale: David Hume e l’etica contemporanea. Napoli, Liguori.
Greco, L. (2013). Toward a Humean Virtue Ethics. In Julia Peters (ed.), in Aristotelian Ethics in Contemporary Perspective (pp. 210-23). Londra, Routledge.
Hume, D. (1987). Trattato sulla natura umana. Roma-Bari, Laterza.
Hume, D. (2017). La regola del gusto e altri saggi. Milano, Abscondita.
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Sitografia
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Lo Spazio Bianco (2015), Yu degli spettri di Y. Togashi: l’equilibrio del male, consultato il 10/11/2021, da https://www.lospaziobianco.it/spettri-togashi-lequilibrio/.
Matteo Caronna - Terre Illustrate (2020, 12 Dicembre), Yoshihiro Togashi: rimedi alla noia feat Danilo Manzi [video], reperibile su https://www.youtube.com/watch?v=GlaMIZyZSF0 .
r/HunterXHunter (2018), Togashi’s Interview Translated – Jump 90’s Star Road of Glory!!, consultato il 14/11/2021, da https://old.reddit.com/r/HunterXHunter/comments/83js58/togashis_interview_translated_jump_90s_star_road/.
Note
Per una lettura approfondita sul ruolo della natura in Nausicaä si veda Yupa (2014). ↩︎
Questa assunzione è meno pacifica di quello che sembra, ma non sarà scopo dell’articolo approfondire la questione. Per un quadro generale si veda Balistreri (2010). ↩︎
Per una infarinatura divertente sulla complessità dell’autore si consiglia di recuperare il video Yoshihiro Togashi, rimedi alla noia sul canale YouTube Terre Illustrate. ↩︎
Basti vedere Slote (2010), oppure la possibile integrazione con alcune etiche femministe in Botti (2014). ↩︎
Cfr. Greco (2008). ↩︎
Come succede sempre con testi classici, è possibile trovare versioni molto diverse del pensiero di un certo autore. Hume non sfugge a questo fenomeno, trovando interpretazioni che vanno dall’etica delle virtù, al consequenzialismo. Per una visione più chiara del dibattito si veda Swanton (2007). ↩︎
Hume (1987), pp. 481-503. ↩︎
La questione è molto più complessa. In questo articolo abbiamo preferito rifarci all’interpretazione presentata in Greco (2014), sia perché più attinente all’autore originale, sia perché più in linea con la poetica di Togashi. Come sottolineato, questo tipo di teoria non implica alcun tipo di impegno ontologico nei confronti delle proprietà morali, ma questo non vuol dire che non possano essere integrate in una teoria humeana come in Swanton (2007). ↩︎
Questa idea si vede molto bene in Hume (2017), pp. 21-27, seppur ci si riferisca al problema del gusto estetico. ↩︎
Cosa che invece potrebbe essere condannata come immorale in tipi di etiche più astratte; in quel caso l’azione di Thomas potrebbe essere considerata come una negligenza rispetto a certe prescrizioni morali. ↩︎
Williams (1982). ↩︎
Foot (2002). ↩︎
Hume (1987) pp. 332-340, si veda anche Greco (2008), pp. 105-122. ↩︎
In Slote (2010) viene problematizzata una differenza tra simpatia ed empatia; Slote stesso afferma che l’empatia è un principio psicologico molto più solido per le etiche humeane rispetto alla semplice simpatia. In questo articolo la questione non sarà affrontata e il concetto di simpatia sarà preso a grana molto grossa, per essere usato come strumento interpretativo per le opere di Togashi. ↩︎
Balistreri (2010), p. 165. ↩︎
Una traduzione inglese dell’intervista si può ritrovare in
https://old.reddit.com/r/HunterXHunter/comments/83js58/togashis_interview_translated_jump_90s_star_road/ ↩︎
Per un approfondimento si veda Balistreri (2010), cap. 3. oppure Hume (2017). ↩︎
Level E cap. 005, p. 191. ↩︎
Se questa ragione sia effettivamente valida è qualcosa che potrebbe essere discusso. Nel contesto che stiamo fornendo, però, cerchiamo di assumere una posizione che potrebbe essere argomentata a livello di senso comune. ↩︎
Level E, p. 194. ↩︎
La questione è effettivamente controversa, poiché si potrebbero fornire una serie di obiezioni in cui si cerca di dimostrare che i protagonisti si sono comportati in modo immorale nel lasciar perdere la questione. L’obiezione è comprensibile ma, agli occhi di chi scrive, non riuscirebbe a cogliere troppo bene il punto del racconto. Prima di tutto, non sappiamo niente di ciò che succede ai vari personaggi nell’arco di tempo in cui avviene il suicidio della famiglia Yamamoto, quindi non sappiamo se erano possibili delle soluzioni valide per salvare la situazione. In secondo luogo, questo andrebbe contro alle intenzioni del principe Baka nella scrittura della storia, poiché egli stesso afferma di voler mostrare che certi individui non compiono volontariamente azioni malvagie. Un finale in cui, per salvare delle possibili vittime, i protagonisti decidono di denunciare Yamamoto alla polizia avrebbe sicuramente avuto un impatto minore, poiché avrebbe comunque fatto passare i cornwelliani come personaggi ingiusti e “da punire”. Sicuramente immaginare situazioni alternative non espresse dalla storia è uno dei fattori che rende interessante il nostro rapporto con l’arte, ma a volte potrebbe farci sfuggire il punto di un’opera. ↩︎
Questa interpretazione era già stata presentata, seppur in modo molto generale, da Nathan Quaranta in un suo articolo per lo Spazio Bianco. Si veda https://www.lospaziobianco.it/spettri-togashi-lequilibrio/ . ↩︎
Un altro esempio fondamentale è la rivelazione relativa alla politica del Regno dei Morti che Kurama fa a Yusuke, cap. 170. ↩︎
Yū Yū Hakusho cap. 156. ↩︎
Yū Yū Hakusho, cap. 126-127. ↩︎
Parafrasi di cap. 139. ↩︎
Per avere delle coordinate che permettono di cogliere dei lati più sottili dell’estetica di York Shin si veda https://web.archive.org/web/20220922100826/https://bosozoku.it/shintaro-kago-a-york-shin-city-ero-guro-in-hunter-x-hunter/. ↩︎
Hunter x Hunter, cap. 111. Una cosa interessante è che Gon stesso esibisce un comportamento fortemente contraddittorio durante l’asta dei vasi, fattosta che Sepail nel capitolo 088 si riferisce a Gon descrivendolo come un individuo che non discrima tra bene e male. Giudizio abbastanza bizzarro, considerando le accuse quasi moralistiche che Gon farà contro Nobunaga e Chrollo. ↩︎
Hunter x Hunter, cap. 104 e 114. Non è un caso che i personaggi si riferiscano a questo usando una metaforica anatomica, in cui i membri si identificano nella testa, nel corpo o nelle zampe. ↩︎
Probabilmente il racconto dell’attentato da parte degli abitanti del Paese delle Stelle Cadenti (cap. 102) può servire a presentare un paradigma culturale di carattere comunitario che viene anche adottato all’interno del Ragno. Chiaramente questo non vuol dire che non esistano forti differenze tra i due gruppi. ↩︎
GoGo Monster, realtà, finzione, spazi di gioco
Introduzione
In questo articolo verrà presentata l’analisi di un’opera di Matsumoto Taiyō pubblicata come volume unico nel 2000, cioè GoGo Monster (GOGO モンスター). Nello specifico, l’articolo cercherà di fornire una chiave di lettura che permetta di comprendere adeguatamente un’opera percepita come complicata e difficilmente penetrabile. Va inoltre considerato che scopo dell’articolo è anche quello di continuare uno studio già iniziato con il precedente elaborato su Ping Pong, sempre reperibile sul blog di Terre Illustrate. Vi sono almeno due ragioni per dare spazio a GoGo Monster. La prima è di carattere editoriale: GoGo Monster è il fumetto che Matsumoto ha realizzato dopo Ping Pong e si tratta dell’unica opera lunga (più di 400 pagine) che l’autore non ha pubblicato su rivista. Questa scelta editoriale è rispecchiata anche dalla struttura dell’opera, divisa in capitoli di lunghezza eterogenea. La pubblicazione di GoGo Monster ha richiesto tre anni di lavoro in cui Matsumoto ha corretto e ricorretto le proprie pagine, al punto di non saper più se erano buone o meno1.
Considerando che GoGo Monster riprende esplicitamente alcuni dei temi più importanti di Ping Pong, è abbastanza naturale pensare che questa lunga gestazione coincida con una maggior consapevolezza e profondità degli argomenti trattati.
2. Succede di frequente, però, che le opere di Matsumoto trattino temi molto vari, spesso sfumando da un’unica situazione raccontata3. GoGo Monster, da questo punto di vista, sembra essere abbastanza uniforme negli argomenti che affronta. L’opera non fa deviazioni tematiche e sembra andare in una direzione ben precisa, che probabilmente è quella pensata dall’autore4.
GoGo Monster possa permettere di avere una presa abbastanza solida sulla poetica generale del mangaka.
immagine e quello di gioco. Chi è avvezzo alla letteratura specialistica di estetica e teoria dell’arte difficilmente rimarrà sorpreso dall’importanza di questi temi, al centro di molti dei dibattiti contemporanei5. I profani potrebbero, invece, rimanere maggiormente spiazzati dal secondo concetto tirato in ballo. Comunemente tendiamo a vedere il gioco come un’azione puerile, di scarso valore, da relegare al periodo dell’infanzia. Giocare è una forma di svago, un divertimento che va distinto dalla serietà richiesta dall’entrata nella società “dei grandi”. Anche da adulti il gioco continua a esistere, ma in forma estremamente limitata: esempi possono essere una cena con amici, oppure la presenza in tribuna per un evento sportivo. L’idea comune, comunque, è che i giochi siano una parte marginale delle nostre vite, da associare a esperienze e sensazioni frivole nella nostra esperienza quotidiana. Ci sono le cose importanti, poi c’è il gioco. Basta dare una rapida occhiata a vari ambiti scientifici per vedere come questa intuizione non sia solo superficiale, ma persino sbagliata. Non solo i giochi sono parte integrante delle nostre vite, ma sono una pratica sociale importantissima per la produzione della cultura. Non è strano, quindi, che il concetto di gioco possa ricevere un grande interesse anche in ambito artistico. Anche solo nel mondo dei manga, è sufficiente pensare a grandi autori come Araki Hirohiko, Togashi Yoshihiro o Urasawa Naoki per vedere quanto l’atto di “giocare” sia importante. L’articolo cercherà di chiarire questi due concetti, alternandoli all’analisi testuale dell’opera. Un simile approccio è rispecchiato dalla struttura dell’elaborato, diviso in due sezioni principali: una dedicata alle immagini e una dedicata al gioco.
Essendo un’analisi dell’opera, è inutile dire che è richiesto, almeno, di aver letto il manga in questione e aver familiarizzato con le sue tematiche.
Apertura sulle immagini
GoGo Monster è una storia che viene raccontata intorno a pochi personaggi. Il protagonista è Tachibana Yuki, affiancato dal compagno di classe Suzuki Makoto, il giardiniere Gantsu e il brillante IQ. Un lettore che volesse essere provocatorio potrebbe contestare queste affermazioni dicendo che, in realtà, i personaggi di GoGo Monster sono molti di più. Non ho infatti considerato Superstar o Chance o tutti gli altri mostri, nemici di Yuki, che invadono la scuola portandola a una progressiva decadenza. Tutti i personaggi a cui ci siamo riferiti ora però sono invisibili: non vengono mai presentati con la stessa vividezza di Yuki, Makoto e gli altri. Eppure, stando a ciò che dice Yuki, loro ci sono e sono parte integrante del racconto, seppur non vengano mai mostrati.
Come possiamo già intuire, GoGo Monster è un’opera in cui ciò che si può vedere o meno ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo della storia, così come per le sue tematiche.
Il rapporto tra visibile e invisibile può essere fruttuosamente analizzato all’interno dell’opera da due punti di vista, sia da quello diegetico che da quello extra-diegetico. Iniziamo analizzando il ruolo che questo rapporto ha a livello extra-diegetico, per poi passare al suo uso interno alla storia.
La narrazione di GoGo Monster vive di suggestioni e di non-detti.
Qui troviamo, in modo abbastanza chiaro, una differenza tra i punti di vista di Yuki e quello del compagno di classe Makoto. Nella seconda vignetta è possibile notare delle strane linee, simili a volti, disegnate all’interno delle gocce di pioggia che scendono sul vetro. Quello è, plausibilmente, il punto di vista di Yuki6. Nella quarta, invece, questi volti sono assenti. Questo è il punto di vista di Makoto. Un simile stratagemma si presenta più volte all’interno della storia, fino a diventare difficilmente decifrabile nel capitolo Inverno, in cui è presente un’alternanza continua di prospettive. Allo stesso modo, uno dei motori dell’opera, cioè il bullismo compiuto dai bambini verso insegnanti e altri compagni, non è mai realmente esplicitato, se non da frasi fugaci o scene specifiche. Leggendo da pagina 93 a pagina 99, per esempio, è possibile comprendere che Yuki è stato picchiato dai compagni per recuperare l’orologio di Makoto. Un simile evento, però, non viene mai rappresentato visivamente nella narrazione. Allo stesso modo non si vede mai nessuno dei bambini rompere un vetro, oppure boicottare la lezione di uno degli insegnanti. Tutte queste informazioni possono essere ricavate solo da elementi disseminati per tutta l’opera.
È abbastanza interessante notare, però, che un simile tema non sia affatto secondario. Al contrario, questo è un ingrediente necessario per la comprensione della storia. Matsumoto sembra essere ben consapevole del potere che le immagini hanno sul lettore, sulla sua capacità di decifrare in modo adatto particolari eventi. Eppure, durante la lettura di GoGo Monster, è possibile che questi elementi sfuggano totalmente a un lettore poco attento. È plausibile pensare che lasciare un simile elemento narrativo come invisibile al lettore non sia solo una disattenzione da parte dell’autore, ma sia una scelta ponderata e consapevole7. Come dovremmo interpretare una simile scelta stilistica?
Diamo subito una risposta che, però, sarà più chiara dopo che il lettore avrà confrontato questo punto con il modo in cui il non visibile è affrontato all’interno della storia. Matsumoto sembra voler mettere il lettore nella stessa situazione di Yuki. Proprio come il protagonista, anche il lettore si ritrova a dover decifrare gli eventi della storia come se fossero causati da entità invisibili (che, nel nostro caso, sono i compagni di classe). L’idea sembra proprio quella di voler far sentire al lettore cosa si prova a vedere degli effetti che sono provocati da entità che non vediamo mai per tutta la narrazione, fattosta che non è difficile credere al racconto di Yuki sui mostri cattivi. Dopotutto anche il lettore non ha mai alcuna prova visiva che a provocare tutte le disgrazie scolastiche siano gli altri bambini. Detto questo, speriamo che la cosa diventi più chiara andando avanti con l’analisi. Facciamoci ora la domanda più spinosa.
All’interno della narrazione8 cosa sono i mostri citati anche nel titolo dell’opera?
Come viene più volte esplicitato nella storia, i mostri non hanno una natura strettamente sensibile. Non possono essere visti come vediamo tavoli e sedie. Una simile idea è affermata da Yuki, che sostiene di avvertirli grazie al “potere della mente”, quanto dal giardiniere Gantsu, che riporta le testimonianze di altri bambini sensibili a queste presenze. L’interpretazione più plausibile è che i mostri siano in realtà delle “proiezioni” psicologiche che il piccolo Yuki fa a causa della sua fervida immaginazione. Questa interpretazione trova un forte riscontro anche nel personaggio di IQ, il primo a svelare a Yuki la natura finzionale di Superstar e Chance. Oltre a questo, vi è anche un altro elemento testuale che va in questa direzione. A pagina 112 è presente una scena in cui uno dei compagni di classe di Yuki legge un estratto come compito assegnato dalla maestra. È chiaro come un simile fenomeno possa essere interpretato meta-narrativamente come un modo per rappresentare il processo con cui Yuki arriva a “costruire” i mostri:
A volte leva un profondo ruggito dentro di me.
Non solo il riferimento a qualcosa che “fuoriesce” dalla propria interiorità è centrale, ma questo qualcosa è anche dipendente da noi (Non ha il coraggio di riconoscere spontaneamente la propria identità.). Banalmente, una fantasia cessa di esistere una volta che smettiamo di immaginarla. I “mostri” non sono altro se non una fantasia di Yuki, qualcosa che non esiste realmente9. Di un’idea simile pare essere anche la maestra di Tachibana che, parlando con il custode, classifica il comportamento del bambino come una sorta di delirio10. Si potrebbe quindi sostenere che Yuki (preda delle sue fantasie) viva in un mondo “tutto suo”, totalmente disancorato dalla realtà, che lo porta a estraniarsi dagli altri. Considerando la componente morale/pedagogica che è facilmente intuibile nell’opera, qualcuno particolarmente avventato potrebbe dare quindi una prima interpretazione del tema principale del manga. Cioè che GoGo Monster inviti ad abbandonare le proprie finzioni per “abbracciare la realtà” e le altre soggettività che la popolano.
Quello che sosteniamo in questo articolo non è solo che una simile interpretazione sia banale, ma che nasca da una lettura superficiale dell’opera11. Pensandoci bene, Matsumoto ci fornisce un appiglio grafico abbastanza efficace che può, plausibilmente, portarci in una direzione totalmente differente da quella sostenuta dal recensore avventato. Una direzione in cui scopriamo che il comportamento di Yuki, che normalmente definiremmo “delirante”(proprio come fa la maestra), non è così differente da una serie di azioni che anche noi lettori compiamo quotidianamente. Cerchiamo di spiegare questo punto. All’interno della storia possiamo trovare diversi modi in cui i mostri possono essere individuati dal lettore. Uno di questi è l’uso di vignette in cui non viene esplicitato chi stia parlando e in cui le frasi enunciate sono stilisticamente affini a quelle che solitamente vengono dette da Yuki12. La strategia preponderante per rappresentare i mostri, però, è quella grafica. Osservando bene i disegni, infatti, è possibile notare delle linee che richiamano dei volti in specifici oggetti naturali come fiori, foglie o gocce di pioggia. Che un simile artificio grafico serva a rappresentare la presenza dei mostri è chiaramente esplicitato già dalle prime pagine dell’opera. Già nelle pagine 10, 11 e 12 possiamo infatti notare una scena in cui Yuki, inizialmente preoccupato per la scomparsa dei suoi amici, dà loro il buongiorno dopo aver visto un volto in una delle gocce di pioggia. È chiaro quindi che i mostri si possano trovare osservando attentamente queste scene.
Ora potremmo farci una domanda particolarmente sofisticata dal punto di vista semiotico. La risposta a questa domanda, però, potrebbe portarci verso una strada interessante, essenziale per comprendere adeguatamente l’opera. Chiediamoci infatti se le linee che vediamo all’interno del disegno (e che solitamente associamo ai mostri) valgano o meno come simboli per il lettore. Detta in modo più semplice, possiamo notare come spesso all’interno di un fumetto vi siano degli elementi del disegno che non sono realmente parte dell’evento descritto. I baloons sono un esempio evidente per spiegare ciò di cui stiamo parlando. Per il lettore che sta approcciando la storia, le vignette sono una componente grafica della tavola (stesso discorso per le lettere al loro interno), ma a nessuno verrebbe mai in mente di pensare che queste facciano realmente parte della storia. Nessun personaggio, all’interno del mondo descritto dalla storia a fumetti, ha realmente intorno a sé un’enorme nuvoletta con delle lettere all’interno13. Discorso identico per le onomatopee. Entrambi sono strumenti grafici a cui i lettori danno un valore simbolico, per rappresentare altro nella storia (ad esempio voci, pensieri o suoni). Quello che ci stiamo chiedendo è se i volti che Matsumoto rappresenta all’interno dell’opera servano solo a individuare la presenza dei mostri per il lettore (un po’ come un’onomatopea rappresenta un suono), oppure se sia ciò che effetivamente Yuki e altri bambini percepiscono nella storia. La posizione che sosteniamo in questo articolo è la seconda. Ciò che noi lettori vediamo quando leggiamo il manga è anche ciò che viene percepito da Yuki. Come emergerà più avanti nell’articolo, questa è la posizione che ci sembra più plausibile in quanto la più coerente con le tematiche e la narrazione dell’opera. La ragione per prendere la posizione opposta è che, all’interno di GoGo Monster, viene ribadito anche da Yuki che i mostri sono invisibili. Siamo tornati al punto di partenza però, quindi dovremmo capire meglio cosa si intende per “invisibile” e cosa per “visibile”.
Vedere mostri, nel quotidiano
Quando diciamo di vedere qualcosa ci riferiamo a una gamma molto ampia di significati, metaforici o meno. Possiamo dire infatti di vedere quello che sta succedendo, poiché comprendiamo ciò che sta accadendo, così come possiamo vedere dove un nostro conoscente andrà a finire, se continuerà a uscire con certe compagnie. Quello che ci interessa, in questo caso, è il significato più semplice e diretto (il meno metaforico potremmo dire), cioè quello percettivo. Noi vediamo colori, tavoli, piante e persone, nel senso che abbiamo una particolare funzione cognitiva che ci permette di ricevere informazioni dall’esterno secondo un certo formato, cioè quello visivo. Fin qua il discorso è banale. Ciò che potremmo osservare, però, è che nella gamma degli oggetti che diciamo di percepire visivamente esistono delle profonde differenze. Di fatto, non diciamo solo di vedere colori, tavoli o persone, durante la nostra esperienza percettiva ma anche forme e strutture14. Per rendere le cose più concrete, si consideri il seguente esempio. Ci troviamo di fronte a una delle illusioni di Jastrow, una delle classiche illusioni ottiche che spesso ci vengono presentate già durante la nostra infanzia. Osservando l’immagine notiamo subito una lepre. Questo però non basta: chi ci ha presentato l’illusione ottica ci dice di osservare attentamente, poiché vi è un’altra figura nascosta nell’immagine. Noi, confusi, iniziamo a osservarla più attentamente, la esploriamo cercando di capire quale sia l’altra figura di cui sta parlando. Improvvisamente abbiamo una risposta: oltre a una lepre, nella stessa immagine possiamo vedere anche un’anatra.
Di fatto, prima vi era qualcosa che non vedevamo, ora lo vediamo. Se non troviamo questa specifica illusione convincente poiché estremamente inflazionata, non è importante. Possiamo infatti notare che casi simili possono essere ritrovati continuamente nella nostra vita quotidiana. A chiunque è capitato sicuramente di notare che le parti frontali o posteriori di un’automobile sembrano richiamare dei volti15; allo stesso modo è alquanto raro che qualcuno non abbia mai notato che le nuvole hanno spesso forme che ci sono familiari. Noi in questi casi vediamo più cose. Se un cumulo di nubi ci ricorda un cagnolino, noi vediamo sicuramente le nuvole con tutte le loro caratteristiche, ma vediamo anche un cane. Magari ciò che notiamo è molto lontano da un cane come lo conosciamo normalmente: un cagnolino di nuvole non ha ossa, né muscoli, né cervello. Un cane di nubi non può abbaiare né, tantomeno, uscire per una passeggiata. Rimane il fatto che, in questi casi, noi interpretiamo delle informazioni visive in qualche modo e questo ci rende in grado di vedere un cane che, fino a un secondo prima, non riuscivamo a vedere. In qualche modo la nostra immaginazione “si infiltra” nella nostra percezione e ci permette di interpretare certe informazioni in modo nuovo. Pensandoci attentamente, questo fenomeno avviene continuamente quando ci approcciamo alle immagini. Quando vediamo un bel ritratto, ci sembra normale parlarne come se questo fosse una persona: possiamo parlare della pelle di chi è rappresentato, dei suoi capelli o del vestito. Concretamente, non esiste alcuna pelle di fronte a noi, non ci sono capelli e nemmeno un vestito. Se non avessimo alcuna capacità di interpretare le immagini, ci sembrerebbe un delirio collettivo andare a una mostra d’arte e sentire altre persone parlare dell’enfasi di una battaglia o della grazia di un cherubino di fronte a tele macchiate di colore. Questo però non succede.
come se ci trovassimo di fronte a un conflitto.
immaginazione spontanea16 particolarmente fervida possa vedere in modo più vivido certe forme all’interno della propria percezione. Semplicemente, l’immaginazione di Yuki gli permette di cogliere una serie di immagini e strutture che noi non riusciamo a cogliere, per motivi legati alle nostre capacità immaginative. L’idea fondamentale all’interno della storia è che vi sia una differenza di sensibilità percettiva tra Yuki e gli altri personaggi17. Proprio come gli altri bambini, anche noi lettori potremmo trovarci nella situazione di non vedere le stesse cose che Yuki vede.
18.
Un’interpretazione simile risulta ancora più plausibile se la confrontiamo con il dialogo tra Gantsu e Makoto nelle pagine da 155 a 159. Qui viene esplicitamente detto dal guardiano che non è la prima volta che incontra un bambino come Yuki, sensibile a ciò che non si vede e non si sente.
Inverno, parte criptica e densa che costituisce il capitolo più lungo dell’opera. Ciò che sosterremo nella prossima sezione è che, al fine di comprendere meglio quel capitolo, sarà necessario connettere la spiegazione sulle immagini che abbiamo appena esposto con una nozione ancora più generale.
Dalle immagini al gioco
Le immagini hanno un ruolo fondamentale nella nostra vita. Possiamo veramente dire che, specialmente nella società contemporanea, siamo costantemente ricoperti da un telo di immagini. Banalmente, basti pensare che anche chi leggerà questo articolo dovrà per forza interagire con immagini che vengono proiettate da uno schermo (che sia da smartphone o da pc).
GoGo Monster si fa un riferimento a un mondo parallelo in cui Yuki è immerso. Finora abbiamo analizzato solo questa funzione delle immagini. Questa loro caratterizzazione è, però, in qualche modo superficiale. Le immagini non hanno solo un ruolo informativo. Certamente, tramite le immagini possiamo avere informazioni su altre zone del mondo
reale, come succede guardando un telegiornale. Oppure le immagini possono darci consapevolezza di cose che nessuno avrebbe mai esperito nel nostro quotidiano, come succede quando queste vengono usate nei modelli scientifici, oppure nel cinema o in pittura. Ma questo non è sufficiente. Ciò che sfugge a una caratterizzazione puramente conoscitiva delle immagini è che queste esercitano un potere nei nostri confronti. Vedere certe immagini ci fa piangere o ridere, ci porta a fare certe scelte invece che altre. Le immagini di un trailer hanno un effetto psicologico su di noi, spingendoci ad andare al cinema. Quelle che vediamo durante la lettura di un fumetto possono farci ridere, oppure straziarci. Pensandoci qualche minuto, è abbastanza assurdo che una rappresentazione di qualcosa che è irreale abbia un effetto così sconvolgente sul nostro animo.
GoGo Monster. Come abbiamo già puntualizzato, gli amici mostruosi di Yuki sono immagini che il bambino vede in modo molto vivido. Questa vividezza dipende dal fatto che gli oggetti forniscono certi insights su cui Yuki riesce a costruire usando la propria immaginazione.
quale sia il ruolo che i mostri hanno all’interno della vita del bambino. In altre parole, che potere i mostri esercitino su Tachibana. Dopotutto, è proprio perché Yuki non fa altro che parlare dei suoi amici che gli altri compagni di classe lo schivano, bollandolo come bizzarro. Per comprendere meglio questo punto, è necessario richiamarsi a certe posizioni in estetica che vedono il concetto di immagine come strettamente legato a quello di gioco19. Secondo queste prospettive i giochi sono una componente fondamentale delle nostre vite, sia durante l’infanzia che nell’età adulta. Quando siamo piccoli i giochi occupano una parte consistente delle nostre giornate. Giocando noi ci immedesimiamo, in qualche modo, in una particolare situazione che non staremmo vivendo realmente. Da bambini possiamo fare finta che un masso sia un drago, mentre il ramoscello che abbiamo raccolto è una spada lucente. In quel particolare contesto noi facciamo finta di essere realmente nel mezzo di un conflitto con una creatura mitica, almeno durante la durata del gioco.
20. Capiamo quindi come le immagini abbiano spesso un ruolo fondamentale per i giochi. Uno scrittore particolarmente evocativo ci porta più facilmente all’interno del suo mondo. Se i bambini di cui parlavamo prima scelgono di combattere un masso che ricorda un drago anche nella forma, è chiaro che l’immedesimazione nel gioco sarà maggiore. Ciò che stiamo dicendo non è che i giochi richiedono sempre delle immagini per immedesimarsi (si pensi a sport come il tennis), ma che le immagini possono avere un ruolo importantissimo in questo. Proprio come la nostra vita è immersa nelle immagini, allo stesso modo potremmo definirla come un’intersezione di giochi a cui spesso partecipiamo senza esserne realmente consapevoli. Data questa interpretazione, diventa facile comprendere in che senso le immagini esercitino un potere nei nostri confronti. Quando guardiamo un film, per esempio, le immagini che vediamo ci fanno commuovere perché in qualche modo partecipiamo al gioco che è implicito nel film. Allo stesso modo, potremmo dire che un’icona sacra può commuovere un credente perché ha un aspetto rilevante nel gioco di essere credente. Non è strano che certe immagini di guerra strazino certe persone mentre lasciano totalmente indifferenti altri; questo dipende dalla loro capacità di partecipare a un gioco (seppur straziante) in cui si immedesimano nelle vittime. Quest’ultimo esempio serve a dire che il concetto di gioco non è qualcosa che dovrebbe essere relegato all’intrattenimento (come invece il nostro modo comune di pensare ci suggerisce). “Giocare” a immedesimarsi nelle vittime di un conflitto è tutto meno che qualcosa che riguarda l’intrattenimento o il divertimento.
Partecipazione sociale: “Grazie al contenuto simbolico delle forme ludiche d’interazione e comunicazione e, soprattutto, grazie ai processi performativi d’interazione e generazione di significato le comunità si costituiscono, si trasformano e garantiscono la loro stabilità nel gioco. Causa originaria, processo ed effetto dell’emergere di azioni ludiche, le comunità non si distinguono tra loro soltanto per mezzo del sapere simbolico condiviso collettivamente, ma anche per mezzo delle forme d’interazione e comunicazione ludiche nelle quali e con le quali i membri delle comunità mettono in scena il loro sapere. Queste messe in scena rispondono al tentativo di auto-rappresentare e riprodurre l’ordine sociale, di generare sapere simbolico condiviso e soprattutto di dischiudere spazi d’interazione e campi di azione drammatica per i membri della comunità. I giochi generano comunità in senso emozionale, simbolico e performativo: sono campi d’azione scenici e performativi, nei quali i partecipanti al gioco armonizzano reciprocamente i rispettivi mondi percettivi e i loro universi di rappresentazione […].”21
Superamento delle crisi: “I giochi consentono alle comunità di gestire in maniera produttiva esperienze di differenza e situazioni di crisi. Nel corso del gioco i membri della comunità sono in grado di elaborare esperienze d’integrazione e/o di segregazione. I giochi possono dunque contribuire al raggiungimento di un accordo comunicativo circa una situazione nuova, avvertita come una minaccia e che mette in crisi la quotidianità.”22
Comprensione della realtà: “Situazioni che nella vita reale non si lasciano completamente dominare e controllare possono essere messa in scena e “testate” nei giochi, […]. I giochi, perciò, possono essere considerati come arrangiamenti in grado di ridurre la complessità del reale e grazie ai quali gli individui entrano in rapporto a un “altro”, a un “esterno”: stabiliscono linee di demarcazione, oltrepassano distanze e sviluppano la credenza che le forze performative e mimetiche che si sviluppano nel gioco non solo operino verso l’interno, ma anche verso l’esterno e siano perciò in grado di esercitare un influsso sulla “realtà”. Quando gioca, l’uomo si trasforma in un “altro”. Questa trasformazione, da un lato, è catalizzata dalla componente simbolica del gioco, che rinnova e modifica ’esperienza traslandola sul piano dei significati sacrali; dall’altro, è resa possibile e incentivata dall’azione performativa in comune, che genera nuova realtà.”23
Possiamo quindi capire come i giochi abbiano un ruolo essenziale per compiere particolari azioni della nostra vita. Arrivati a questo punto, possiamo provare ad applicare queste nozioni a GoGo Monster. Risponderemo, con ordine, a due domande: quale sono le regole del gioco di Yuki? Quale sono le funzioni che questo gioco ha per la vita del bambino?
bastone d’argento, oppure di aiutare Chance nei suoi dispetti. In questo modo il rapporto tra Yuki e i mostri non è solo di incoraggiamento, ma di vera e propria partecipazione. Compiendo le azioni richieste dai suoi amici, Yuki diventa parte, seppur simbolicamente, del gruppo di Superstar. In questo modo possiamo spiegare anche l’interesse di Yuki per il giardinaggio. Come viene più volte esplicitato dal bambino, la fioritura e fenomeni affini sono eventi causati da Superstar. È naturale, quindi, che Yuki trovi piacere ad accudire il giardino, punto di contatto tra lui e il mondo invisibile. In totale contrasto esistono dei mostri “cattivi” che devono essere eliminati e vengono combattuti da Superstar e soci. Partecipando con le sue azioni, in qualche modo anche Yuki può aiutare i suoi amici a vincere sui cattivi.
L’ipotesi che il gioco di Yuki abbia una natura comunicativa e cooperativa sembra essere confermata anche da IQ. Nelle stesse pagine in cui viene spiegata al protagonista la natura dei mostri, viene azzardata anche una spiegazione di queste apparizioni. Secondo IQ i mostri sono delle proiezioni immaginative che nascono dal bisogno di Yuki di socializzare con gli altri, mentre i mostri cattivi rappresentano la sua parte asociale, che si distanzia dai compagni. Vediamo che dietro a questa spiegazione è sottintesa una risposta alla seconda domanda che ci siamo posti. Secondo IQ, quindi, i mostri nascono da un desiderio alla socializzazione che affiora in Yuki, senza però che lui riesca a sfogarlo. Se è così, possiamo capire come le azioni di Yuki rispecchino le tre funzioni che abbiamo individuato. Il gioco di Yuki è un gioco solitario. È comunque interessante notare, però, come il bambino leghi con Makoto e Gantsu proprio quando loro cercano di comprendere le regole del suo gioco. Gantsu non si rivela mai dubbioso sulla natura dei mostri, oppure sul fatto che Yuki stia mentendo o meno su ciò che vede. Al contrario, è proprio il vecchio a suggerire al protagonista dei luoghi dove “loro” potrebbero essersi nascosti. Allo stesso modo, Makoto lega in modo unico con il suo compagno di banco quando inizia a interessarsi a ciò che dice sui mostri. Sono Gantsu e Makoto a entrare un poco alla volta nello “spazio di gioco” di Yuki. Ma è innegabile che sia proprio tramite questo gioco che i due stringono un rapporto di amicizia con il protagonista. Infine, è chiaro che lo scontro tra i mostri buoni e i mostri cattivi rappresenti un modo usato da Yuki per comprendere meglio il mondo che lo circonda.
GoGo Monster inizia con l’arrivo di nuovi alunni che causano uno squilibrio nell’ambiente scolastico. Dopo il loro arrivo, il numero dei vetri che vengono rotti aumenta, così come aumentano i casi di bullismo ed emarginazione all’interno della scuola. Questo conflitto, che ha una natura sociale molto complessa, viene metaforizzato in modo molto più semplice come una lotta tra mostri buoni e mostri cattivi. Non è un caso che Yuki attribuisca ai cattivi la responsabilità dei danni che la scuola subisce. È proprio in relazione a quest’ultimo punto che la figura di IQ diventa particolarmente affascinante da esaminare. Come Yuki, anche lui viene emarginato dagli altri poiché diverso, seppur questo dipenda da una spiccata intelligenza. A differenza di Yuki, questa spaccatura viene metabolizzata da IQ come una forma di superiorità sociale, che lo fa ergere sopra tutti gli altri. Basti pensare che il personaggio passa buona parte del suo tempo in una conigliera, nella quale proietta un parallelismo simbolico tra i conigli e i suoi compagni di scuola. Dal suo punto di vista, il rapporto tra lui e gli altri alunni è come quello che ha con dei conigli; creature tenere, ma intellettualmente inferiori. Nonostante questo, ha un coniglio preferito che chiama, in modo indicativo, Yuki. IQ percepisce un’affinità tra lui e il protagonista, per questo prova più volte a interagire con lui.
Inverno/Conclusione
Arrivati a questo punto, diventa molto più facile comprendere il capitolo più corposo dell’opera, cioè Inverno. Nelle (poche) analisi che si trovano a riguardo, di solito questo capitolo viene descritto come onirico, metafisico o lynchiano. Stiamo parlando di aggettivi adeguati, specialmente se ci riferiamo alla componente “visiva” delle scene rappresentate. Questo appello a qualcosa di assurdo o ineffabile non dovrebbe però impedirci di comprendere cosa stia succedendo, a vari livelli, nella storia. Il capitolo inizia dopo l’avvicinamento di Tachibana ad IQ. Questo avvicinamento è dovuto al senso di angoscia che Yuki inizia a provare notando che, gradualmente, i suoi amici mostruosi non si stanno più manifestando. Per questo motivo il bambino decide di entrare in relazione con IQ che, in modo aridamente razionale, riesce a dargli una spiegazione solida dei suoi cambiamenti. Questo senso di angoscia è simboleggiato in modo evidente dalle metafore mortifere che Yuki usa durante tutta l’opera. Il fatto di “non poter più vedere Superstar e gli altri” equivale a un cambiamento corporeo: il cervello si indurisce come pietra e il corpo inizia a decomporsi. In questa situazione, Yuki trova un contatto con l’unica persona che riesce a spiegargli i suoi cambiamenti. Di fronte a questa angoscia, diventa anche facile comprendere perché Yuki decida di rifugiarsi con IQ al quarto piano della scuola. Rifugiarsi, nascondere e scappare sono visti come un modo di fermare questa decomposizione parziale; questo è possibile solo abbandonandosi totalmente alla propria immaginazione. Chiaramente questa è un’occasione anche per IQ, che finalmente può trovare qualcuno con cui condividere la propria “scatola”.
Inverno ed è difficile discriminare i due piani. Ciò che è importante, però, è comprendere i motivi per cui il gioco tra Yuki e IQ viene rotto. Perché, in altre parole, i due escono dal quarto piano che, anche nella mappa iniziale, era descritto come una tana delle creature invisibili. La questione può essere compresa facilmente riprendendo tutti i punti che avevamo già discusso. Yuki si costruisce un ambiente immaginario che ha una funzione compensativa: i mostri rappresentano, in qualche modo, il suo desiderio di partecipare comunicativamente con altri individui. Poiché l’ambiente a cui il bambino è abituato (e che vede come positivo) è quello, è facile capire come possa sentirsi angosciato dalla sua perdita. Questa perdita di immaginazione dipende proprio dal fatto che Yuki stia legando con Makoto, e che quindi non abbia più bisogno di strumenti compensativi. Yuki però non comprende questa cosa, almeno fino al finale, in cui vede Makoto cercarlo all’interno del quarto piano. Yuki decide volontariamente di uscire dal mondo dei mostri perché si rende conto che esiste un ambiente che lui trova molto più importante. Come avevamo già accennato, questo punto non deve essere interpretato mettendo in contrapposizione realtà e fantasia.
Nella sua scelta di uscire dal quarto piano Makoto non “rigetta simbolicamente” la fantasia per “entrare nella realtà”. Semplicemente capisce che il gioco dei mostri è un gioco che può anche non essere più giocato. L’idea è sottile e si riallaccia all’articolo su Ping Pong pubblicato su Terre Illustrate. Matsumoto non sembra suggerire un primato tra varie dimensioni quanto, piuttosto, il fatto che nella nostra vita ci ritroviamo continuamente a giocare. Giocare ci serve a comunicare, a stringere rapporti, a capire meglio il mondo. Però, allo stesso modo, un gioco non deve essere qualcosa che va mantenuto se smette di svolgere la sua funzione, oppure se non riesce più a soddisfarci. Abbastanza indicativo, infatti, che le ultime pagine dell’opera siano dedicate a descrivere una scena in cui Yuki è ancora intento a giocare (questa volta in bicicletta), ma insieme a Makoto. In linea con la sua opera precedente, anche qua Matsumoto sembra suggerire una visione del gioco come una cassetta degli attrezzi fondamentale nella nostra vita, ma i cui pezzi possono essere tranquillamente gettati una volta che non ne abbiamo più bisogno.
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Bibliografia
Huizinga J. 2002. Homo Ludens. Einaudi.
Furuya U. 2019. La musica di Marie. Coconino Press.
Kago S. 2014. Uno scontro accidentale sulla strada per andare a casa può portare a un bacio?. Hikari Edizioni.
Matsumoto T. 2000. GoGo Monster. J-POP Edizioni.
McCloud S. 1994. Understanding Comics: the invisible art. HarperPerennial.
Walton K. 1990. Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts. Harvard University Press.
Wittgenstein L. 2017. Ricerche filosofiche. Einaudi.
Wulf C. 2018. Homo imaginationis. Le radici estetiche dell’antropologia storico-culturale. Mimesis.
Sitografia
Tutti i siti sono stati visitati l’ultima volta in data 05/05/2024
https://dellecosenascoste.wixsite.com/home/post/ping-pong-the-animation-desiderio-e-crescita-nella-relazione-di-maestria
https://www.du9.org/en/entretien/matsumoto-taiyou/
https://terreillustrate.blogspot.com/2021/10/ping-pong-di-matsumoto-taiyo-arte.html
Note
https://www.du9.org/en/entretien/matsumoto-taiyou/ ↩︎
Si pensi a Ping Pong o a I Gatti del Louvre, in cui i momenti concettualmente più profondi si legano al culmine del climax narrativo e alla sperimentazione stilistica. Oppure si pensi alla varietà tematica di Sunny, rispecchiata dalla natura frammentaria ed episodica della narrazione. ↩︎
In Ping Pong il rapporto tra Peko e Smile può essere interpretato dal punto di vista estetico, come nell’articolo pubblicato su Terre Illustrate, ma anche da quello della crescita tramite la mimesi, come è stato esposto in https://dellecosenascoste.wixsite.com/home/post/ping-pong-the-animation-desiderio-e-crescita-nella-relazione-di-maestria. ↩︎
Anche questa, in realtà, può essere vista come una conseguenza della diversa modalità di pubblicazione. ↩︎
Già solo in Italia, basti pensare alla produzione accademica sulle immagini di Andrea Pinotti.
↩︎
Cfr. pag. 11 in cui vi è una prima presentazione di questo fenomeno. ↩︎
Come abbiamo già ricordato, una simile interpretazione non pare nemmeno plausibile. Lo stesso Matsumoto afferma di essere tornato una quantità innumerevole di volte sull’opera per rifinirla; credere che un elemento cardine della narrazione non sia esplicitato per via di una svista è un’interpretazione ingenua. ↩︎
Cioè considerandoli all’interno delle regole del mondo di GoGo Monster, senza interpretarli come simboli, metafore o altri artifici metanarrativi. ↩︎
Pag. 186 ↩︎
Pag. 202 ↩︎
Dopotutto, anche Gantsu non sembra convinto dell’affermazione della maestra sullo stato psicologico di Yuki, pag. 202. ↩︎
A esempio, pag. -3 ↩︎
Shintaro Kago sfrutta in modo brillante questa ambiguità tra rappresentazione effettiva e simbolo in un divertente racconto della raccolta Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio?. ↩︎
Cfr. Wittgenstein. 2017. ↩︎
Questo punto viene osservato in modo abbastanza divertente anche in McCloud. 1994. ↩︎
Cfr. Walton. 1990. ↩︎
L’idea che esistano differenze percettive tra singoli individui è un’idea che, nell’articolo su Ping Pong, è emersa in relazione al concetto di competenza motoria. In questo caso sembra che il fenomeno sia invece legato alle capacità immaginative di chi percepisce. Non ho mai riflettuto troppo su questo tema, ma è plausibile pensare che anche altre opere di Matsumoto approfondiscano questo punto. ↩︎
Un confronto interessante sarebbe con la geniale opera La musica di Marie di Furuya Usumaru. In quel caso il tema della differenza percettiva viene messo a confronto con l’esperienza religiosa e l’opera, in modo non così dissimile da GoGo Monster, termina con un’interrogazione conclusiva sul ruolo delle finzioni nella nsotra vita. L’uso di un sarcasmo pungente da parte di Furuya è sicuramente un modo di narrare differente da quello di Matsumoto, ma proprio questa differenza potrebbe portare a una comparazione fruttuosa. ↩︎
Un punto di riferimento sarà Walton. 1993. ↩︎
Chiaramente qui stiamo facendo esempi abbastanza banali. Alcuni autori sostengono che anche una aprte delle nostre pratiche sociali, come fare la guerra, siano interpretabili a partire dalla nozione di gioco. Si veda Huizinga. 2002. ↩︎
Wulf. 2018. p. 171. ↩︎
Wulf. 2018. p. 172. ↩︎
Wulf. 2018. pp. 172-173 ↩︎
Hard boiled, ma con un cuore d'oro - Il Lupin III di Hayao Miyazaki pt. 1 di 3
L’autore dell’articolo desidera ringraziare Mario Pasqualini per l’aiuto con la traduzione delle fonti in giapponese usate e Mario A. Rumor per l’aiuto nel reperimento di una di queste.
Per la maggior parte dei titoli in italiano degli episodi, delle serie e dei film menzionati in questo articolo si è scelto di usare una traduzione più fedele ai titoli giapponesi. Queste traduzioni sono state realizzate dall’autore dell’articolo o da Mario Pasqualini. Ciascuno di questi titoli sarà contrassegnato da una nota riportante il titolo giapponese originale e i titoli usati negli adattamenti ufficiali italiani.
Un ringraziamento anche a tutte le persone che hanno letto questo articolo in anteprima e mi hanno aiutato con i loro feedback.
Introduzione
Gli anni ‘70 sono stati per Lupin III un decennio importante. È in quegli anni, infatti, che il personaggio creato da Monkey Punch fa il passaggio dalla carta stampata all’animazione, dando il via a una lunga serie di adattamenti per il cinema e per la televisione che prosegue ancora oggi e che lo hanno reso un caposaldo della cultura popolare giapponese. Nel corso di questo processo, Lupin III si è reso indipendente dal materiale originale, cambiando, evolvendo e trasformandosi in base al gusto, allo stile e alle esigenza di ciascuno degli artisti che si sono avvicendati al timone delle sue avventure animate (e cartacee). Tra questi artisti spicca sicuramente il nome di Hayao Miyazaki, futuro fondatore e regista di punta dello Studio Ghibli, che proprio negli anni ‘70 ha diretto diverse opere aventi per protagonista Lupin III, lasciando sul personaggio e sulla sua storia un’impronta ormai indelebile. Lo scopo di questa serie di articoli sarà proprio quella di tracciare i contorni di quello che si potrebbe definire “il Lupin III di Hayao Miyazaki”, ricostruendo la storia e i dietro le quinte del suo coinvolgimento nel franchise e analizzando ciascuna delle opere che portano la sua firma. Il primo articolo si occuperà della prima serie, Lupin III Part 1 (1971-1972) (colloquialmente soprannominata dai fan “giacca verde”), di cui Miyazaki ha diretto, insieme a Isao Takahata, la seconda metà. Il secondo articolo sarà invece incentrato su Lupin III - Il castello di Cagliostro (1979), secondo lungometraggio animato del franchise nonché primo film della carriera da regista di Miyazaki. Infine, nel terzo e ultimo articolo sarà la volta degli episodi 145 e 155 della seconda serie di Lupin III, Lupin III Part 2 (1977-1980) (“giacca rossa”), gli unici da lui diretti, che hanno segnato la fine del coinvolgimento di Miyazaki.
L’uscita dalla Toei
Alla fine degli anni ‘60 Hayao Miyazaki era ancora un animatore Toei Dōga (futura Toei Animation), studio d’animazione in cui aveva esordito nel 1963. In quel periodo, Toei era nel pieno di un processo di razionalizzazione delle proprie risorse: molti degli animatori della vecchia guardia assunti a tempo pieno stavano venendo “invitati” a dimettersi1 e lo studio iniziava a concentrarsi sempre più sulla produzione di serie animate per la televisione2. Fu questo il clima che spinse Yasuo Ōtsuka, veterano della Toei Dōga nonché mentore di Miyazaki, a lasciare lo studio nel Dicembre 1968, dopo il completamento delle animazioni del film Il gatto con gli stivali (1969), per passare allo studio A Production, dove Daikichirō Kusube, fondatore dello studio nonché ex-animatore della Toei Dōga, lo aveva invitato3 a lavorare come animatore al Pilot Film di Lupin III2 che stava venendo prodotto per conto della casa di produzione Tōkyō Movie (futura TMS) sotto la regia di Masaaki Ōsumi. Questo cortometraggio di poco più di una decina di minuti fu realizzato con lo scopo di attirare l’interesse dei finanziatori per produrre un lungometraggio per il cinema tratto dal popolare manga di Monkey Punch. Il progetto fu percepito però come troppo rischioso e finì in stallo4. Ōsumi e Ōtsuka vennero quindi assegnati alla produzione della serie animata dei Mumin4, i personaggi creati dall’autrice finlandese Tove Jansson, che iniziò la messa in onda a partire dall’Ottobre del 19695.Secondo lo stesso Ōtsuka6, questa serie attirò l’attenzione di Miyazaki e Isao Takahata, che nel frattempo avevano già lasciato Toei, e li spinse, insieme all’animatore Yōichi Kotabe, a trasferirsi in A Production, dove nel 1971 tenteranno di realizzare un’altra serie animata ispirata a un classico della letteratura per l’infanzia occidentale: Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren. Il progetto non ottenne però l’approvazione dell’autrice e non vide mai la luce.
La prima serie di Lupin III e l’arrivo di Miyazaki e Takahata
Nel 1971 il progetto dell’adattamento animato di Lupin III si concretizzò in una serie per la televisione7. Ōsumi mantenne la sua posizione di regista mentre Ōtsuka venne promosso a character designer e direttore delle animazioni. I due decisero di mettersi al lavoro con l’intenzione di realizzare un tipo di animazione per adulti come non si era mai visto prima in televisione7. Ōtsuka diede seguito a questa intenzione concentrandosi sul realismo degli oggetti di scena: le armi e i veicoli non dovevano avere un aspetto generico, poco definito, ma dovevano sempre rifarsi ad armi e veicoli realmente esistenti8. Ōsumi si concentrò invece su altri aspetti, principalmente quelli legati alla regia e alla caratterizzazione dei personaggi: le atmosfere, per esempio, dovevano comunicare una certa noia esistenziale9 e il suo Lupin essere attraversato dall’apatia tipica di una persona ricca che si trova senza obiettivi e con troppo tempo tra le proprie mani10. Questo atteggiamento si rifletteva anche nelle pose che Ōtsuka chiese ai suoi animatori11: Lupin e Jigen dovevano essere personaggi scomposti, spesso allungati sul divano, con le spalle perennemente rilassate e mai con la schiena dritta, l’esatto contrario delle pose composte ed energetiche dei personaggi di Tommy La stella dei Giants a cui lavorarono fino a pochi mesi prima. A questa caratterizzazione per i personaggi si aggiunsero tutta una serie di influenze dal cinema live action, soprattutto dai film western o di Yakuza, che saranno ben evidenti nel corso della serie.
La serie esordì il 24 Ottobre 1971 su Yomiuri TV, ma il tanto ambizioso progetto di Ōsumi, Ōtsuka e del loro staff non andò incontro ai favori del pubblico: sin da subito gli ascolti furono infatti tremendamente bassi e arrivarono a toccare perfino il 4% di share12. In seguito alla trasmissione dei primi episodi vennero quindi indette diverse riunioni con lo staff e i produttori. Lo sponsor, il produttore di caramelle Asada, diede tutta la colpa del fallimento alla decisione di realizzare un cartone animato per adulti. L’azienda era fermamente convinta che l’animazione dovesse rivolgersi ai bambini e per questo fece promettere allo staff di adeguarsi a questo target eliminando gli elementi fuori luogo come, per esempio, quelli erotici12.Ōsumi si ritrovò una considerevole pressione addosso e, trovatosi alle strette, non sentì di poter far altro che dimettersi13. Per sostituirlo Kusube decise di affidare la regia della serie a Miyazaki e Takahata che, titubanti, accettarono unicamente perché lo studio non aveva altre alternative14. I due decisero quindi di prendere le redini della serie firmandosi con lo pseudonimo Gruppo dei registi A Production.
Lupin III - La prima serie
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La coppia si approcciò alla serie con delle idee precise, in parte opposte a quelle di Ōsumi, che Miyazaki, nonostante l’anonimato iniziale, diversi anni dopo ha esposto pubblicamente in più di un’occasione151617. Contrario al mantenere l’apatia dei primi episodi che era, secondo lui, un riflesso della società dei primi anni ‘70, Miyazaki desiderava portare nella serie quello spirito entusiasta e affamato di nuove esperienze che caratterizzava il Giappone della crescita economica della fine degli anni ‘60 e lo stesso manga originale di Monkey Punch. Non più un ricco annoiato che metteva in dubbio la propria esistenza, nella sua interpretazione Lupin III era un personaggio che non aveva mai conosciuto la ricchezza accumulata e sperperata dal suo illustre antenato, una figura spensierata e ottimista, incapace di rimanere ferma e sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo ed eccitante da fare. Jun’ichi Iioka, responsabile del dipartimento di sceneggiatura della serie, riporta che a sua volta Takahata avrebbe espresso durante le riunioni con lo staff l’intenzione di rendere Lupin III un personaggio più eroico e di alleggerire le atmosfere della serie introducendo diverse gag e scene slapstick18. Per le trame degli episodi Takahata guardava a dei modelli letterari19, alle storie scritte da Maurice Leblanc con protagonista Arsène Lupin, l’originale ladro gentiluomo, e a quelle scritte da Edogawa Ranpo con protagonisti il detective Akechi Kogorō (che era anche apparso in alcuni capitoli del manga originale e nel Pilot Film) e la sua nemesi, l’astuto ladro soprannominato “L’uomo misterioso dalle venti facce”. Nei primi episodi diretti da Ōsumi i furti erano un elemento secondario, se non spesso proprio assente: il suo Lupin III era prima di tutto una celebrità del sottobosco criminale e solo secondariamente un ladro professionista. Al contrario, Takahata aveva l’intenzione di riavvicinare Lupin al mestiere di ladro dando maggiore spazio ai furti, ai piani ingegnosi e strampalati con cui li portava a termine e alle sfide tra lui e Zenigata, che così sarebbe apparso molto di più di quanto sarebbe dovuto apparire se fosse rimasto Ōsumi al timone19. Con queste direzioni in mente, Miyazaki e Takahata rivoluzionarono la prima serie di Lupin III, donandole una seconda anima che, affiancandosi a quella di Ōsumi, la rese un lavoro unico e irripetibile.
Il passaggio dalla visione artistica di Ōsumi a quella di Miyazaki e Takahata non avvenne in maniera drastica ma fu graduale e non privo di problemi. Il primo cambiamento visibile della serie riguardò l’introduzione di una nuova sigla d’apertura a partire dall’episodio 4. La nuova sigla consisteva in un montaggio di scene dell’anime e del Pilot Film accompagnato da un breve monologo con cui Yasuo Yamada, doppiatore del personaggio di Lupin III, introduceva la serie e i suoi protagonisti. L’utilizzo di animazioni riciclate lascia supporre che si trattasse probabilmente di un cambiamento dell’ultimo minuto dovuto a quanto stava avvenendo dietro le quinte della serie. Infatti, prima ancora che Takahata esprimesse questa intenzione, a insistere che venisse reso più chiaro che Lupin III fosse un ladro e non un semplice criminale fu la stessa Yomiuri TV20. Il cambiamento della sigla di apertura segnò inoltre la scomparsa del nome di Ōsumi dai crediti: fatta eccezione per l’episodio 9, tutti gli episodi dal 4 al 15 non presentano infatti nessuna indicazione su chi fosse il regista della serie. Stando alle testimonianze1213, Ōsumi deve aver lasciato la produzione della serie proprio nel periodo della messa in onda degli episodi 3 e 4. Inoltre, Ōtsuka riferisce che Miyazaki e Takahata si sarebbero fatti carico di organizzare e correggere gli storyboard, un compito che prima spettava a lui e a Ōsumi, a partire dall’episodio 521. I due devono quindi essere subentrati prima della messa in onda del suddetto episodio. Ovviamente in quel momento i lavori per diversi degli episodi successivi erano in uno stato già piuttosto avanzato e lo stesso Ōtsuka22 riteneva che la regia vera e propria di Miyazaki e Takahata fosse iniziata con gli episodi 11 e 13 e che gli episodi precedenti, pur avendo subito alcune modifiche e tagli, rimanessero principalmente il frutto del lavoro di Ōsumi. Comunque, al loro arrivo Miyazaki e Takahata presero immediatamente la situazione in mano e bloccarono tutti gli storyboard e le sceneggiature degli episodi che non erano ancora stati trasformati in animazione, analizzando il materiale esistente per decidere cosa tenere, cosa cambiare e cosa scartare completamente1522. Per via di queste revisioni, i lavori di animazione incapparono in molti ritardi e Miyazaki stesso si ritrovò a dover contribuire disegnando diverse scene22 degli episodi a cui aveva lavorato Ōsumi, rendendo così ancora più difficile distinguere in maniera netta dove finisca il lavoro di quest’ultimo e dove inizi quello della coppia che lo ha sostituito.
Il cambio di direzione provocò un terremoto anche tra gli sceneggiatori. Secondo Jun’ichi Iioka19, quando Miyazaki e Takahata presero in mano la serie le sceneggiature per i primi 21 episodi erano già state completate sotto la supervisione di Ōsumi. Tutte quelle i cui lavori di animazione non erano ancora iniziati, fatta eccezione per una, furono però scartate e riscritte da zero19. Inoltre, buona parte del team iniziale di sceneggiatori decise di andarsene seguendo Ōsumi perché non interessata alla direzione che la serie avrebbe preso19. Fu Takahata a farsi quindi carico di supervisionare le nuove sceneggiature: la suddivisione dei compiti prevedeva che lui si occupasse di studiare i materiali originali e di lavorare con gli sceneggiatori alle trame degli episodi, prestando soprattutto attenzione a definire l’aspetto logico degli intrecci23. È probabilmente a questo lavoro di Takahata che si deve la presenza costante di piani e trucchi negli episodi della seconda metà della serie, elemento che si farà invece secondario per lasciare spazio all’azione e all’avventura nelle opere su Lupin III che anni dopo Miyazaki dirigerà in solitaria. Durante i lavori a questa prima serie, quest’ultimo non partecipava alle riunioni con gli sceneggiatori, ma si riuniva solo in seguito con Takahata per discutere di ciascun episodio19. Inoltre, Miyazaki collaborava con Ōtsuka alla creazione dei design dei veicoli e dei personaggi14 e, ovviamente, alla supervisione delle animazioni. Come accennato prima, l’obiettivo della nuova direzione della serie era non solo di riavvicinare Lupin III alle sue origini di ladro, ma anche quello di aumentare le gag e gli elementi slapstick per avvicinare gli spettatori più giovani18. In questo il contributo di Miyazaki agli storyboard e alle animazioni della serie fu fondamentale24.
Le avventure di Arsenio Lupin - Ladro gentiluomo di Maurice Leblanc
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La fase di transizione
Date le tempistiche descritte in precedenza, è improbabile che Miyazaki e Takahata fossero riusciti ad apportare modifiche rilevanti agli episodi 5 e 6. Discorso diverso per gli episodi immediatamente successivi che, nonostante fossero già a buon punto, subirono probabilmente alcuni tagli, aggiunte e modifiche, seppur in maniera non invasiva14. Nell’episodio 7, Lupo chiama lupo25, Lupin III è intenzionato a rubare le pergamene che contengono il segreto della spada di Goemon. L’episodio contiene diverse scene di violenza ed è in generale in linea con i precedenti di Ōsumi. Allo stesso tempo, però, la seconda metà dell’episodio vede Lupin coinvolto in due duelli che si risolvono, senza violenza, con delle gag che stemperano di molto le atmosfere, già piuttosto leggere nella prima metà. Non è possibile sapere con certezza se queste scene fossero state pensate così già sotto la supervisione di Ōsumi, anzi, viste le tempistiche, è probabile che lo fossero, ma è possibile ipotizzare che alcune di queste gag, come quella in cui uno dei samurai avversari rincorre Lupin agitando la spada, siano state ritoccate, magari allungate e animate, sotto la supervisione di Miyazaki o da Miyazaki stesso. Discorso diverso invece per l’episodio 8, Tutti riuniti nell’Operazione Carte da gioco26, al cui interno sembrano iniziare a convivere le due anime della serie. In questo episodio Lupin si impossessa di un mazzo di carte leggendario soffiandolo a un affarista senza scrupoli che, ovviamente, tenterà di tutto pur di riprenderselo. Già durante la fase di pre-produzione era stato deciso che l’episodio 8 sarebbe stato il primo a presentare la gang di Lupin al completo (da qui il titolo)27 e, per la maggior parte del minutaggio, l’episodio è in piena continuità con i precedenti, oltre che ispirato a due capitoli del manga, il 57 e il 59, di cui uno già adattato nel Pilot Film diretto dallo stesso Ōsumi. Al contrario, la prima parte dell’episodio è molto vicina al tipo di vicende che Takahata e Miyazaki avevano intenzione di mettere in scena: Lupin avvisa la sua vittima prima di compiere il furto e con una serie di trucchi riesce nei suoi intenti senza che Zenigata possa fare nulla per fermarlo. Inoltre, fino all’episodio precedente le vicende della serie si erano svolte principalmente in ambientazioni spoglie, isolate e lontane dalla società. Il furto all’inizio dell’episodio 8 si svolge invece in un contesto di vita mondana, non solo distante dai precedenti ma anche più vicino al modello letterario rappresentato dalle avventure di Arsène Lupin scritte da Maurice Leblanc. Sin dagli inizi della produzione pare che l’emittente televisivo facesse pressioni su Ōsumi affinché si concentrasse di più su questo tipo di storie20 ed è quindi molto probabile che l’idea di iniziare l’episodio in questo modo fosse già nei suoi piani. Nonostante questo, alcuni dettagli della messa in scena di questa prima parte potrebbero essere stati rimaneggiati in qualche misura da Takahata e Miyazaki. L’idea di un Lupin che si traveste da formosa signora di mezz’età o che usa un pallone gonfiabile con le fattezze di suo nonno per attuare la fuga sembrano infatti più vicine alla versione del personaggio dal carattere giocoso che Takahata e Miyazaki svilupperanno più avanti. A destare i maggiori sospetti, comunque, è la scena successiva: in essa, Lupin spiega di aver commesso il furto unicamente con lo scopo di farla pagare alla sua vittima accusandola di essere una persona avida che ha costruito la propria fortuna sulle spalle dei più poveri. Per quanto si tratti di un elemento totalmente secondario nell’economia dell’episodio, questo discorso contraddice un po’ la figura del personaggio che agisce seguendo unicamente i propri interessi e la propria curiosità che era stata costruita fino a quel momento, anticipando così quella vena eroica che Takahata e Miyazaki erano intenzionati a sviluppare.
Tra gli episodi che compongono questa fase centrale di transizione, l’episodio 9, Il sicario canta il blues28, rappresenta un caso piuttosto particolare. In esso fa la sua comparsa un sicario di nome Poon che apre una finestra sul misterioso passato di Fujiko. In apertura l’episodio ripropone la sigla dei primi tre episodi dove Ōsumi viene nuovamente indicato come regista della serie. Un segno, forse, di quanto l’episodio sia rimasto fedele alla sceneggiatura e agli storyboard realizzati sotto la sua supervisione. In effetti, non solo è in piena continuità con il lavoro di Ōsumi nell’intreccio e nel taglio registico, ma ripropone anche i temi e le atmosfere malinconiche presenti principalmente nella prima manciata di episodi. Come nell’episodio 2, L’uomo chiamato mago29, viene esplorato il personaggio di Fujiko e il suo rapporto con Lupin: quello femminile negli episodi di Ōsumi è un universo misterioso e inconoscibile e Fujiko, la sua rappresentante principale, è una figura enigmatica dal passato sconosciuto, fedele solo a sé stessa e impossibile da comprendere per gli uomini della serie, unicamente destinati a fare da pedine nelle sue macchinazioni. In questo episodio non solo viene fatta luce su una parte dei suoi trascorsi, ma la vediamo aprirsi e mostrare una fragilità e dei sentimenti apparentemente sinceri, soprattutto nei confronti di Lupin. Di fatto Ōsumi sembrava voler aprire qui uno spiraglio per sviluppi successivi nel rapporto tra i due che però non hanno mai avuto modo di concretizzarsi per via del suo abbandono. Con i cambiamenti a cui è andata incontro la serie e, soprattutto, con l’enorme successo raggiunto dal franchise negli anni seguenti, i cinque protagonisti hanno finito per cristallizzarsi nei loro ruoli, azzerando quasi del tutto la possibilità che il loro rapporto evolva in qualche modo. Questo è uno dei motivi per cui l’episodio 9 occupa un posto speciale in questa fase di transizione della serie. Nonostante tutti questi fattori, l’episodio fu anche il primo in cui l’apporto di Miyazaki si fece realmente rilevante: la mano dietro le animazioni di buona parte delle scene d’azione della prima metà dell’episodio è, infatti, inconfondibilmente la sua. Nonostante ciò, il numero di gag rimase ridotto al minimo e i toni adulti della trama vennero in larga parte rispettati, anche se proprio questi elementi furono causa di un contenzioso tra lo staff. Ōsumi ha raccontanto30 che la sceneggiatura originale prevedeva che lo stratagemma adoperato da Lupin per distrarre il compagno di Poon si concludesse con il lancio di una lancia di bambù affilata che lo avrebbe infilzato e ucciso. Sempre stando a quanto riportato in una sua intervista30, qualcuno dei membri dello staff riteneva che si trattasse però di un omicidio troppo crudele da disegnare e pare che per questo Miyazaki abbia proposto di concludere la scena con una gag: sulla punta della lancia di bambù sarebbe apparso un guantone da boxe che avrebbe steso il nemico. Non è chiaro quanto questo aneddoto riguardante Miyazaki possa essere attendibile dato che Ōsumi non era da tempo più presente. In ogni caso, alla fine si adottò una via di mezzo: il lancio di un sasso che, colpendolo sulla testa, finisce per tramortire e far precipitare il compagno di Poon.
Con l’episodio 10, Punta al falsario!31, si fa ancora più evidente la coesistenza di due anime diverse all’interno della serie. L’episodio vede Lupin in competizione con il Barone Ukraine su chi tra i due riuscirà per primo a reclutare Ivanov, un famoso falsario di banconote che si è da tempo ritirato dal mondo criminale. Oltre ad anticipare diversi aspetti della trama di Lupin III: Il castello di Cagliostro, il film che Miyazaki dirigerà nel 1979, l’episodio contiene più di un elemento che riflette il gusto e la direzione ricercata dalla coppia Miyazaki/Takahata e che pertanto possiamo provare ad attribuire a loro. Il primo elemento, quello più inconfondibile, è quello del volo: la passione di Miyazaki per gli aeroplani è ampiamente documentata nonché onnipresente nelle sue opere, e proprio nella prima metà di questo episodio ritroviamo diverse scene di volo, inclusa una battaglia aerea, che è impossibile non attribuire a lui. Difficile invece attribuire a qualcuno con certezza la paternità dell’enigma sul nascondiglio di Ivanov: è uno snodo di trama perfettamente in linea con l’intenzione di Takahata di avvicinare la serie alle storie di Leblanc ed Edogawa, ma nulla esclude che questo elemento fosse già presente nella sceneggiatura inizialmente supervisionata da Ōsumi. Infine, l’episodio presenta un notevole contrasto di tono tra le scene con protagonista Lupin e quelle incentrate su Ivanov. Se da un lato si toccano infatti in maniera fugace temi maturi e inusuali come la depressione di Ivanov, i suoi rimpianti per i crimini commessi e la sua relazione platonica con Silver Fox, dall’altro lato le atmosfere sono spesso stemperate dalle gag e le scene d’azione che coinvolgono Lupin. L’apice di questo contrasto di tono avviene nel finale che vede Lupin e Flinch scontrarsi a mani nude in una scena di stampo marcatamente comico mentre Ivanov, perduta la donna amata, decide di farsi saltare in aria assieme al suo rifugio.
Secondo Ōtsuka, l’episodio 11, Tempo che il settimo ponte cada32 è il primo la cui regia si può attribuire pienamente alla coppia Miyazaki/Takahata22. Indubbiamente, gli elementi che è possibile ricondurre a loro sono molti, anche se nasce comunque sotto la direzione di Ōsumi, ispirato al capitolo 17 del manga, e prevedeva inizialmente il fratello di Pycal nei panni del villain33. La trama vede Lupin indagare su una figura che sta facendo saltare in aria tutti i ponti di una città spacciandosi per lui; rintracciato il colpevole, il ladro scopre di essere finito in una trappola e viene costretto sotto ricatto a compiere il furto di un’auto blindata. Innanzitutto, l’ambientazione dell’episodio è completamente diversa da quella dei precedenti: i fatti si svolgono in una piccola città costiera attraversata da diversi canali la cui architettura ricorda, per quanto generica, più una città europea che una giapponese. Come detto in precedenza, Miyazaki e Takahata prima di prendere le redini di Lupin III avevano tentato di realizzare un anime tratto da Pippi Calzelunghe e negli anni successivi realizzeranno diverse opere tratte dalla letteratura europea o semplicemente ambientate in Europa. È quindi possibile che l’ambientazione di questo episodio rifletta questo interesse per l’Europa e i suoi paesaggi. Passando all’intreccio, l’episodio prosegue il lavoro di ridefinizione del personaggio di Lupin: l’apatia delle sue prime avventure è ormai completamente sparita e lo vediamo qui invece interpretare per la prima volta il ruolo dell’eroe in maniera del tutto disinteressata. Il suo obiettivo è quello di salvare una fanciulla innocente, un tipo di personaggio ricorrente nelle opere della prime fasi della carriera di Miyazaki e nel resto del franchise di Lupin III, anche grazie proprio all’influenza del suo Lupin III: Il castello di Cagliostro. Anche per questo, è probabile che il suo design dai tratti delicati sia opera dello stesso Miyazaki. Non è un caso, forse, che l’incipit dell’episodio veda Lupin intenzionato a ripulire il proprio nome da dei crimini che non ha commesso: è, infatti, come se la serie stesse tracciando una linea di confine tra il Lupin III criminale introdotto nella prima metà e il Lupin III ladro gentiluomo che andrà definendosi da qui in avanti. Nel cambiare il personaggio Takahata e Miyazaki non fanno però l’errore di eliminare un tratto distintivo del personaggio: la sua coolness. L’episodio infatti si distingue non solo per la sua trama divertente, articolata e piena di trucchi, ma anche per la sequenza che vede un Lupin ammanettato caricare la pistola con i denti e prendere la mira per colpire il nemico in barca: il lavoro di sound design, la colonna sonora western, l’attenzione della regia sul gesto e il sangue freddo di Lupin rendono questo momento una delle scene più cool di sempre. La scena però è subito controbilanciata da una gag, che comunque non stona troppo con l’episodio né rovina il momento come si potrebbe pensare. Nonostante Ōtsuka attribuisca l’episodio a Miyazaki e Takahata, visto che in realtà i semi erano stati già piantati da Ōsumi non è perfettamente chiaro a chi dovrebbe spettare la paternità di questa scena tanto iconica. L’aspetto cool del personaggio rimarrà anche negli episodi successivi, seppur continuamente stemperato dai momenti comici, e sarà più centrale nelle opere di Lupin III che Miyazaki dirigerà in solitaria. Tuttavia, una scena di questo tipo non si ripeterà più nella serie, sia nella sua dimensione narrativa, che vede Lupin uccidere un’altra persona, sia in quella registica, con le sue influenze western. Questo ci permette di sollevare un punto che andrebbe sempre tenuto a mente quando si parla di un lavoro collettivo come quello che si nasconde dietro la produzione di una serie animata: non tutte le idee possono essere attribuite al regista, anzi, tutto il contrario. Il tentativo che si sta facendo in questo articolo di comprendere sotto quale regista siano state realizzate determinate scene non significa che sia tutto frutto delle idee di questi registi. In questo caso, per esempio, è possibile che la scena sia nata o si sia sviluppata in questo modo anche grazie all’influenza della persona che si è occupata degli storyboard, di uno degli animatori o dello stesso Ōtsuka. Esattamente come l’episodio 13, l’ultimo con ancora qualche influenza del lavoro di Ōsumi, che presenterà elementi atipici per la serie dovuti probabilmente alla realizzazione degli storyboard da parte di un artista d’eccezione: Osamu Dezaki3.
Sempre stando a Ōtsuka, l’episodio 12, Alla fine chi riderà?34, era l’ultimo i cui lavori erano già avviati mentre Ōsumi era ancora al timone della serie22. È forse il meno riuscito di questa fase di transizione per via di più di un fattore. In questo episodio Lupin deve vedersela con Hayate, l’esponente di un’organizzazione criminale non meglio identificata, per il possesso dell’ultimo tesoro di un villaggio sperduto tra le montagne. In questo episodio, ancora più che nel decimo, le scene con protagonisti Lupin, Jigen e Fujiko presentano dei toni sopra le righe completamente diversi rispetto a quelli più drammatici delle scene con Hayate e i suoi sottoposti, per cui l’onore è una questione di vita o di morte. Anche qui, il finale è piuttosto esplicativo di questa tendenza: per Lupin e Jigen l’intera vicenda non è stata niente più che un gioco e quando prendono in scacco Hayate lo invitano ad andarsene senza causare ulteriori spargimenti di sangue, ma quest’ultimo, sollecitato da un suo sottoposto, preferisce gettarsi tra le fiamme per lavare con il suicidio l’onta dei suoi fallimenti. Rispetto all’episodio 10, però, tutto il resto non funziona: il piano di Lupin sembra un insieme di mosse scelte a caso, senza alcuna logica concreta, mentre la storia del villaggio e dell’organizzazione di cui fa parte Hayate è priva di dettagli e non ha alcuna profondità. Quest’ultimo aspetto potrebbe essere in realtà dovuto alla censura: stando a Ōsumi, la sceneggiatura originale toccava argomenti tabù come gli Ainu e i Burakumin e pertanto venne manomessa in maniera consistente35. Di questi riferimenti sembra essere sopravvissuto solamente il vestito del capo del villaggio le cui decorazioni ricordano quelle del vestiario tipico degli Ainu. È curioso notare, tra l’altro, che Miyazaki e Takahata fossero già incappati in un’esperienza simile: anche il film Il principe del sole - La grande avventure di Hols36 (1968) diretto da Takahata presso la Toei Dōga sarebbe dovuto essere ambientato in un villaggio Ainu, ma così non è stato per via delle interferenze dello studio.
Come già detto, l’episodio 13, Attenzione alla macchina del tempo!37, è l’ultimo episodio a essere stato influenzato in qualche misura dall’operato di Ōsumi. Si tratta, infatti, dell’unica sceneggiatura, tra quelle realizzate sotto la sua supervisione ma di cui non erano ancora iniziati i lavori di animazione, a non essere stata scartata19. Il titolo originale della sceneggiatura doveva essere “Solo dicendo addio si vive”1938. La storia, ispirata al capitolo 83 del manga, vede Lupin alle prese con Kyōsuke Mamō, un uomo in possesso di una macchina del tempo intenzionato a fare fuori Lupin III per impedire a Lupin XIII di distruggere la sua famiglia nel XXIX secolo. Ovviamente, anche se la sceneggiatura originale era stata realizzata prima del loro arrivo, Miyazaki e Takahata realizzarono un episodio che riflette pienamente la nuova direzione della serie. Dopo un prologo carico di pathos e di mistero, l’episodio si apre con Lupin e Jigen intenti in uno dei loro soliti furti. Ormai il canovaccio che diverrà una delle colonne portanti della serie è stato impostato: Lupin avvisa in anticipo la sua vittima, Zenigata prova a fermarlo ma non riesce a opporsi ai suoi piani ingegnosi. Portato a termine il colpo, i due si fermano a celebrare e a commentare il loro successo tra le risate e la soddisfazione. La scena serve chiaramente a preparare il secondo ingresso in scena di Mamō, pronto a spegnere il loro entusiasmo, ma è anche un primo segno di quanto sia diverso questo Lupin rispetto a quello visto in precedenza: non più irrigidito dalla sua noia esistenziale, il nuovo Lupin pratica il furto per puro divertimento, per amore del rischio e della sfida. Il resto dell’episodio ci mostra inoltre un personaggio più sopra le righe, spensierato, a tratti spavaldo e bambinesco. Questo non è più il Lupin dell’episodio 4, Una sola chance di fuga39, che dinanzi alla possibilità di venire giustiziato resta fermo a contemplare la morte ponderando se abbracciarla o meno; questo Lupin della morte ha invece paura, e, messo alle strette da un personaggio quasi onnipotente come Mamō, rimane profondamente turbato e cerca di nascondere questo suo stato d’animo facendo il buffone. Discorso simile anche per Jigen e Goemon i cui caratteri sono stati alleggeriti per prestarsi meglio ai toni comici dell’episodio che, nonostante metta Lupin in una situazione disperata, è comunque pieno di gag. A questo proposito, un cambiamento apportato da Miyazaki e Takahata rispetto alla sceneggiatura originale di cui siamo a conoscenza con certezza riguarda il finale: inizialmente era previsto che Lupin uccidesse Mamō con una falce19, ma nell’episodio finito si limita a metterlo in fuga dopo averlo ridicolizzato assieme a Jigen e Goemon, prima disarmandolo e privandolo dei suoi vestiti, e poi distruggendo a martellate la sua macchina del tempo.
Un discorso a parte andrebbe fatto per il personaggio di Fujiko. Mentre Lupin e i suoi due compagni, anche se in misura minore, hanno subito un cambiamento drastico ma ben ragionato, lei da questo episodio ne esce unicamente impoverita. Il suo personaggio è una figura piatta che fa da sfondo: il suo rapporto complesso e contraddittorio con Lupin è completamente spazzato via e i due diventano qui una sorta di coppia generica di fidanzati. Dopo vari tentativi di appuntamento interrotti dall’intervento di Mamō, Lupin arriva persino a chiederle la mano per poterla sposare prima di morire. Fujiko non solo accetta con piacere, ma nella scena finale, dopo che ormai il pericolo è stato scongiurato, rivendica la promessa d’amore fattagli e cerca di costringere Lupin a sposarla nonostante le sue proteste. Si tratta di una dinamica completamente aliena al personaggio e alla serie, che non verrà più riproposta e il cui tiro verrà, per fortuna, aggiustato già a partire dall’episodio successivo.
Gli episodi di Miyazaki e Takahata
L’episodio 14, Il segreto dello smeraldo40, segnò la fine della fase di transizione della serie. Da qui in avanti, tutti gli episodi, questo incluso, furono concepiti e realizzati per intero sotto la regia di Miyazaki e Takahata. La trama di questo episodio vede Lupin e Fujiko infiltrarsi a una serata di gala su una nave per rubare uno smeraldo chiamato “Occhio del Nilo”; lo smeraldo, però, non si trova dove loro credevano che fosse e i due dovranno scoprirne la vera ubicazione senza insospettire Zenigata, anche lui presente sulla nave. Si tratta di un intreccio vivace, e, come si potrebbe aspettare da Miyazaki, la regia gioca soprattutto a esaltare i movimenti dei personaggi, adottando uno stile meno ricercato rispetto a quello ricco di influenze dal cinema dal vivo di Ōsumi per dare così maggiore spazio alle animazioni. L’episodio, come i successivi d’altronde, è infatti pieno di momenti comici e gag slapstick, tra cui colpisce soprattutto la buffa e articolata sequenza di ballo tra Zenigata e Fujiko. L’ambientazione è, come all’inizio dell’episodio 8, mondana, aristocratica, ma è completamente scomparsa qualsiasi figura negativa o criminale, a eccezione ovviamente dei ladri protagonisti: da qui in avanti le apparizioni di personaggi di questo tipo saranno poche e circoscritte a una manciata di episodi. Infine, in questo episodio fa la sua apparizione una Fujiko completamente nuova. I suoi capelli non sono più lunghi e mossi ma sono diventati un caschetto mentre il suo fisico e il suo vestiario sono stati ridisegnati per ridurre l’accento che veniva dato alle curve del suo corpo. Al livello caratteriale, non più la donna indecifrabile degli episodi precedenti, questa nuova Fujiko è a tutti gli effetti una rivale e una collaboratrice saltuaria di Lupin, anche se non disdegnerà, nei prossimi episodi, di continuare a tradirlo o ad approfittarsi di lui facendo leva sul suo fascino.
L’episodio 15, Catturiamo Lupin e andiamo in Europa41, dà inizio al filone di episodi in cui le sfide e gli inseguimenti tra Lupin e Zenigata sono al centro o occupano una parte prominente delle storie. In questi episodi la dinamica tra i due diviene un misto tra il gioco Guardie e ladri e gli inseguimenti in stile Tom & Jerry. Sono sfide le cui mosse e contromosse sono sia mentali che fisiche: il divertimento di questi episodi, infatti, non sta solo nei trucchi assurdi e ingegnosi escogitati da Lupin, ma anche nel modo con cui vengono messi in pratica e nelle conseguenze che hanno sui personaggi. Spesso, anche per via delle intromissioni di Zenigata, le mosse di Lupin riescono, o non riescono, solo per un soffio, lasciando col fiato sospeso lo spettatore e generando una risata nel momento in cui qualcosa va storto e Lupin ne paga le conseguenze fisiche. Rispetto ai precedenti, in questi episodi Zenigata si fa più vivace e intraprendente, un vero e proprio terremoto, pronto a tutto pur di battere Lupin al suo stesso gioco. Alla fine, però, il ladro ha sempre la meglio, generando ulteriori risate per via delle reazioni scomposte del povero Zenigata, destinato a essere l’eterno sconfitto anche quando sembra avere la vittoria in pugno. A questo nuovo filone appartengono, chi più e chi meno, tutti gli episodi successivi, fatta eccezione per il 20 e il 21. Tutta questa evoluzione nella loro dinamica sarebbe riuscita la metà se Miyazaki e Ōtsuka non avessero fatto evolvere anche lo stile di animazione della serie: in questi episodi, lo stile di disegno si fa più morbido, meno realistico, i volti si fanno più tondeggianti e le espressioni più esagerate, ma soprattutto i movimenti vengono accentuati per dare maggiore carica alle gag slapstick e agli inseguimenti tra i personaggi. Questa evoluzione nelle animazioni non arriva però senza alcun singhiozzo: l’episodio presenta diversi momenti in cui i tratti e la capigliatura di Fujiko cambiano continuamente da un’inquadratura all’altra, a volte imitando il design dei primi episodi, come se gli animatori non fossero ancora venuti pienamente a patti con il nuovo design del personaggio.
L’episodio 16, Tattiche di furto alla gioielleria42, porta due cambiamenti importanti. Il primo riguarda l’esordio di una nuova sigla di apertura interamente composta da clip degli episodi precedenti. La selezione, ovviamente, pesca principalmente dagli episodi di Miyazaki e Takahata ma riprende anche scene dai precedenti, concentrandosi soprattutto sul mostrare gli inseguimenti e le disavventure che coinvolgono Lupin, i suoi compagni e la polizia. Il testo del nuovo brano perlopiù ripete il nome di Lupin III, come quello usato per la prima sigla di apertura, ma il ritmo è più vivace e il tono più allegro, perfettamente in linea con il cambiamento della serie stessa. Solo per questo singolo episodio, la sigla è accompagnata da un monologo di Goro Naya, doppiatore di Zenigata, che, sotto forma di rapporto ufficiale, descrive i cinque protagonisti (sé stesso incluso), riassumendo così le premesse della serie esattamente come faceva Yasuo Yamada nella seconda sigla d’apertura. Infine, questa nuova sigla è importante perché introduce per la prima volta i nuovi registi della serie sotto lo pseudonimo Gruppo dei registi A Production. L’altro cambiamento importante riguarda l’introduzione della Fiat 500 a sostituzione della Mercedes Benz SSK che Lupin aveva guidato in molti degli episodi precedenti e nella prima sigla. Il motivo del cambiamento fu principalmente di natura pratica: il design della Mercedes Benz SSK era piuttosto complesso da animare e pare che solo Ōtsuka e Yuzo Aoki, uno degli animatori di punta della serie, fossero in grado di disegnarla nelle varie angolazioni necessarie; Miyazaki avrebbe quindi proposto di usare una macchina come la Fiat 500 perché molto più facile da disegnare43. La Fiat 500 da cui presero ispirazione apparteneva allo stesso Ōtsuka e pare che Miyazaki abbia giustificato la scelta spiegando che un’utilitaria alla portata di tutti per un ladro che spesso rimane a bocca asciutta avesse anche più senso di una costosissima Mercedes Benz SSK43. In effetti, l’episodio 16 è proprio uno degli episodi in cui Lupin, pur avendola vinta, perde la refurtiva un attimo prima di farla franca. La macchina riflette probabilmente il gusto dello stesso Miyazaki che, come renderà poi esplicito in film come Porco Rosso (1992) e Si alza il vento (2013), apprezza l’Italia e l’ingegneria italiana. Inoltre si sposa bene con il cambiamento del personaggio, che in questi episodi dimostra un carattere molto più alla mano e spensierato. Già nel primo episodio diretto da Ōsumi Lupin si era travestito da idraulico per infiltrarsi in un edificio, ma è con la direzione di Miyazaki e Takahata che i suoi piani iniziano a implicare quasi sempre un nuovo travestimento, spesso da lavoratore manuale impegnato, di volta in volta, nei mestieri più disparati, senza nessuna paura di sporcarsi le mani o di svolgere mansioni poco dignitose per una figura del suo lignaggio. Infine, che la Fiat 500 si prestasse meglio a essere animata e utilizzata negli episodi della seconda metà della serie fu subito evidente: già al suo esordio la macchina si fa protagonista di diversi inseguimenti e gag, dimostrando una malleabilità ben diversa dalla Mercedes Benz SSK, che veniva invece utilizzata perlopiù in scene statiche e impostate. Rimanendo in tema veicoli, negli episodi appaiono di nuovo diversi mezzi di volo, alcuni realistici e altri ben più strampalati, che riflettono sicuramente il gusto e la passione di Miyazaki. Infine, l’episodio stabilisce un altro tratto caratteriale importante di Fujiko: a quanto visto in precedenza si aggiunge qui un’avidità esagerata, quasi parodistica, che diverrà tanto un suo tratto distintivo quanto un suo punto debole, un po’ come lo è per Lupin il suo debole per le donne, su cui, tra l’altro, si concentra proprio l’episodio successivo, il 17.
L’episodio 19, Quale sarà la terza generazione vincente?44, vede l’Ispettore Ganimard III, nipote dell’ispettore che dava la caccia all’originale Arsène Lupin, sfidare Lupin III in occasione di una mostra dedicata ai cimeli di suo nonno. Si fa quindi riferimento esplicito alla fonte letteraria del personaggio. Al contrario, l’episodio successivo, il 20 è, assieme al 13, l’unico episodio diretto da Miyazaki e Takahata a rifarsi a un capitolo del manga. Gli episodi nati sotto la regia di Ōsumi avevano spesso fatto riferimento al manga pescando a piene mani situazioni e stratagemmi oppure estendendo, approfondendo e riscrivendo storie e personaggi di alcuni capitoli per adattarle alla durata standard di un episodio. Quelle realizzate per intero da Miyazaki e Takahata sono invece per la maggior parte storie completamente originali, a eccezione, per l’appunto, dell’episodio 20, Cattura il falso Lupin45, che vede Lupin infiltrarsi su un’isola per indagare su una serie di furti che sono stati commessi sfruttando il nome e gli stratagemmi di suo nonno. L’incipit si rifà ai capitoli dal 2 al 5 di Lupin IIII - Le nuove avventure46, una serie di storie scritte e disegnate da Monkey Punch in concomitanza con la messa in onda dell’anime. L’intreccio dell’episodio, comunque, è perlopiù inedito ed è probabilmente il meno riuscito tra quelli diretti da Miyazaki e Takahata: le gag sono esagerate e piatte mentre gli stratagemmi troppo banali e facili.
L’episodio 21, Aiutate la bisbetica!47, è l’ultima eccezione al filone incentrato sulle sfide tra Lupin e Zenigata. In questo episodio Lupin deve salvare e proteggere la figlia dell’ex-partner di suo padre, Lupin II, mentre è inseguito dai rapitori e dalla polizia. Come per l’episodio 11, anche qui viene fuori il lato gentile ed eroico del personaggio, pronto a sacrificarsi e a mettere i propri interessi e la propria reputazione al secondo posto rispetto alla sicurezza di un innocente. Si tratta di nuovo di una giovane fanciulla, ma questa volta il suo carattere è più sfrontato e irrequieto. Il suo aspetto comunque, persino più di quello di Lisa, la ragazza dell’episodio 11, ricorda le future protagoniste delle opere di Miyazaki. L’episodio è inoltre uno dei pochi tra quelli diretti da Miyazaki e Takahata a presentare alcuni elementi emotivi e melodrammatici, pur rimanendo principalmente una storia d’avventura dai toni leggeri. Come nei finali dell’episodio 11, di Lupin III: Il castello di Cagliostro e dell’episodio 155 della seconda serie, anche qui la storia si chiude con una certa nota malinconica, con l’idea che Lupin non appartenga al mondo di cui fanno parte le giovani fanciulle che di volta in volta si ritrova a salvare. Pur nascondendo un cuore d’oro, Lupin rimane pur sempre un ladro che quindi non può far altro che sparire dopo aver compiuto le sue buone azioni, senza possibilità di rimanere a prendersene i meriti.
L’episodio 23, La grande competizione per l’oro48,è il finale della serie: un’enorme quantità di monete d’oro viene ritrovata per caso durante i lavori per costruire la metropolitana di Tōkyō e divengono l’oggetto della sfida finale tra Lupin III e l’Ispettore Zenigata. Miyazaki successivamente raccontò che che tutto lo staff si divertì parecchio a realizzare questo episodio, a inservirvi tutto ciò che piaceva loro e ad alzare al massimo il livello di assurdità49. Il risultato è uno degli episodi più intensi, divertenti e rifiniti della serie, ricco di tutte le caratteristiche migliori di questa seconda metà diretta da Miyazaki e Takahata. Animazioni e fondali sono decisamente più curati ed elaborati, e l’intreccio è un continuo susseguirsi di mosse e contromosse, inseguimenti e gag slapstick. In un finale che sembra anticipare tutte le volte che verrà dato per morto nelle opere successive, Lupin decide di farsi saltare in aria insieme al suo ultimo covo e ai suoi compagni per sfuggire alle grinfie dell’Ispettore Zenigata che, convinto di aver perso la sua ragione di vita, scoppia a piangere. Nella scena seguente viene svelato che non si trattava di nient’altro che dell’ennesimo trucco di Lupin, salvo in un barile alla deriva nel mare e pronto a ricominciare da capo in un’altra nazione. Il suo acerrimo nemico, però, lo raggiunge subito e inizia a inseguirlo a nuoto, strappando così al pubblico un’ultima risata prima di chiudere la serie con l’unico finale possibile: la riconferma che l’inseguimento tra Lupin e Zenigata non avrà mai fine.
Conclusione
Purtroppo, l’episodio 23 chiuse prematuramente la serie. Gli episodi previsti erano infatti 2643, ma con un indice degli ascolti medio dell’8.8% in un periodo in cui gli anime erano soliti ottenere il 20%30 non si poté far altro che cancellarla in anticipo. Negli anni successivi la serie fu riscoperta dal pubblico e le repliche arrivarono persino a ottenere ascolti di oltre il 30%1050. Da questo successo nacque l’idea di realizzare una seconda serie animata e un primo film cinematografico, da cui prese poi il via uno dei franchise più longevi della storia degli anime e dei manga. Mentre succedeva questo, Miyazaki e Takahata si erano ormai spostati su progetti di altro tipo. Insieme realizzeranno i due mediometraggi della serie Panda! Go, panda! (1972-1973) e le serie di Heidi (1974) e Marco dagli Appennini alle Ande (1976) per poi separarsi durante la lavorazione di Anna dai capelli rossi (1979). Da lì, Miyazaki avvierà definitivamente la sua carriera da regista creando nel 1978 la serie di Conan - Il ragazzo dal futuro. Ma proprio quando il suo lavoro su Lupin III sembrava essere ormai un lontano ricordo, ecco che l’anno successivo il ladro gentiluomo tornerà nuovamente a bussare alla sua porta con un’opportunità da non lasciarsi scappare.
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Gli altri articoli di questa serie
Hard boiled, ma con un cuore d’oro - Il Lupin III di Hayao Miyazaki pt. 1 di 3
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[Metablog] Ragionamenti su “Il Lupin III di Hayao Miyazaki" pt. 2 (in arrivo)
[Metablog] Curiosità sul Lupin III di Miyazaki (in arrivo)
Bibliografia
100Tenrando anime komikusu 4 Rupan Sansei PART-1 (100てんランド・アニメコミクス4 ルパン三世 PART-1). 1982. Futabasha.
Kaze no tani no Naushika GUIDEBOOK (風の谷のナウシカ GUIDEBOOK). 2010. Tokuma Shoten.
THE Rupan Sansei FILES– Rupan Sansei zen kiroku (THEルパン三世FILES―ルパン三世全記録). 1998. Kinema Junpo.
Clements, Jonathan. 2013. Anime: a history. British Film Institute.
Miyazaki, Hayao. 2014. (Trad. di F.L. Schodt e Beth Cary) Starting Point: 1979-1996. Viz.
IIoka, Jun’ichi (飯岡順一). 2015. Watashi no「Rupan Sansei」funtouki: anime kyakuhon monogatari (私の「ルパン三世」奮闘記: アニメ脚本物語). Kawade Shobō Shinsha.
Kanoh, Seiji (叶 精二). 2021. Rupan Sansei PART1 e-konte shuu「TV 1st series」hizou shiryou korekushon (ルパン三世 PART1 絵コンテ集 「TV 1st series」秘蔵資料コレクション). Futabasha.
Ōtsuka, Yasuo (大塚康生). 2014. Sakuga ase mamire (作画汗まみれ 改訂最新版). Bungeishunjū.
Sitografia
Tutti i siti sono stati visitati l’ultima volta in data 21/09/2023
https://animetudes.com/2020/07/25/the-history-of-tms-part-6-lupin-the-third/
https://ja.wikipedia.org/wiki/%E3%83%A0%E3%83%BC%E3%83%9F%E3%83%B3_(%E3%82%A2%E3%83%8B%E3%83%A1)
https://sites.google.com/site/lupinthethirdcom/anime/films/-1979-the-castle-of-cagliostro/interviews/1981-4-june-hayao-miyazaki-yasuo-ohtsuka
http://lupinfes2003.fc2web.com/NEW2/interview/ohtsuka/oh02.htm
https://www.videor.co.jp/tvrating/past_tvrating/anime/01/post-3.html
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol2-16c1.html
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol6-02a7.html
Note
Anime: a history p.133 ↩︎
Sakuga ase mamire p.179-180 ↩︎ ↩︎
https://animetudes.com/2020/07/25/the-history-of-tms-part-6-lupin-the-third/ ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.184 ↩︎ ↩︎
https://ja.wikipedia.org/wiki/%E3%83%A0%E3%83%BC%E3%83%9F%E3%83%B3_(%E3%82%A2%E3%83%8B%E3%83%A1) ↩︎
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol2-16c1.html ↩︎
Sakuga ase mamire p.191 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.192 ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.24 ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.25 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.193 ↩︎
Sakuga ase mamire p.194-195 ↩︎ ↩︎ ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.71 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.206-207 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Kaze no tani no Naushika GUIDEBOOK p.148-157 ↩︎ ↩︎
Starting Point p. 277-284 ↩︎
https://sites.google.com/site/lupinthethirdcom/anime/films/-1979-the-castle-of-cagliostro/interviews/1981-4-june-hayao-miyazaki-yasuo-ohtsuka ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.23 ↩︎ ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.24-25 ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.18-19 ↩︎ ↩︎
Rupan Sansei PART1 e-konte shuu p.72-73 ↩︎
Sakuga ase mamire p.206-207 ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎
http://lupinfes2003.fc2web.com/NEW2/interview/ohtsuka/oh02.htm ↩︎
Sakuga ase mamire p.202 ↩︎
Titolo originale: 「狼は狼を呼ぶ」
Titoli italiani: Il segreto delle tre pergamene / La spada invincibile ↩︎
Titolo originale: 「全員集合トランプ作戦」
Titoli italiani: Le carte da gioco di Napoleone / Il segno della fortuna ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.16 ↩︎
Titolo originale: 「殺し屋はブルースを歌う」
Titoli italiani: Il documento segreto del calcolatore elettronico / Il passato ritorna ↩︎
Titolo originale: 「魔術師と呼ばれた男」
Titoli italiani: La barriera invisibile / Poteri magici ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.72 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Titolo originale: 「ニセ札つくりを狙え!」
Titoli italiani: Microfinger il re dei falsari / La principessa delle nevi ↩︎
Titolo originale: 「7番目の橋が落ちるとき」
Titoli italiani: Furto alla cassa della banca centrale / Il settimo ponte ↩︎
100Tenrando anime komikusu 4 Rupan Sansei PART-1 ↩︎
Titolo originale: 「誰が最後に笑ったか」
Titoli italiani: Le due statuine gemelle / Il villaggio assediato ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.72 ↩︎
Titolo originale: 「太陽の王子 ホルスの大冒険」
Titolo italiano: La grande avventura del piccolo principe Valiant ↩︎
Titolo originale: 「タイムマシンに気をつけろ!」
Titoli italiani: Una sfida dal futuro / La statua d’oro ↩︎
Titolo originale:「さよならだけが人生だ」 ↩︎
Titolo originale: 「脱獄のチャンスは一度」
Titoli italiani: L’evasione di Lupin / Prigioniero! ↩︎
Titolo originale:「エメラルドの秘密」
Titoli italiani: Caccia allo smeraldo / La fuga ↩︎
Titolo originale:「ルパンを捕まえてヨーロッパへ行こう」
Titoli italiani: Il busto d’oro del Sig. Kimman / Il dubbio ↩︎
Titolo originale: 「宝石横取り作戦」
Titoli italiani: Rapina alla gioielleria / Un gioco da ragazzi ↩︎
Sakuga ase mamire p.208-209 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Titolo originale: 「どっちが勝つか三代目!」
Titoli italiani: I cimeli della famiglia Lupin / Nemici per la pelle ↩︎
Titolo originale: 「ニセルパンを捕まえろ!」
Titoli italiani: La corona di Gengis Kahn / L’onore in pericolo ↩︎
Titolo originale: 「ルパン三世 新冒険]. In Italia queste storie sono state pubblicate integralmente da Planet Manga (2016) in coda alla prima serie del manga (Vol. 11-15, Cap.95-129). I capitoli menzionati nell’articolo corrispondono quindi ai capitoli 96-101. ↩︎
Titolo originale: 「ジャジャ馬娘を助けだせ!」
Titoli italiani: Il rapimento di Jenni / Un amico fedele ↩︎
Titolo originale: 「黄金の大勝負!」
Titoli italiani: L’isola dei sogni perduti / Antiche monete d’oro ↩︎
Starting Point p.280 ↩︎
https://www.videor.co.jp/tvrating/past_tvrating/anime/01/post-3.html ↩︎
Introduzione al nuovo Terre Illustrate
Terre Illustrate nacque nell’Agosto del 2012. Avevo appena compiuto 16 anni, da qualche tempo ormai leggevo fumetti con una certa assiduità e pertanto decisi di aprire un blog dove pubblicare i miei pensieri sulle opere che leggevo. A essere sinceri, all’inizio scrivevo principalmente con il desiderio di farmi notare. Nonostante il motivo futile, negli anni non ho mai smesso di scrivere e alla fine la scrittura stessa è diventata un altro mio hobby. Non solo la scrittura, ma anche il lavoro di ricerca e approfondimento che precede ogni mio articolo sono diventati una vera e propria passione e probabilmente Terre Illustrate continuerà a esistere, in una forma o nell’altra, finché rimarranno tali.
Nella sua incarnazione originale, Terre Illustrate non era nient’altro che un blog pubblicato tramite Blogspot, la piattaforma di blogging gratuita di Google, e, seppur con qualche rimaneggiamento, è sempre rimasto tale. L’argomento dei miei post, invece, nel tempo si è evoluto con l’evolversi dei miei gusti e dei miei interessi, dai fumetti si è quindi espanso ai cartoni animati e al cinema dal vivo, ma soprattutto si è concentrato sulle opere provenienti dal Giappone. Così come sono cambiate queste cose, anche i miei approcci alla scrittura e le mie idee su Internet sono cambiati notevolmente. Gli strumenti e le possibilità che mi offriva Blogspot hanno iniziato a starmi sempre più stretti e per questo ho iniziato prima a diversificare il mio lavoro, aprendo canali Youtube (qui e qui) e Twitch (qui), e poi a pianificare una nuova casa per Terre Illustrate. L’idea nasceva anche dal desiderio di possedere uno spazio su Internet che mi appartenesse veramente e di non essere più un “ospite”" di una grande azienda come Google. Negli anni, Internet si è fatto sempre più centralizzato e la maggior parte degli spazi “abitati” appartiene ormai a una manciata di aziende che virtualmente può fare qualsiasi cosa con quel che gli utenti pubblicano, in primis renderlo inaccessibile sia agli altri sia agli autori stessi. Per questo sono convinto che sia importante riappropriarsi dei propri pensieri, del proprio lavoro creativo, e lavorare per un web più decentralizzato. I social media e le piattaforme delle grandi aziende possono essere un ottimo mezzo per stringere nuovi contatti e un importante megafono per far conoscere a più persone il nostro lavoro, ma non dovrebbero mai essere la nostra base, il nostro quartier generale, perché basterebbe poco per perdere tutto. Ecco quindi perché ho scelto di aprirmi uno spazio indipendente: perché a prescindere da quel che potrebbe succedere al server che mi ospita, ogni aspetto di questo sito è salvo sui miei hard disk e mi basterebbe poco per spostarlo altrove.
L’obiettivo dietro questo cambiamento era anche quello di dare una nuova forma e una nuova organizzazione al mio lavoro. Internet è un mezzo meraviglioso perché dà a tutti la possibilità di esprimersi e di avere un proprio spazio dove farlo. Internet, però, è anche un luogo viziato da cattive abitudini, spesso dovute proprio ai modelli economici delle grandi aziende di cui si parlava sopra. In particolare, Internet è anche un posto dove si parla troppo, anche quando non ce n’è bisogno. Ogni giorno siamo costantemente inondati da nuovi post, nuovi articoli e nuovi video proposti in un flusso continuo e inarrestabile. Il risultato è che ognuno di essi tende a perdersi come un ago in un pagliaio, a emergere con fatica e a sparire dopo pochi giorni, se non poche ore. Questo, in un meccanismo che si morde la coda, alimenta ulteriori abitudini sgradevoli, come quella di produrre sempre di più per avere la certezza di essere costantemente visibili, sminuendo quindi il singolo frutto del proprio lavoro a favore della costruzione della propria persona pubblica, o come quella di rincorrere l’argomento sulla cresta dell’onda, anche a costo di produrre articoli, video e post clickbait, approssimativi o semplicemente vuoti, privi di contenuto. È un discorso lungo che meriterebbe molto più spazio per essere trattato seriamente, ma il punto a cui volevo arrivare è che con Terre Illustrate vorrei continuare a seguire un approccio rilassato e dare il giusto spazio a ogni singolo articolo o video prodotto, senza inseguire trend e senza sprecare energie a curare i canali social più del minimo indispensabile.
Questo ideale si è concretizzato e si concretizzerà in diversi modi. Innanzitutto si è concretizzato con diverse scelte fatte in merito al “nuovo” Terre Illustrate. Tra le mie priorità per la creazione del nuovo sito web c’era la presenza di funzionalità di ricerca e di tag degli articoli che fossero il più efficienti possibile, così da permettere ai lettori di proseguire con facilità il loro personale percorso di lettura e agli articoli di non esaurire il loro ciclo vitale una volta spariti dalla home page. Inoltre, il nuovo sito web mette a disposizione un buon sistema di note, totalmente assente su Blogspot, e, su desktop, un indice dei contenuti, così da rendere la consultazione il più agevole possibile. Per motivi pratici e non solo, ho anche optato per un sito web che fosse (quasi completamente) statico. Si tratta forse di una definizione che alla maggior parte dei lettori non dirà molto e io, a esser sinceri, non sono la persona più adatta per spiegarvi cosa sia un “sito statico”, ma vi basti sapere che questo si traduce in un sito molto più leggero e veloce da caricare, sia per me sia per l’utente finale.
Infine, il nuovo approccio “sinergico” e il metablog. Passando per l’url https://metablog.terreillustrate.it/ è possibile raggiungere un secondo sito web che avrà diverse funzioni. La prima, molto banalmente, sarà quella di contenere e archiviare le poche comunicazioni che ho necessità di fare. L’uscita di un nuovo video, l’archiviazione di una nuova live, le collaborazioni con altri siti e riviste e la mia partecipazione a panel e conferenze verranno comunicati, oltre che sui canali social di Terre Illustrate, sul metablog, ma non è questa la sua funzione principale. Il metablog nasce infatti per integrare ed espandere gli articoli pubblicati su Terre Illustrate. Al suo interno, per esempio, ho intenzione di pubblicare scritti più personali in cui racconto e discuto la lavorazione di alcuni degli articoli del sito principale con l’intento sia di rendere più chiari gli obiettivi che mi ero posto che di demistificare il processo che c’è dietro i suddetti articoli. Così facendo mi sembra di rendere i lettori un po’ più partecipi e, soprattutto, di dare ancora più rilievo a ciascun articolo. Già con quest’ultimo scopo in mente, due anni fa provai a sperimentare una piccola “campagna pubblicitaria” sui social per l’ultimo articolo di quello che è ormai il vecchio Terre Illustrate, la recensione di Ankoku Shinwa di Daijirō Morohoshi, realizzando una serie di post con curiosità aggiuntive sull’opera e sull’autore. L’esperimento ebbe un certo successo e mi ripromisi di ripeterlo, ma trovai anche uno spreco lasciare che tutte quelle informazioni si disperdessero nel mare dei social media. Per questo il metablog farà anche da archivio per questo tipo di post raccogliendoli in articoli appositi così che possano essere più facili da reperire e consultare. Sempre con lo scopo di dare maggiore rilievo, di approfondire e di espandere gli argomenti del blog principale, ho intenzione di far seguire ad alcuni degli articoli una live dedicata dove, per esempio, potrei mostrare alcuni dei materiali usati, nel caso di una ricerca storica, o invitare ospiti per discutere ulteriormente delle opere, degli autori o dei temi trattati. L’ultima funzione, per ora, del metablog non riguarda invece i miei articoli, ma quelli degli altri. Ho intenzione infatti di realizzare una piccola rubrica, una “metarivista”, in cui presenterò, con piccoli commenti, articoli e video presenti sul web e che ho trovato interessanti. Nulla di troppo elaborato, l’obiettivo è semplicemente quello di dare risalto al lavoro altrui, sempre nel tentativo di arginare in qualche misura la volatilità di Internet.
Questi, in sintesi, sono i motivi per cui il nuovo Terre Illustrate e il metablog sono nati. Di ciò che troverete su questo nuovo sito, invece, non c’è molto da aggiungere a quanto detto all’inizio di questo stesso articolo. L’approccio e la consapevolezza dietro sono sicuramente cambiati, e di molto, ma il nuovo Terre Illustrate rimarrà in piena continuità con il vecchio. Gli argomenti principali saranno sempre il fumetto e l’animazione, con un focus speciale sulle opere giapponesi, ma non sono assolutamente da escludere possibili incursioni in alcuni campi affini come il cinema dal vivo, la letteratura o, perché no?, i videogiochi. Così come non è da escludersi la pubblicazione di articoli scritti da autori ospiti, in piena continuità con l’intenzione di dare maggiore spazio ad altre voci, nonostante Terre Illustrate rimanga comunque un mio progetto personale.
Buona lettura.
Un ringraziamento di cuore va a Eduard che mi ha aiutato con la realizzazione di questo sito e del metablog occupandosi di praticamente tutti gli aspetti tecnici. Senza il suo contributo, il nuovo Terre Illustrate non esisterebbe.
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Terre Illustrate è il blog di Matteo Caronna dedicato al fumetto, all’animazione e affini. Si estende anche su Youtube (qui e qui), su Twitch (qui) e sul metablog (qui).
Manifesto di Terre Illustrate: https://terreillustrate.it/posts/00-introduzione-al-nuovo-terre-illustrate/
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Taking up the Invitation from a Crab – Appunti di Viaggio
Nota: Trattandosi di un articolo composto da “appunti di viaggio”, la pubblicazione completa del testo procederà in maniera progressiva, componendosi nel tempo con nuove parti più avanti, seguendo i ritmi del “viaggio” di chi scrive.
Primo appuntamento: 07/10/2025
Obiettivi dell’articolo, più qualche nota sul metodo
In questo articolo commenterò An Invitation from a Crab, raccolta di storie realizzata da panpanya e pubblicata in Italia da Star Comics a fine 2020. La raccolta è stata la prima uscita della testata panpanya Works. Nonostante la collana sia ormai arrivata alla settima pubblicazione,1 però, è facile notare come le opere di panpanya non sembrino aver riscosso un grande successo tra il pubblico italiano. Se prendiamo come indicatore di popolarità la pubblicazione di articoli su siti di settore, video approfondimenti o post social, per esempio, si nota come le pubblicazioni italiane di panpanya siano raramente affrontate, anche solo per fare rapide recensioni o commenti. Da un certo punto di vista, posso capire come la produzione di panpanya possa apparire eccentrica, avvicinandosi poco a diverse fette di pubblico; da tutt’altra prospettiva, però, trovo assai strano che queste opere non abbiano ricevuto un’attenzione maggiore all’interno di ambiti più “professionali”.
Negli anni, infatti, ho avuto tantissime occasioni di parlare in modo entusiastico di panpanya con Matteo e con Lorenzo Di Giuseppe; ciò che ha sempre sorpreso tutti e tre è come nelle storie di panpanya, dietro un’apparente leggerezza stilistica e narrativa, si nascondesse una grande solidità tematica e artistica. Quelle che, a un primo sguardo, sembravano solo delle storielle bizzarre, in realtà nascondevano riflessioni profonde – seppur concretissime – sulle abitudini, sulle nostre percezioni, sul legame che abbiamo con la quotidianità e con la memoria. Si noti che questi stessi temi, seppur affrontati in modo diverso, hanno suscitato un certo interesse “critico” negli anni, in relazione ad autori orientali molto apprezzati come Taniguchi Jirō, Matsumoto Taiyō, Adachi Mitsuru e – in una qualche misura – anche in mangaka molto popolari come Urasawa Naoki.
Come è, allora, che questi stessi temi non sono stati ritrovati anche nella produzione di panpanya?
Dal momento che in questi anni ho apprezzato così tanto le raccolte di panpanya, mi sembrava ingiusto non tentare – quantomeno – a legittimarle, provando a far emergere questioni e tematiche sotterranee che possono interessare a potenziali lettori. In generale, quando si apprezzano delle opere, si dovrebbe provare a far notare quanto possano essere interessanti. Ecco, quindi, il motivo principale dietro questo scritto.
Al contrario di altri articoli, però, ho optato per un approccio diverso. Le opere di panpanya sono raccolte di storie di lunghezza medio-breve nelle quali – nonostante esista uno sfondo stilistico ed espressivo comune – troviamo notevoli variazioni sui temi e sulle situazioni rappresentate. Oltre a questo, avevo il timore che un’analisi eccessivamente astratta allontanasse troppo chi legge dalle singole storie. Provare a fornire un’analisi complessiva della raccolta, quindi, mi sembrava abbastanza inadeguato. Ho preferito, piuttosto, fare un commento delle singole storie, anche qua adottando un metodo un po’ diverso da quello che possiamo trovare in altri articoli di Terre Illustrate o di Keiko – Rivista. Nel titolo parlo, infatti, del commento come una serie di appunti di viaggio, termine decisamente strano per parlare di un’analisi artistica.
Mi permetto di prendermi un po’ di spazio per spiegare cosa ho in mente. Se non avete, però, interesse verso questioni più astratte legate allo stile e ai modi di fare critica artistica, potete tranquillamente passare alla sezione Panoramica Generale.
Sullo stile dell’articolo. Gli appunti di viaggio sono un prodotto scritto che compiliamo durante un percorso. Cosa scriviamo in questi appunti? Le cose più disparate. Magari, camminando per una città, l’atmosfera di una strada ci colpisce particolarmente e vogliamo provare a catturarla a parole. Magari vogliamo ricordarci di un evento bizzarro che avviene proprio davanti ai nostri occhi, violando ogni nostra aspettativa. O, ancora, magari stiamo cercando un ristorante a cui siamo interessanti e abbiamo bisogno di appuntarci le indicazioni per raggiungerlo. Anche da questi brevi esempi, emergono due aspetti fondamentali che caratterizzano gli appunti di viaggio.
Il primo è la loro frammentarietà: quando scriviamo degli appunti di viaggio, non è richiesto alcun tipo di sistematicità o di unità strutturale. Seppur sia vero che una volta tornati a casa possiamo voler ordinare i nostri appunti, rendendoli più uniformi e integrandoli con ricordi e conoscenze a posteriori, inizialmente non esiste una vera e propria progettazione dietro la loro scrittura. Se sapessimo già cosa scrivere ancor prima di partire, forse non avrebbe troppo senso tenere degli appunti di viaggio.2
Il secondo aspetto che emerge è il legame tra gli appunti di viaggio e la soggettività di chi li compila. Come dicevo, realizzare degli appunti di viaggio può avere una funzione mnemonica (ricordarsi cosa succede), espressiva (descrivere le sensazioni che proviamo) o anche orientativa. Tutte funzioni che sono realizzate in relazione a chi compila gli appunti. La stessa strada che può essere pregna di senso – e meritevole di essere riportata su carta – per qualcuno, può essere arida e poco interessante per altri. Oppure, perché dovrei appuntarmi il percorso per raggiungere quel ristorante a cui sono interessato, se so già come arrivarci o preferisco usare il GPS dello smartphone? Gli appunti di viaggio sono, in qualche misura, molto simili a dei diari e per questo andrebbero letti come appunti di qualcuno.
Questo commento a panpanya può essere inteso come degli “appunti di viaggio” proprio perché nasce dalla parziale sistematizzazione di un insieme di note, osservazioni e commenti che ho fatto durante la lettura delle storie che compongono An Invitation from a Crab. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, se durante la lettura lo stile cambiasse di netto da una storia all’altra, diventando più impressionistico e meno argomentativo. Inoltre, è possibile che alcune emozioni e risonanze di cui andrò a parlare potrebbero non apparire immediate o particolarmente salienti per chi legge. Da un certo punto di vista, non nego che questo sia una sorta di vezzo meta-letterario. Come sarà evidente a chi ha già letto alcune delle opere di panpanya, le varie raccolte si pongono sempre come una sorta di diario personale in cui le esperienze quotidiane, le abitudini, i ricordi, i sogni e le fantasie di chi disegna vanno a convergere. Ho ritenuto quindi divertente privilegiare un approccio alla scrittura che si ponesse in continuità stilistica con la raccolta, in modo da legare opera e commento in un unico insieme.
Ma questo è davvero fare critica d’arte?
Un’obiezione che qualcuno potrebbe fare all’intero articolo è che essere frammentari e aggiungere elementi soggettivi all’interno della propria analisi sia un pessimo modo di fare critica. Effettivamente, un’idea molto diffusa è che soggettività e critica siano due aspetti che non dovrebbero entrare in contatto. Al contrario, il lavoro di un buon critico passa anche dal saper “purificare” il più possibile le sue analisi da aspetti soggettivi; questa idea è generalmente legata al fatto che emozioni, pregiudizi e aspettative personali siano fattori eccessivamente variabili per essere considerati una base solida per fare critica d’arte. Analogamente al caso della strada descritto poco fa, una stessa opera può provocarmi emozioni fortissime almeno quanto può lasciare indifferente la persona al mio fianco. Ciò su cui, però, non possiamo discordare, sono i suoi aspetti strutturali, il suo valore storico o la raffinatezza tecnica con cui è realizzata; per questo dovremmo richiamare questi fattori “inopinabili” quando facciamo critica, così come dovremmo delegittimare l’appello a fattori soggettivi al suo interno. Dopotutto una cosa “può non piacermi” seppur “io riconosca il suo valore”.
Sinceramente, non solo credo che questa opinione sia sbagliata, ma credo che nasca da un modo di concepire la nostra soggettività che è eccessivamente ingenuo. Le emozioni e le aspettative, infatti, non sono cose che esistono “sottovuoto”, lontane dal mondo: come la psicologia ci insegna da decenni, queste dipendono sia da aspetti ambientali che da fattori squisitamente corporei. Il fatto che certe condizioni ambientali interagiscano con noi, provocandoci certe emozioni invece che altre, è qualcosa che è tanto oggettivo quanto la lista dei materiali usati per comporre una statua. Da questo punto di vista, quando un’opera ci lascia indifferenti e vediamo, invece, che provoca forti emozioni nella persona accanto a noi, ciò che dovremmo fare non è tanto ignorare gli aspetti emotivi poiché “eccessivamente variabili”. Casomai, dovremmo chiederci perché c’è questa differenza di reazione tra me e lui. Da quali aspetti personali dipenda e – nel caso fosse un’operazione sensata – se sia possibile metterci nella stessa condizione psicologica, in modo da provare sensazioni analoghe. Da questa prospettiva, fare critica non vuol dire solo avere una conoscenza approfondita su un’opera, ma anche essere capace di descrivere efficacemente il tipo di effetto che ci fa l’interazione con questa, sapendo districarne le ragioni sottostante. Anche tra i critici d’arte esiste una profonda disomogeneità, legata ai loro studi, alla loro vita emotiva e alla loro storia personale; considerare questa disomogeneità come un difetto e non come un punto di forza mi sembra decisamente poco fruttuoso. Ciò che farò nell’articolo sarà, appunto, provare a capire perché la raccolta di panpanya abbia un certo effetto psicologico su di me. Ciò che spero non è tanto di “far vedere” a chi legge le cose dal mio punto di vista, ma portarlo a riflettere su un preciso metodo di fare analisi.
A mio avviso, se c’è un ruolo sociale rilevante che i critici possono avere rispetto a chi decide di ascoltarli, questo non riguarda l’educazione al “buon gusto”, come credono in molti. Chi fa critica, casomai, dovrebbe occuparsi di costruire nuove forme di apprezzamento, che mostrino modi inediti di usare quegli “strani strumenti” che sono le opere d’arte, portando il pubblico a riflettere in modo più adeguato e profondo sulle loro abitudini e sulla loro vita interiore.
Panoramica Generale.3 An invitation from a crab è una raccolta composta da 18 storie brevi di lunghezza variabile e da 7 pagine di testo scritto chiamate “note”. Questa strana bipartizione rispecchia un approccio alla costruzione abbastanza profondo, che spero di far emergere bene nel commento. Anche rimamendo in un contesto letterario, una storia può essere realizzata avendo in mente tante funzioni differenti. Un autore può realizzare una storia a scopo formativo, come forma di svago, come espressione personale et cetera. Nel caso di panpanya, i libri della sua produzione hanno la stessa ergonomia di un coltellino svizzero, dal momento che le sue storie possono avere contemporaneamente intenti giocosi, stranianti, umoristici, malinconici o immaginifici. Questa varietà di funzioni non dovrebbe in realtà stupire in una raccolta di storie brevi, anzi, è qualcosa di molto comune. Tutte queste funzioni sembrano però il prodotto in un intento che muove l’intera produzione di panpanya, ovvero l’uso del libro come un oggetto a metà tra il diario e il taccuino di ricerca. L’impressione che provo leggendo i racconti di panpanya è infatti quella che potrei provare leggendo un ispirato scienziato che prova a descrivere i fenomeni naturali che gli si dispiegano di fronte durante la ricerca. Mentre però un naturalista può essere affascinato da certe reazioni chimiche o dal bizzarro comportamento dei bradipi, ciò che panpanya prova a descrivere sono i fenomeni della propria interiorità: credenze, sentimenti, abitudini, fantasticherie, ricordi.
L’autrice descrive minuziosamente l’effetto che fanno questi fenomeni interiori usando proprio il fumetto, come uno scienziato che prima cerca di descrivere quei fenomeni che tanto gli interessano e poi prova a costruire ipotesi esplicative, esperimenti concreti o situazioni mentali in cui testare delle leggi nascoste che intuisce di aver afferrato. In questo senso An invitation from a crab è un taccuino, almeno quanto è un diario, proprio perché i fenomeni che panpanya vuole descrivere sono quelli che possono essere catturati solo da una cronaca vissuta in prima persona. In questo senso, l’interiorità per panpanya non è un mondo completamente privato, esplorabile solo chiudendosi ermeticamente nell’indagine dei propri pensieri. Al contrario, panpanya sembra rigettare una simile visione romantica, concentrandosi sul fatto che le emozioni, i sentimenti e le fantasie dipendono in modo preponderante da ciò che succede fuori di noi, in una visione della psicologia che potremmo quasi definire ecologica. Per questo motivo panpanya non si appella troppo a metafore o allegorie che rappresentino ciò che succede dentro di lei ma, invece, usa lo strumento fumettistico come una sorta di banco di prova per costruire situazioni assurde in cui innescare quei meccanismi psicologici che lei stessa ha notato nel suo quotidiano. Si noti, infine, che l’approccio esplorativo dell’autrice non implica un distacco arido e freddo dalla propria interiorità. Bensì è un rapporto giocoso, di esperimento e sorpresa, quel tipo di rapporto splendido che non solo troviamo in altri grandi autori, ma che ci può permettere di vedere il quotidiano e noi stessi come qualcosa di unico, da cui trarre ispirazione. Tra le variegate realtà teoriche che emergeranno nel commento, questa mi sembra essere la più importante, l’approccio che è necessario cogliere per entrare nel mondo di panpanya.
Commento ad An Invitation from a Crab
Il volume/ Da fuori
Se lo consideriamo come prodotto cartotecnico, alcune parti di un volume a fumetti – come la copertina, la sovraccoperta, l’indice, il riassunto o il colophon– vengono il più delle volte considerati come elementi “esterni” al mondo descritto all’interno della storia. Chiaramente ci sono dei casi in cui questo non avviene: si pensi ai bellissimi schemi illustrativi nei volumi di Nausicaa della valle del vento di Miyazaki Hayao, che descrivono approfonditamente gli strumenti usati dai vari personaggi, oppure alle lunghe pagine riassuntive presenti in ogni volume di The Five Star Stories, necessarie per entrare all’interno dei mondi narrativi descritti in ogni singolo volume del capolavoro di Nagano Mamoru. È abbastanza raro, però, che copertine e sovraccoperte svolgano funzioni particolarmente complesse rispetto al contenuto di un’opera.4 Solitamente, le parti “più esterne” di un libro a fumetti hanno la funzione di attirare il lettore e dare un’idea del mood generale dell’opera o degli elementi che troveremo al suo interno, dal momento che il volume dovrà essere venduto in un contesto in cui non è possibile – idealmente – leggerlo integralmente prima dell’acquisto. Se valutiamo una copertina da questa prospettiva commerciale, questa non solo dovrà esprimere i fattori a cui accennavo prima, ma dovrà farlo nel modo più immediato possibile, in modo da catturare subito l’occhio del potenziale lettore. Da questo punto di vista, il guscio esterno di An Invitation from a Crab è, quantomeno, un caso peculiare.
Ricordo vividamente le sensazioni che ho avuto le prime volte che mi capitò di vedere – in negozio o nelle pagine online di Star Comics – la raccolta di panpanya e, proprio per i motivi detti sopra, la mia valutazione non fu delle migliori. A primo impatto, trovavo infatti sgraziata e dissonante la scelta grafica fatta per il fronte della sovraccoperta, in cui troviamo diversi tipi di formati rappresentativi. Nello spazio – abbastanza stretto in realtà – del fronte abbiamo stipati uno stemma, un’immagine evanescente in cui si nota un contrasto tra uno sfondo cittadino – disegnato e acquerellato su base fotografica – e un volto disegnato in uno stile molto stilizzato, definito da linee essenziali che occupano uno spazio bianco, in netto contrasto con la complessità dello sfondo. Sotto l’immagine, una colonna di testo scritto e, a fianco, una mappa di una zona del Giappone che non sono mai riuscito a identificare. Parliamo quindi di quattro elementi grafici differenti, tutti ammassati in uno spazio che dovrebbe avere la funzione di catturare al volo l’attenzione del lettore.
In più, mentre è facile cogliere – almeno superficialmente – il contenuto di un’immagine, la questione è molto più complessa per quanto riguarda una mappa o un testo scritto. Un’immagine può colpirti in pochi attimi anche vagando distrattamente per un negozio; un testo scritto, invece, può richiedere qualche minuto, portando a soffermarsi sul libro, per analizzarlo nel dettaglio. Azione che, spesso, un potenziale acquirente potrebbe non essere disposto a fare.5 Oltre a questa scelta comunicativa – che al tempo mi sembrava abbastanza inelegante e confusionaria – trovavo anche una dissonanza più superficiale proprio nella piccola immagine frontale, nel contrasto tra il realismo dello sfondo e l’eccessiva semplificazione del volto della protagonista. In realtà la cosa non avrebbe dovuto impressionarmi particolarmente, dal momento che molti autori che apprezzo – come Mizuki Shigeru e, in certe fasi, Tezuka Osamu – tendono a contrapporre ambienti realistici a figure umane disegnate in modo deformed; in questi autori, però, spesso questo contrasto tra elementi è mediato da una qualche uniformità stilistica – magari nello spessore del tratto o nella gestione dello spazio – cosa che non riuscivo a trovare nell’alternanza tra il volto di panpanya e il paesaggio cittadino.
A posteriori, è chiaro che questo senso di dissonanza che provavo tradiva un approccio erroneo alla struttura comunicativa del libro. In quelle occasioni avevo creduto erroneamente che l’oggetto dovesse essere valutato a partire da una serie di valori puramente legati alla piacevolezza visiva come, per esempio, il fatto che il disegno in copertina fosse memorabile o che, con un solo colpo d’occhio, questa esibisse delle peculiarità grafiche che potevano catturarmi e farmi interessare alla lettura. In qualche modo il mio approccio era legato a una disposizione psicologica che potrei definire come contemplativa:6 le cose si guardano e si apprezzano osservandole, in uno stato di attesa, sperando che la loro osservazione ci colpisca in qualche modo. Il guscio di An Invitation from a Crab, però, diventa più facilmente apprezzabile nel momento in cui il volume inizia a essere effettivamente usato come strumento. Con questo non mi riferisco solo al fatto che la copertina richieda un approccio “più complesso” dal momento che richiede anche di leggere una parte testuale, ma intendo dire che le parti esterne della raccolta iniziano a mostrare fattori di interessi nel momento in cui le usiamo come “basi” per un lavoro immaginativo – proprio come potrebbe succedere usando una mappa o un opuscolo di viaggio. Provo a spiegare meglio quello che intendo.
Iniziando a leggere la colonna di testo, ci troviamo di fronte a un racconto realistico in cui la narratrice riporta, con dovizia di particolari, un episodio bizzarro che la vede come protagonista. Passeggiando per la città, panpanya racconta di essersi imbattuta in un granchio che scorrazzava per strada; da lì inizia un inseguimento che termina di fronte a una pescheria. Ci sono due punti che secondo me andrebbero approfonditi, in relazione a questa storia.
Come dicevo, i fattori di apprezzamento di questa sovraccoperta non sono strettamente visivi quanto cognitivi; detto altrimenti, se prendiamo il racconto della caccia al granchio come elemento principale della sovraccoperta e lo mettiamo in relazione con gli altri (la mappa laterale e l’immagine sovrastante), notiamo come questi elementi possano servire a rendere più vivida l’immaginazione del lettore durante la lettura del testo. Uno può infatti usare l’immagine per visualizzare meglio la scena, così come può giocare con la mappa, rintracciando il percorso fatto dalla narratrice nel suo inseguimento. Non solo: se guardiamo l’aletta laterale oppure osserviamo la copertina del volume, tolta la sovraccoperta, troviamo altri elementi che ci possono aiutare a giocare ancora di più con il racconto. Nell’aletta della sovraccoperta, infatti, troviamo la foto di un granchio – con tanto di descrizione naturalistica sottostante – mentre la copertina rappresenta le basole di un percorso pedonale, che potremmo vedere come quello percorso dalla protagonista. Vediamo quindi come, in realtà, i vari elementi grafici “di superficie” del volume possano avere una funzione che non è direttamente grafica, ma servano a costruire un ambiente immaginativo per entrare nell’atmosfera generale della raccolta. Come dicevo, questo approccio non va a favorire tanto il lato percettivo “diretto” quanto quello che potremmo definire cognitivo (qui inteso come “non strettamente legato all’esperienza percettiva”). Poco prima ho parlato di “mappe” proprio perché la sensazione che a me sembra di provare, in questi casi, è simile a quella che provo quando devo organizzare un viaggio o un percorso di trekking e mi ritrovo a leggere, in anticipo, delle guide per comprendere i luoghi da visitare e i percorsi da prendere senza rischiare di perdermi. Anche in quei casi c’è una componente cognitiva alla base di questi oggetti rappresentazionali, che passa dalla combinazione di testo scritto, cartine, immagini e altri elementi che possono permettermi di orientarmi in modo efficace. Passando alla seconda osservazione, è molto interessante notare come, già in questa breve storia iniziale, sia possibile trovare una serie di elementi tematici che saranno presenti in tutta la raccolta. Troviamo infatti:
Struttura “a diario”: le storie vengono quasi sempre innescate a partire da eventi bizzarri o fatti peculiari che irrompono nel quotidiano della protagonista. Questo rapporto tra quotidiano e non-quotidiano e la sovrapposizione fittizia tra l’autrice e la protagonista dei racconti permettono di concepire le storie come parti di una sorta di diario o di un taccuino. Questa impressione è anche rafforzata dalle riflessioni presenti nelle note, che sono spesso datate e servono a intervallare le varie storie.
Cura nelle descrizioni di artefatti, fenomeni naturali e pratiche sociali: qui ci stiamo riferendo sia a oggetti e fenomeni reali – che possono ritrovarsi anche nel nostro mondo – che finzionali, inventati di sana pianta da panpanya. In entrambi i casi, la visione di panpanya su simili questioni è quella di una naturalista che studia i fenomeni che si trova di fronte, provando a ricavarne conoscenze e leggi generali.
Interesse per il contesto urbano: panpanya predilige i contesti urbani per ambientare le sue storie. In ogni caso, anche nei casi in cui la narrazione avvenga fuori dalla città, la presenza di elementi antropici è costantemente presente. Detto questo, è comunque bizzarro notare come, nonostante le produzioni umane siano praticamente onnipresenti nelle storie di panpanya, l’autrice tenda a rappresentare spesso oggetti che non svolgono più la loro funzione primaria oppure il cui uso è praticamente incomprensibile. Si passa infatti da quartieri disabitati e oggetti inutilizzati fino ad architetture e prodotti artefattuali talmente bizzarri7 che – come succede spesso nella produzione di Sakabashira Imiri – è quasi possibile percepire questi stessi elementi come naturali, generati spontaneamente.
Umorismo basato sul paradosso: nel racconto che è presente in sovraccoperta, per esempio, l’humour deriva da una serie di fattori quali l’idea che un granchio sia un’animale che fa parte della fauna cittadina e il contrasto tra la minuziosa attenzione naturalistica di panpanya (tale da segnarsi anche il percorso fatto inseguendo il granchio) e l’ingenuità manifestata dal non aver notato il cartellino del prezzo attaccato al granchietto.
Riflettendoci, la copertina del volume è effettivamente un’ottima presentazione del volume, dal momento che al suo interno sono presenti una serie di elementi che un lettore può aspettarsi e ritrovare nella raccolta. La cosa interessante è che, in questo caso, questi aspetti non sono tanto veicolati dagli aspetti visivi del volume, ma richiedono un uso multifattoriale degli elementi che compongono la parte esterna dell’opera. Se qualcuno si fosse chiesto perché fosse così importante dedicare tutto questo spazio a un elemento “esterno” all’opera, ecco qua la spiegazione.
An Invitation from a Crab richiede al lettore, sin dall’inizio, un forte lavoro immaginativo, in modo da sintonizzarsi con i temi e con l’approccio psicologico che l’autrice avrà all’interno del volume. Da questa prospettiva, potremmo anche dare una lettura divertente al titolo stesso della raccolta, ripreso dalla storia che apre il volume. Quella che è descritta nella sovraccoperta e nella prima storia non è una “invitation” quanto una vera e propria caccia alla preda: la protagonista insegue il povero granchio perché vuole cucinarlo! Potremmo però intendere from a crab in senso metonimico: incontrare un granchio in una città è una cosa alquanto strana, sicuramente un evento inaspettato; potremmo quindi intendere invitation from a crab come un “invito” che ci viene fatto quando ci troviamo di fronte a eventi unici o bizzarri e abbiamo la sensazione che questi vogliano chiamarci a giocare con loro. La scelta di partecipare attivamente spetta poi a noi.
An invitation from a crab di panpanya
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Prima storia: Un invito da un granchio.
L’atmosfera immaginativa che possiamo creare esplorando l’esterno del volume trova uno sfogo più concreto con la prima storia della raccolta. Un invito da un granchio, infatti, altro non è se non la versione a fumetti del racconto sulla caccia al granchio che leggiamo sulla sovraccoperta. Stessa storia, due media differenti; questo mi porta immediatamente a fare una riflessione su una differenza espressiva fondamentale tra le due versioni. Nella versione presente sulla sovraccoperta il testo scritto è supportato da una mappa che ci permette di immaginarci in modo più nitido l’inseguimento, spingendoci a fantasticare sul tipo di traiettoria fatto dalla protagonista. In qualche modo la possibilità di mappare il percorso fatto dalla protagonista è parte del gioco che possiamo costruire con gli ingredienti che ci vengono forniti nella parte esterna del volume. Notiamo invece come questo aspetto legato all’orientamento e alla mappabilità dell’ambiente cada facilmente in secondo piano all’interno della controparte fumettistica: le scalinate e le strade percorse da panpanya sono infatti decisamente generiche e difficilmente potrebbero essere usate per immaginare un percorso uniforme. In questo non aiuta nemmeno la natura frammentaria delle sequenze e del disegno che rendono difficile fare una ricostruzione spaziale accurata dell’inseguimento. Ciò che a me pare enfatizzato, casomai, è la verticalità delle architetture e dello sviluppo urbano, oppure il senso di frenesia che l’autrice esprime con continui cambi di tratto durante l’inseguimento. In questo senso, credo che il fumetto esprima molto bene un senso di dispersione all’interno degli ambienti cittadini che è praticamente assente nella prima versione della storia. Continuando a parlare della versione a fumetto della storia, comunque, una cosa che mi colpisce particolarmente del disegno di panpanya8 è il contrasto tra due diverse modalità di disegno, legate a ciò che l’autrice vuole rappresentare. La prima di queste modalità può essere ritrovata in una rappresentazione molto dettagliata degli ambienti, dei palazzi e degli oggetti; questa scelta dà spazio a viste suggestive ed esprime un solido senso di concretezza nella rappresentazione degli ambienti.9 Questa concretezza, però, sembra venir meno nel caso in cui a essere rappresentati siano la protagonista o gli altri comprimari. In tutti questi casi, la mia impressione è che la loro rappresentazione sia più evanescente, in un modo quasi contraddittorio. La materialità del corpo vivente della protagonista e degli altri è, infatti, spesso definito da un bianco intenso che viene delimitato da pochi tratti, molto sintetici ed espressivi. Sono proprio queste poche linee a dare volume ai personaggi dandogli un minimo di materialità, in modo da non farci percepire i loro corpi come quelli di fantasmi che fluttuano tra gli ambienti cittadini. Cosa questo contrasto tra la materialità degli ambienti e l’immaterialità dei personaggi voglia esprimere è qualcosa su cui riflettere in seguito.10
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Sono nei pressi di casa mia, eppure mi sembra di vedere tutto con occhi nuovi, forse perché sto inseguendo un granchio.
Affermazione bizzarra. Qui panpanya sta riflettendo sul fatto che, in qualche modo, ci sia un legame causale tra le sue capacità percettive e il fatto di star inseguendo un granchio, come se l’azione che sta compiendo cambiasse il modo in cui vede le cose intorno a sé. L’autrice sta, quindi, facendo una precisa affermazione sulla natura della sua esperienza personale: il modo in cui lei può vedere12 una stessa cosa può variare sensibilmente a seconda di cosa sta facendo. Ciò che si sta affermando, quindi è che vi sia un legame tra cosa cerchiamo dall’ambiente intorno a noi e il modo in cui noi lo esperiamo. Le stesse strade che la protagonista percorre ogni giorno per andare a scuola sembrano diverse nel momento in cui i suoi obiettivi concreti sono differenti dal solito. Normalmente lei percorre la strada con l’obiettivo di andare a scuola, qua però quegli stessi spazi devono essere percorsi per inseguire un granchio! L’idea che i nostri obiettivi pratici abbiano un qualche effetto sul modo in cui percepiamo le cose è un’idea ormai affermata in diversi ambiti di ricerca;13 ciò che è interessante notare, però, è come panpanya ricavi questo tipo di teorie senza richiamare esplicitamente delle teorie scientifiche. La maggior parte delle idee che l’autrice presenta nel corso della raccolta, parlando della natura della sua esperienza personale, sono ricavate infatti da una sottile osservazione dei suoi processi interiori, di ciò che le succede direttamente interagendo con il mondo. Mi permetto di sottolineare questi punti perché, nel corso della raccolta, il rapporto tra esperienza e obiettivi pratici tornerà a più riprese, con diverse variazioni. A volte, per esempio, panpanya potrebbe essere interessata a capire come la nostra percezione cambia in relazione ai ricordi, altre volte alle abitudini, altre ancora alle aspettative e così via.
Un altro tema trasversale che emerge da questo racconto, direttamente legato alla questione della percezione, è quello della quotidianità. Se dovessi fare un’osservazione evocativa, ma un po’ esagerata, direi che l’interesse per il quotidiano è il nucleo essenziale di tutta la produzione di panpanya. Qui con quotidiano non mi riferisco a qualcosa di carattere sociale o lavorativo, ma sto parlando di una sua caratterizzazione puramente psicologica. Tutti noi sviluppiamo delle routine e delle abitudini che rendono, per periodi di tempo più o meno lunghi, più stabili le nostre esperienze. Magari facciamo sempre la stessa strada per andare a lavoro, le nostre giornate si suddividono in attività molto simili tra loro, impostiamo una dieta che richiede una regolarità nei pasti, qualche sera della settimana possiamo dedicarla a uscire o a guardare un film con gli amici, … questi sono solo alcuni esempi di pratiche che vanno a costituire il quotidiano di una persona. Il quotidiano, in altre parole, è quell’insieme di abitudini, aspettative, rituali, sensazioni e comportamenti ripetuti che sono associati allo stile di vita di un individuo. Da questo punto di vista, ognuno di noi ha un quotidiano differente. È anche vero, però, che possono esistere somiglianze tra le quotidianità di individui diversi; spesso queste regolarità sono legate a fattori caratteriali, materiali, culturali. Ciò che sembra interessare a panpanya è proprio questo concetto di quotidianità e il modo in cui l’inaspettato può entrare nelle nostre abitudini; Un invito da un granchio è un racconto esemplificativo, da questo punto di vista. La storia inizia con un evento inatteso, che non fa parte della quotidianità della protagonista. Questo la porta a vivere una breve avventura in cui il percorso che vede ogni giorno acquista un senso differente, totalmente nuovo. L’episodio della caccia al granchio, però, è solo uno dei possibili approcci al tema; in realtà il rapporto tra quotidiano e non-quotidiano ha una struttura molto più variegata e complessa in panpanya.
Prima nota: Atmosfera.
È sufficiente concludere la prima storia per vedere come il tema del quotidiano emerga con un’accezione abbastanza diversa a pagina 9, con la prima nota. Ai miei occhi lo scritto ha il fascino di una riflessione notturna, in cui qualcuno, alla fine di una lunga giornata, inizia a pensare a qualcosa che gli è rimasto particolarmente impresso. Quando riconosciamo un evento come strano o peculiare, può succedere che in qualche modo questo sia già implicitamente “carico di teoria” per noi; magari ci colpisce perché abbiamo qualcosa da dire a riguardo e non viceversa. Dopodiché, in un momento di riposo, abbiamo il tempo e la disposizione d’animo adatta per lasciare che questo “carico teorico” vada a dispiegarsi, mentre ci perdiamo nella riflessione; non è forse nemmeno importante che si arrivi a un vero e proprio risultato concettuale, ma è sufficiente che il pensiero vada a orientarsi secondo ciò che ci ha colpito. In questo caso, ciò che la protagonista coglie è qualcosa che lei chiama atmosfera, che si manifesta notando l’austerità nella voce del presentatore di un vecchio notiziario. A partire da questo anomalo tessuto di sensazioni uditive, in particolare a partire dal modo chiaro e nitido di parlare del presentatore, l’autrice trova una rottura con la propria esperienza quotidiana, con il modo in cui il parlato televisivo fa parte della sua attuale esperienza abitudinaria. Proprio come nella storia precedente, ciò che si nota è qualcosa di anomalo, che non fa parte del modo in cui la nostra esperienza è standardizzata: nel caso della caccia al granchio questo generava esaltazione e frenesia, ad andare incontro a sentieri inesplorati. Qui invece, la novità ha un carattere calmo e riflessivo, innescando una riflessione generale. A partire da questa “anomalia atmosferica”, l’autrice inizia a immaginare le possibili ragioni che portavano i conduttori a preferire un modo così impostato di parlare. Un primo risultato – ammetto, abbastanza inaspettato anche per me a una prima lettura – che l’autrice indivua può essere tranquillamente inscritto nelle linee teoriche tracciate dal Benjamin dell’Opera d’arte sul rapporto tra tecnologia e percezione. Di fatto, l’autrice fornisce un chiarissimo esempio sul modo in cui gli strumenti tecnologici di un certo periodo storico abbiano un effetto forte sul modo in cui la percezione degli individui va a strutturarsi. panpanya ipotizza infatti che la scelta di articolare i discorsi in un modo ‘sì regimentato dipendesse dalle caratteristiche tecniche della strumentazione microfonica del tempo, che aveva bisogno di un certo tipo di stimolazioni acustiche perché funzionasse in modo efficace. A partire da un bisogno legato alla strumentazione tecnologica, certi tipi di strutture percettive si sviluppavano, quindi, e diventavano un elemento comune, parte della quotidianità di chiunque seguisse la televisione al tempo. Con il cambiamento degli strumenti tecnologici, sono anche cambiate le performance vocali richieste ai presentatori e, di conseguenza, anche l’atmosfera sonora associata. Seppur l’ipotesi non venga confermata, la riflessione è sicuramente suggestiva e denota un’attenzione molto profonda sul ruolo che gli strumenti tecnici hanno sulla nostra esperienza. A fianco di questa bella riflessione, però, vedo anche una declinazione del tema del quotidiano che si distacca dal modo in cui questo era stato trattato in Un invito da un granchio. In entrambi i casi troviamo la stessa dinamica, in cui un’anomalia dà vita a qualcos’altro, dicevo già prima. Ciò che però è davvero interessante notare è che, in questo caso, a innescare un senso di dissonanza dal nostro quotidiano è qualcosa che, in tempi più lontani, era stato parte del quotidiano di qualcun altro. Non a caso, panpanya sembra quasi proporre un criterio di classificazione storica delle atmosfere, connesso alle risorse tecnologiche del periodo. Ciò che mi ha colpito, e che meriterebbe un approfondimento, è quindi la sensibilità che panpanya dimostra nel riconoscere una cosa che, per quanto scontata, non riusciamo facilmente a tenere a mente: il fatto che quella che ho chiamato quotidianità abbia una vita vera e propria e che, proseguendo lugubremente con questa metafora biologica, arrivata a un certo punto anche questa muoia. Quando questo succede, ciò che prima ci sembra evidente e ovvio diventa estraneo e meno immediato da comprendere; in qualche modo si distacca dalla nostra vita. In modo speculare a ciò che avviene nel caso della strada per andare a scuola nel racconto precedente, finché qualcosa fa parte della nostra quotidianità, per noi appare come familiare. È solo distanziandosi dal contesto quotidiano in cui viviamo certe cose, però, che notiamo alcune caratteristiche che non avremmo potuto cogliere altrimenti.
Secondo appuntamento: 17/10/2025
Seconda storia: Ricordi incomprensibili.
Un aspetto grafico su cui mi sono concentrato commentando la prima storia (Un invito da un granchio) è la rappresentazione dell’ambiente urbano. Questo aspetto è centrale nella produzione di panpanya, quindi spero non sorprenderà se, nel corso del commento, vi farò spesso richiamo. La descrizione di ambienti antropizzati, però, non è l’unico elemento “materiale” che ricorre in modo continuativo nelle storie dell’autrice. Già in questo secondo racconto, infatti, troviamo un’altra caratteristica centrale nella produzione artistica di panpanya: l’attenzione accurata per gli artefatti.
14 d’ora in avanti userò anche termini come “oggettistica” e simili con questa specifica accezione. Che tipo di artefatti vuole descrivere panpanya, leggendo le sue storie? In realtà, oggetti di tutti i tipi: si passa da oggetti di uso quotidiano a produzioni fantastiche ed esotiche, di difficile comprensibilità. I motivi alla base di questa attenzione possono essere molteplici: in questa storia, per esempio, l’accurata descrizione dell’oggettistica ha sia un valore simbolico – nel momento in cui l’incapacità di decifrare i regali della nonna si lega alla rarefazione del ricordo – che uno umoristico. Ciò che è interessante notare, però, è come panpanya usi “tutti gli aspetti” che compongono gli artefatti che descrive nelle sue storie. Mi spiego meglio. Un artefatto è solitamente composto da un aspetto materiale/strutturale (come è fatto, il materiale di cui è fatto, …) e uno funzionale (per quale scopo è stato costruito, come deve essere usato) che vanno a interagire. Un martello è composto da un manico e da una testa; il primo solitamente fatto con un materiale flessibile e realizzato con una forma che rende facile l’impugnabilità. La seconda, invece deve essere fatta con un materiale resistente, che permetta di battere l’oggetto efficacemente. Impugnabilità e martellabilità sono delle funzioni che sono realizzate dalla “materia” che compone il martello: l’oggetto è fatto per compiere certi compiti e la materia viene manipolata da chi lo progetta per svolgerli al meglio. Ecco, quando dirò che panpanya usa l’oggettistica in modo inusuale potrei riferirmi a entrambi questi aspetti. Ci sono dei casi – come questa storia – in cui l’oggetto che viene inventato dall’autrice è bizzarro sia a livello materiale, sia a livello funzionale; ci sono, però, anche dei casi in cui a livello materiale l’oggetto che panpanya descrive è affine alla nostra quotidianità, ma è il modo in cui è usato a risultare stravagante. Simmetricamente, troveremo anche delle situazioni in cui un oggetto svolge una funzione affine alla nostra esperienza quotidiana, ma a partire da una struttura materiale totalmente inaspettata. In questo senso, possiamo parlare di un vero e proprio realismo artefattuale nella produzione di panpanya, nel senso in cui l’autrice sembra catturare e manipolare al meglio gli aspetti essenziali che caratterizzano la produzione di oggetti.15 Passiamo alla storia. Come dicevo, due aspetti che mi hanno colpito particolarmente di questa seconda storia possono essere compresi solo concentrandosi sugli assurdi giochi che la nonna regala a panpanya, nei suoi ricordi. Da una parte c’è sicuramente un aspetto umoristico. A occhio, credo che la presa comica del racconto dipenda principalmente da due aspetti strettamente interconnessi. Il primo riguarda, sicuramente, la stravagante ergonomia degli oggetti che, da semplici giocattoli esotici, iniziano a diventare sempre più incomprensibili, fino a sembrare artefatti provenienti da una storia di fantascienza. Questo senso di paradossalità comica è accentuata anche dall’uso della ripetizione a pagina 12, in cui i regali aumentano gradualmente di complessità.
Inoltre, questi strani oggetti vengono anche presentati come regali. Se fatto come gesto di affetto, un regalo è un’azione in cui porgiamo a una persona qualcosa che abbiamo a cuore o che – ipotizziamo – il ricevente possa apprezzare. Passiamo quindi al secondo aspetto comico della vicenda, ovvero l’incomunicabilità – per usare un’espressione un po’ pacchiana e volgarizzata – tra nonna e nipote.
mood del racconto non intende mai essere né paranoico né dissacrante. Al contrario, l’atmosfera che si respira nel racconto è leggera e giocosa, seppur con una nota malinconica. Di fronte agli assurdi regali della nonna, panpanya reagisce con il leggero imbarazzo che hanno i bambini quando non capiscono “il mondo degli adulti” e, anche nel finale, il ricordo della nonna viene trattato in modo ironico e vagamente dolce. Oltre alla funzione umoristica, come accennavo già prima, uno potrebbe anche analizzare l’uso dei regali del racconto per trovare anche un aspetto simbolico. In qualche modo regalare è un atto comunicativo, dal momento in cui pensiamo che la funzione che un oggetto svolge possa dire qualcosa della relazione che abbiamo col ricevente; comprendere perché ci viene regalato un artefatto, quindi, vuol dire anche comprendere le intenzioni del regalo. Il punto, però, è che spesso non comprendiamo molte cose dei comportamenti altrui, specialmente nel rapporto che abbiamo con persone che abbiamo vicine. Il comportamento, anche benevolo, di certe persone può sembrarci totalmente impenetrabile certe volte e potremmo rimpiangere di non aver compreso qualcuno. Nel caso di panpanya, l’incapacità di comprendere i regali si lega all’incapacità di comprendere le intenzioni della nonna – il suo mondo privato potremmo dire. Questo aspetto, è ripreso proprio nel finale, che racchiude un po’ tutti gli elementi che ho discusso finora. La lettera della nonna – uno degli oggetti comunicativi per eccellenza – si pone proprio in continuità con gli altri regali: un artefatto che non permette di comprendere le intenzioni di chi lo produce e che, a prima vista, non sembra avere una chiave d’uso come tanti altri giocattoli. Seppur la cosa venga trattata con leggerezza dall’autrice, è comunque innegabile, però, che vi sia un elemento malinconico nel fatto che questa impossibilità di comprendere un’altra persona venga poi assimilata nei nostri ricordi, lontano dalla nostra vita attuale.
Seconda nota: Distacco.
Aspetti rarefatti e, a tratti, malinconici possono essere ritrovati anche in questa seconda nota che presenta una struttura generale molto simile alla prima. Anche in questo caso, infatti, l’autrice apre il suo appunto parlando di un’esperienza quotidiana (buttare la spazzatura la sera) durante la quale nota un aspetto bizzarro; questo aprirà a riflessioni e ipotesi legate alla sua interiorità.
L’analogia tra le due note, in realtà, si presenta solo a un livello molto generale, dal momento che questa parte scritta – apparentemente semplice, ma dotata di una notevole densità riflessiva – presenta degli obiettivi speculativi diversi. In Atmosfera, l’autrice individua un particolare elemento psicologico – quella “atmosfera” che dà il nome alla nota, appunto – dandone una descrizione introspettiva. Dopodiché panpanya inizia a fare delle ipotesi per provare a capire quali siano le radici di questo fenomeno, correlate a fenomeni esterni. La nota, quindi, si presenta esclusivamente come avente una struttura esplicativa: l’autrice ha un fenomeno di fronte e prova a capirne le cause formulando ipotesi astratte. Anche nel caso di Distacco esiste effettivamente un elemento descrittivo, in cui l’autrice individua un particolare effetto psicologico e prova a razionalizzarlo; ciò che differenzia questa nota dalla precedente, però, è la presenta di un elemento sperimentale al suo interno. In questo commento la produzione di panpanya verrà spesso considerata come un ibrido tra un taccuino per le osservazioni scientifiche e un diario. Un diario può essere usato per compiere tante azioni diverse, ma lo stesso può valere per un taccuino osservativo. Uno scienziato può infatti usare un taccuino come un supporto cognitivo per aiutarsi nei calcoli, ma può anche usarlo per appuntarsi dei risultati, progettare esperimenti o abbozzare modelli grafici. Rimanendo all’interno della metafora di An Invitation from a Crab come taccuino, la prima nota può essere considerata come il prodotto di una ricercatrice che prova a comprendere i motivi dietro a un fenomeno. Una chimica si trova di fronte a un’inattesa reazione polimerica e prova a ipotizzarne le cause, segnandole su dei fogli. In questa seconda nota, però, panpanya non è solo intenzionata a descrivere un fenomeno, ma a comprenderlo per costruzione; in qualche modo, qua l’autrice è da intendere come una tecnica di laboratorio che vuole capire come manipolare degli elementi per accrescere la sua conoscenza del mondo. A differenza di una studiosa di chimica, però, ciò che panpanya prova a “manipolare” per accrescere le sue conoscenze sono i suoi stessi pensieri, i suoi ricordi e le sue sensazioni, in modo da avere accesso a nuove strutture di senso. Spero che alla fine di questo commento si possa capire meglio ciò che intendo.
Come dicevo, la nota inizia da un contesto quotidiano, mentre panpanya sta andando a buttare la spazzatura. È sera, la poca luminosità naturale permette di scorgere un aereo che brilla nel cielo.
Fin qua, tutto normale. L’animo di panpanya, però, viene scosso nel momento in cui pensa al fatto che, all’interno dell’aereo, ci siano effettivamente delle persone che, come lei, stanno vivendo la loro vita. Questo pensiero elicita nell’autrice un sentimento di distacco – da qui il nome della nota – che diventa la base per la sua indagine. L’idea è che, sì, panpanya sta provando questo turbante sentimento; cosa potrebbero provare, però, le persone sull’aereo che stanno guardando sotto di loro? Anche loro provano un sentimento analogo? Prima di rispondere alla domanda – in modo molto brillante aggiungerei – l’autrice individua una gradualità di tipi nel sentimento di distacco:
Dato che gli aerei volano in genere a diecimila metri di altezza, in pratica si trattava di un veicolo che si muoveva a una distanza di appena dieci chilometri da terra, eppure il senso di distacco era rafforzato dal fatto che si trovava in cielo.16
Da questo denso passaggio possiamo ricavare che il sentimento di distacco può essere, sì, legato alla distanza spaziale; le distanze, però, non hanno tutte lo stesso valore nel provarci un sentimento di distacco.
Detto altrimenti, pensare a una persona che vive a dieci chilometri di distanza da casa nostra mentre è impegnato negli obblighi casalinghi o lavorativi ci potrebbe provocare un sentimento di distacco diverso rispetto a pensarlo sopra un aereo che vola a dieci chilometri di altezza. Cosa cambia? Rimanendo in linea con l’apparato concettuale dell’autrice, potremmo notare una differenza rilevante nel tipo di ambiente che i due soggetti stanno vivendo. Mentre panpanya pensa alle persone dell’aereo, si ritrova in un contesto cittadino; la notte sta calando, siamo intorno all’ora di cena, accanto a lei – plausibilmente – ci sono altre persone che si riposando o si stanno preparando per affrontare la giornata successiva. I piedi di panpanya sono ben ancorati al suolo e, intorno a lei, ci sono quegli oggetti materiali e direttamente toccabili, afferrabili, che troviamo in un contesto cittadino. Una persona che sta viaggiando in aereo, al contrario, è circondato da un ambiente molto diverso, composto perlopiù da elementi paesaggistici se uno sta vicino a un finestrino. Lo spazio da esplorare è assai più limitato, le cose che potremmo toccare sono molte meno e non è nemmeno chiaro se possiamo dire che chi è su un aereo è “ancorato al suolo”.
Ora, plausibilmente il senso di distacco è proprio legato al fatto che, pensando ai passeggeri, l’autrice si ritrova a immaginarsi un ambiente “materiale” molto distante da quello che sta vivendo in quel momento. Dal momento che, però, la distanza tra i passeggeri dell’aereo e panpanya è la stessa – seppur “invertita” – c’è da chiedersi se anche loro provino un sentimento analogo. È qui che entra in gioco l’aspetto sperimentale della nota, che la differenzia da Atmosfera.
Per comprendere cosa un passeggero di un aereo o un pilota possano provare guardando la città, panpanya decide di usare una via introspettiva: “comprendere un sentimento” qui è inteso come un
processo in cui cerchiamo, con l’immaginazione, di metterci nei panni di un’altra persona. Dal momento che l’immaginazione è anche legata ai nostri sentimenti, se riusciamo efficacemente a immaginarci la situazione in cui sta vivendo una persona, plausibilmente dovremmo provare anche sentimenti analoghi, o no? In realtà non è detto. In primo luogo, non è chiaro se i sentimenti che proviamo quando immaginiamo qualcosa siano gli stessi che abbiamo quando viviamo direttamente quella stessa cosa – non immaginata. In secondo luogo, immaginare è sempre un’azione parziale, in cui “selezioniamo” delle cose da immaginare: rappresentarsi “interamente” una situazione sembra praticamente impossibile e, di conseguenza, può essere molto difficile immaginare le cose giuste per avere le giuste reazioni empatiche. L’immaginazione, però, non è solo un modo per “replicare la realtà col pensiero”, ma può essere usata anche in modi molto più interessanti come in questa nota panpanya stessa rende chiaro. La strategia dell’autrice infatti è quella di usare una forma di immaginazione analogica per provare a comprendere gli stati d’animo dei passeggeri dell’aereo. L’idea è proprio quella di isolare un’esperienza che l’autrice ha già avuto in vita sua e che sia sufficientemente simile a quella che vuole provare a capire e immergerla – per usare termini algebrici – nel nuovo contesto immaginativo. Concretamente, panpanya prende come riferimento un’esperienza che ricorda bene – il sentimento che si prova quando, in autostrada, si vedono delle case lontane – e la usa per immaginarsi cosa potrebbe provare un passeggero dell’aereo.
Mi è riaffiorata alla mente l’esperienza di quando viaggio in autostrada a bordo di una macchina. Il paesaggio che si vede dall’autostrada, che non ha vie laterali, trasmette un senso di distacco peculiare. […] Suppongo che un pilota, vedendo dal suo aereo le luci delle strade del mio quartiere, possa provare una sensazione simile.
In un certo senso, questa sovrapposizione analogica è molto sensata. Proprio come nel caso del viaggio in aereo, anche in autostrada ci troviamo circondati da un ambiente materiale che è composto da pochi elementi toccabili e molti intangibili. L’autrice, inoltre, specifica anche l’assenza delle vie laterali, per aumentare ancora di più l’idea che i luoghi che vediamo dall’auto siano effettivamente inaccessibili. Oltre a questo, anche quando viaggiamo in auto non possiamo dire di essere concretamente “ancorati al suolo”. In generale, è sensato descrivere un viaggio come quello autostradale come manchevole di concretezza e, da questo punto di vista, fioriscono le somiglianze con lo spostamento aereo. Dal momento che c’è una somiglianza sufficiente, quindi, è possibile usare il viaggio autostradale per comprendere quello aereo. L’aspetto pratico e sperimentale della vicenda sta proprio in questo uso costruttivo dell’immaginazione. Il ricordo del sentimento che leghiamo a una vecchia esperienza viene preso e viene “forzato” all’interno di una nuova costruzione mentale, in cui proviamo a capire se sia sensato provare certe sensazioni o se la nostra immaginazione “faccia resistenza”. Non solo, dal momento che l’analogia panpanya / pilota e abitante / guidatore tiene, l’autrice prova a usare l’esperienza che sta provando – quella di distacco, vedendo un aereo lontano – per comprendere quello che, invece, una persona esterna, che vive in prossimità dell’autostrada, prova pensando alle macchine che passano.
Terza storia: La storia dei pesci.
L’invenzione di artefatti stravaganti, in realtà, è solo uno dei modi con cui panpanya sperimenta con gli aspetti psicologici e sociali del quotidiano. Questa e la prossima storia (Innovation), infatti, sono in qualche modo simmetriche. Il contesto in cui entrambe le storie sono ambientate è quello lavorativo: in questa la protagonista lavora da pescivendola, nella prossima come operaia di fabbrica. La simmetria sta nel modo in cui panpanya usa la sua vena immaginativa per modificare le dinamiche che definiscono il lavoro a cui l’autrice è interessata. Ne La storia dei pesci, infatti, l’autrice inserisce un elemento completamente alieno alla nostra quotidianità per indagare come le pratiche lavorative cambierebbero, come i pescivendoli svilupperebbero nuove strategie per trattare questo nuovo elemento inventato dall’autrice. Al contrario, Innovation mostra come possano esistere modi assurdi e imprevedibili alla base della produzione di una risorsa – l’energia elettrica, in questo caso – senza che vi sia niente di esterno. È la pratica stessa a essere descritta come lontana dal nostro mondo, in quel caso.
La storia dei pesci, il racconto mostra come la capacità immaginativa di panpanya non sia solo legata agli artefatti, ma trovi una controparte anche nel mondo organico. Al centro del racconto sono i sugarelli parlanti, specie inventata dall’autrice che ha sviluppato una peculiare strategia evolutiva per sopravvivere alla pesca umana: i sugarelli parlanti sono infatti capaci di imitare la lingua parlata, in modo da impietosire i pescatori e aumentare le loro chances di sopravvivenza.
L’idea stessa di un’imitazione apre il campo a riflessioni variegate sul nostro rapporto con gli animali non-umani: i sugarelli stanno solo imitando o c’è un barlume di consapevolezza dietro i loro atti linguistici? Siamo davvero capaci di distinguere i due casi? La questione getta un aspetto crudele su tutto il racconto che – in ogni caso – va tenuto costantemente di conto, specie se messo in relazione all’universo lavorativo descritto dall’autrice. Come dicevo, un aspetto affascinante della sperimentazione di panpanya è il modo in cui mostra come i sugarelli parlanti abbiano delle conseguenze sulle pratiche ittiche. Detto altrimenti, ciò che possiamo notare con interesse è come l’esistenza dei sugarelli parlanti abbia portato dei pescivendoli a elaborare nuove strategie di lavoro che, in altri casi, non esisterebbero. Uccidere animali vivi per la produzione di cibo è un lavoro ingrato e crudele, che plausibilmente nessuno vorrebbe svolgere. Nel racconto di panpanya, però, questo aspetto viene ancora più accentuato. Mentre panpanya si ritrova nella situazione di dover uccidere un sugarello parlante per la prima volta per preparalo alla vendita, le emozioni che prova sono contrastanti e divisive, tanto che la protagonista non riesce neppure a compiere l’atto.
panpanya, esclamando:
Ah Ah Ah! La prima volta è così per tutti! […]
Non ti era mai capitato di pulire dei pesci parlanti?17
Inoltre, poco dopo:
Un principiante, sentendoli, potrebbe pensare di lasciarli andare. Ma noi siamo dei professionisti!18
Queste affermazioni suggeriscono non solo che un professionista dell’ambito ittico non debba esitare, passando sopra alla crudeltà del gesto, ma osserva che le sensazioni provate da panpanya sono, in qualche modo, una forma di iniziazione, di rito di passaggio che tutti i pescivendoli degni di tale nome devono passare. Questa situazione suggerisce che, nel mondo in cui i sugarelli parlanti esistono, agli sfilettatori di pesce sia richiesto qualcosa di ancora più crudo rispetto a quelli del nostro mondo, dal momento che viene richiesto loro di sopprimere dei potenziali dubbi sulla natura cognitiva dei sugarelli. Questa attenzione per le pratiche specialistiche non riceve, però, un’enfasi esclusivamente psicologica, ma anche concreta. Tra pagina pagina 18 e 19, infatti, ci troviamo di fronte a una dettagliata rappresentazione del metodo di sfilettatura normalmente attuato per i sugarelli parlanti; evento che avviene proprio davanti agli occhi dell’incerta protagonista. Come dicevo, il processo è molto curato e rappresentato con minuzia di particolari, quasi a voler enfatizzare l’intento dimostrativo (e quasi manualistico) dell’operazione.
Un invito da un granchio.
Prendiamo il ritaglio che va da pagina 17 a pagina 18. Mentre è ancora in vita, il sugarello parlante è rappresentato con uno stile di disegno molto simile a quello della protagonista e di altri personaggi presenti nei racconti. Nel momento in cui, però, il povero sugarello inizia a essere sfilettato, il disegno diventa molto dettagliato e materiale, con uno stile analogo a quello usato dalla protagonista per rappresentare oggetti inanimati e ambienti cittadini. Ci sarebbe da riflettere su questa scelta stilistica, proprio perché trova un caso analogo nel racconto che apre la raccolta.
La mia ipotesi è che, in certi casi, panpanya alterni due modalità di rappresentazione per descrivere una stessa cosa a partire da come questa è percepita dalla protagonista. Scartando altre proposte interpretative che ritengo sbagliate e che allungherebbero inutilmente il commento, credo che la lettura più adatta è che questo cambio di stile possa essere presente in due casi: il primo è quando la protagonista-autrice non considera certe cose come oggetti mentre il secondo caso riguarda il fatto che la protagonista sviluppi una carica affettiva o un rapporto peculiare con certe cose. Per spiegare il primo punto possiamo considerare proprio questa storia: nel momento in cui il malcapitato sugarello viene sfilettato, questo cessa, anche agli occhi della protagonista, di essere un organismo vivente che può interagire con lei, ma diventa del cibo, un oggetto di consumo. Allo stesso modo, il granchio di Un invito da un granchio viene rappresentato realisticamente dalla protagonista dal momento che il suo obiettivo è proprio di mangiarselo. Il fatto che lo stile di disegno del granchio cambi, diventando simile a quello di panpanya, nel momento in cui lei lo prende in braccio per trasportarlo potrebbe invece rispecchiare proprio il secondo caso. La protagonista è ancora intenzionata a mangiarsi il povero crostaceo, ma il fatto di averlo preso con sé toccandolo ed entrando in contatto con lui lo rende, in qualche modo “unico”, segnando un qualche tipo di (crudele) avvicinamento affettivo.
Quarta storia: innovation.
Seguendo l’ordine della raccolta, innovation è il primo racconto a superare le poche pagine di estensione, arrivando intorno alla trentina. Una domanda che può sorgere spontanea è se questo cambio di formato abbia una conseguenza non banale19 sulle caratteristiche della narrazione, differenziando la storia dalle precedenti. Il discorso è complesso. Possiamo notare, prima di tutto, che, seppur a fronte di una maggiore quantità di pagine, la struttura più generale delle storie di panpanya resta immutata: c’è un evento bizzarro che avviene / la protagonista nota qualcosa di strano – quasi un mistero da risolvere – e la storia si conclude con la fine dell’investigazione sull’evento, che può avere risoluzione sia positiva che negativa.20 Questa impostazione quasi-investigativa viene mantenuta anche in innovation. Ciò che mi colpisce, però, è come la maggiore estensione della storia abbia una conseguenza su come questa astratta struttura narrativa vada a concretizzarsi. Prendiamo, per esempio, le prime tre storie della raccolta. Le poche pagine di Un invito da un granchio danno una natura più impressionistica al racconto: nelle poche pagine che compongono il racconto la protagonista non può dare spazio a troppi pensieri che – al contrario – si presentano come frettolosi e frammentari. Analogamente, questa frammentarietà può essere ritrovata proprio nella composizione dell’inseguimento, in cui gli ambienti si susseguono in modo disomogeneo. Se penso a ciò che provo mentre devo correre per inseguire qualcosa – che sia un autobus o altro – posso notare che l’ambiente che percepisco intorno a me diventa parziale e meno vivido; sicuramente questa parzialità è legata al fatto che io sia concentrato verso un obiettivo e non abbia tempo e modo di osservare con calma i dintorni. Questo aspetto di incompletezza è, in qualche modo, catturato dalla storia, anche in virtù della sua brevità materiale. Se pensiamo, invece, a Ricordi incomprensibili e al La storia dei pesci, entrambe le storie sono impostate come un investigazione che non trova soluzione. Da una parte le intenzioni della nonna rimangono impenetrabili, dall’altra rimane insoluto se i sugarelli parlanti siano davvero consapevoli di ciò che stanno dicendo. È vero che la struttura generale dei racconti di panpanya è spesso definibile come quasi-investigativa, però vorrei far notare che un’investigazione può avere varie forme. Poniamo di leggerci un bel romanzo giallo in cui però, alla fine di estenuanti investigazioni, il caso si rivela così complesso che l’assassino non viene trovato. Qui la mancata risoluzione del caso può esprimere vari sentimenti: l’incertezza del detective, il senso di difficoltà nel comporre delle prove o il senso di paranoia legato alla paura di accusare un innocente. Plausibilmente un romanzo che vuole esprimere questi stati d’animo sarà favorito nel caso in cui il libro fosse particolarmente lungo. Anche nel secondo e nel terzo racconto di An invitation from a crab ci troviamo di fronte a degli interrogativi irrisolti; la lunghezza di entrambe le storie, però, veicola un altro tipo di sentimenti. Da un certo punto di vista, entrambi i racconti possono essere viste come degli enigmi, degli indovinelli, delle sorte di kōan che servono a chi legge per riflettere su alcune questioni.
Passiamo ora a innovation. La lunghezza di innovation può essere interessante se messa in rapporto a questioni che riguardano il senso di ripetizione lavorativa che possiamo trovare nella storia. Innovation si svolge in due ambienti principali: la scuola in cui panpanya studia e la centrale elettrica in cui svolge un lavoro part-time. Ora, concentrandoci sull’ambiente più importante dei due per la narrazione, la centrale richiama, molto più in generale, alcuni dei grandi temi dell’arte tra ‘800 e ‘900 come quello della vita in fabbrica, della conseguente alienazione dal proprio prodotto da parte degli operai o, ancora, della meccanizzazione del lavoro manuale. Tutti temi complessi e molto raffinati di cui possiamo trovare un’istanza anche all’interno di innovation. Ciò su cui vorrei concentrarmi, però, è il fatto che la lunghezza della storia permetta di costruire, in relazione alla centrale, una sorta di micro-quotidianità tutta interna alla storia. Chiunque abbia fatto un lavoro ripetitivo, che non ha veramente voglia di fare, per mettere da parte qualche soldo avrà provato probabilmente qualcosa di simile: esistono una dimensione e un ritmo che sono esclusivamente interni al lavoro e che, in qualche modo, influenzano anche ciò che dobbiamo fare fuori dal lavoro. Se, per esempio, dobbiamo presentarci abitualmente in un luogo di lavoro a una certa ora, probabilmente svilupperemo dei ritmi e delle abitudini che sono legati all’atto di andare a lavorare. Anche solo l’atto di compiere un percorso per raggiungere il luogo di lavoro, per esempio, potrebbe assumere una dimensione diversa, quasi rituale, che va a “prepararci” per “passare” all’interno di un mondo in cui vigono delle regole differenti. Questo aspetto è catturato molto bene da un parte del racconto compresa da pagina 28 a 30, in cui dei sobborghi malinconici e solitari accompagnano la protagonista nel suo percorso per il lavoro.
panpanya nasce da un interrogativo che riguarda il suo lavoro: in che modo il mio lavoro – quello di rompere ripetutamente delle noci di cocco – dovrebbe essere legato alla produzione di energia elettrica? Tornando ai grandi temi legati al lavoro di fabbrica a cui facevo riferimento prima, la domanda di panpanya può essere vista, sì, come una manifestazione più generale dell’alienazione operaia verso il prodotto finale del loro lavoro, ma anche come un’interrogazione che riflette uno specifico approccio investigativo sul rapporto tra oggetto prodotto e produzione. Ciò che interessa a panpanya qua non è tanto fare un’affermazione politica, quanto di comprendere questo assurdo processo che ha come risultato la produzione di energia elettrica. La ripetizione degli ambienti, concessa dalla maggiore lunghezza, qua ha sia una funzione simbolica che una climatica. Simbolica perché possiamo notare come, con il ripetersi degli ambienti e, parallelamente, con il procedimento dell’investigazione, l’architettura della fabbrica diventi sempre più deforme e opprimente. Il riferimento qua è alle pagine 44 – 46, che sembrano richiamare nel modo organico – quasi metastatico – del loro sviluppo una versione abbozzata delle forme del Blame! Di Nihei Tsutomu. In questo caso il fatto che la fabbrica sia anche per noi un ambiente familiare è importante nel momento in cui la protagonista, decidendo di addentrarsi nei meandri della centrale per scoprire la verità, viola un luogo a cui non avrebbe dovuto accedere. Scoprire il segreto della centrale equivale a valicare degli spazi che non associavamo alle nostre abitudini lavorative. Una volta valicato questo spazio, l’edificio diventa sempre più opprimente, costituendo una vera e propria costruzione simbolica del climax investigativo e comico della vicenda. La risoluzione di questo climax ha come conseguenza un travolgente effetto comico provato dall’assurdità della scena. Capiamo bene, però, come questo non sarebbe stato possibile senza aver descritto la centrale come un luogo – seppur sgradevolmente – familiare.
Quinta storia: Inferno.
Su questa divertente storia ho poco da dire, se non qualche rapida considerazione sul contrasto grafico-narrativo su cui gioca la narrazione. Mentre il titolo e le prime pagine sembrano presagire una situazione tragica e oscura, la risoluzione va a dissipare comicamente queste aspettative nefaste. Questo contrasto è incarnato anche dall’uso del colore: mentre le prime pagine sono dominate dalla presenza di acquerelli scuri che acuiscono l’atmosfera drammatica della scena, nell’ultima tavola i colori si schiariscono d’improvviso. Il bianco diventa infatti predominante e la quantità di testo aumenta nettamente dando l’idea, nel momento in cui si volta la pagina, che la tensione drammatica sia svanita e siamo davanti a una risoluzione inaspettata.
Terza nota: Oscillazione.
Se dovessi isolare il femomeno che la “ricerca psicologica” di panpanya vuole descrivere in questa nota, probabilmente parlerei del legame tra concentrazione e percezione interiore del tempo. Come in tanti altri elementi della raccolta, il processo che l’autrice vuole descrivere è innescato da un evento che viola le sue aspettative. Nello specifico, parliamo di un fenomeno visivo: la strana oscillazione di un albero porta infatti panpanya a interrogarsi sui possibili motivi di questo avvenimento. A muoverlo non può essere il vento, che è assente; che sia un bambino che è salito sull’albero per giocare? Oppure no, chissà. Questa anomalia percettiva porta l’autrice a concentrarsi, formulando un fiume di ipotesi da cui si lascia trascinare. A un certo punto, però, questo fiume viene interrotto da un’osservazione meta-riflessiva: questa continua formulazione di ipotesi sembrava un lavoro che era andato avanti per un arco di tempo molto disteso mentre, in realtà, non era durato poco più di una manciata di secondi. C’è quindi un legame tra concentrazione e passaggio del tempo interiore? Maggiore è la concentrazione che usiamo nello svolgere un’azione, più il tempo sembra dilatarsi nella nostra interiorità: questa è la regolarità interiore che panpanya sembra voler documentare indagando il proprio animo. Non è infatti un caso che, dopo che la narratrice ha descritto minuziosamente le proprie ipotesi per diverse righe senza trovare soluzione, vada poi ad affermare di aver avuto la sensazione di averlo [l’albero] osservato a lungo, mentre invece si è trattato solo di un breve istante. Che la nostra capacità attenzionale sia legata alla sua coscienza temporale è qualcosa che si ritrova spesso nella produzione giapponese. Anche solo pensando a qualche titolo mainstream contemporaneo legato all’azione, un richiamo di questo fenomeno può essere ritrovato in grandi opere come Hunter x Hunter di Togashi Yoshihiro o Jujutsu Kaisen di Akutami Gege. Passando a casi meno popolari – ma sempre legati al tema dell’azione o dello sport – è possibile trovare dei fenomeni analoghi anche in forme più realistiche come quelle presenti in Shigurui di Yamaguchi Takayuki o all’interno di Ping Pong di Matsumoto Taiyō. Questi sono solo alcuni esempi ma, in generale, non è raro trovare un’attenzione particolare per fenomeni che riguardano l’alterazione della percezione del tempo in opere che descrivono azioni molto intense e condensate, come negli sport o nelle lotte. Molto più difficile è trovare racconti che esemplificano questi meccanismi in contesti quotidiani.
Terzo appuntamento: N.D.
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Note
L’ultimo volume pubblicato è Fish Society, uscito nell’agosto del 2023. ↩︎
Anzi, a volte può anche succedere che non ci sia niente da scrivere durante un viaggio. ↩︎
D’ora in avanti mi permetto di fare due operazioni indebite: la prima sarà riferirmi a panpanya usando il genere femminile; parlo di operazione indebita dal momento che il genere di panpanya è tutt’ora sconosciuto. Il motivo per cui decido comunque di usare il femminile è – ahimé – per la mia mancanza di abitudine nell’uso del neutro nei contesti più formali in cui devo usare la lingua scritta; per questo motivo ho deciso di accodarmi alla traduzione italiana, che si riferisce alla protagonista delle storie con il femminile. La seconda operazione indebita sarà proprio quella, in certi casi, di usare il nome panpanya sia per riferirmi all’autrice che alla protagonista delle storie; per fare ciò mi sento in parte legittimato dalla natura molto personale dell’opera, che permette un’identificazione tra autrice e personaggio fittizio. ↩︎
Degli esempi richiedono, solitamente, di andare verso forme più sperimentali di fumetto, come può succedere per il Rusty Brown di Chris Ware. ↩︎
Io per primo. ↩︎
L’espressione è volutamente pacchiana, perché spero riesca a dare l’idea di qualcosa che richiede un tipo di “immobilità” e passività esperenziale. ↩︎
Tanto che farne reverse engineering sembra praticamente impossibile. ↩︎
Prendo questa storia come riferimento, ma credo sia una riflessione estendibile a buona parte della sua produzione. ↩︎
Seppur spesso, in virtù di un uso decisamente bizzarro dei volumi, gli oggetti ambientali sembrano quasi capaci di deformare, curvare lo spazio intorno ai soggetti viventi. ↩︎
La mia idea è che questa differenza nelle modalità di rappresentazione sia legata a una distinzione che panpanya implicitamente fa tra agenti e ambienti. Ciò che ho più volte notato durante la lettura, infatti, è che la seconda modalità di rappresentazione è riservata a quel tipo di cose che possono agire attivamente con l’ambiente: esseri umani, pesci, salamandre et cetera. Questa idea entra in contrasto con un fatto abbastanza fondamentale, presente già in questo racconto: se quella che ho chiamato seconda modalità viene usata per gli agenti biologici, perché il granchio della storia è, invece, rappresentato con la prima modalità (ovvero in modo dettagliato, tendente al realistico)? Si osservi che, in realtà il granchio viene rappresentato in entrambi i modi durante il racconto: il secondo stile viene adottato nel momento in cui la protagonista lo prende con sé, entrandoci in contatto. La mia ipotesi (che ritornerà anche nel commento di uno dei racconti successivi) è che la seconda modalità valga per esseri viventi che panpanya non percepisce come oggetti: l’alternanza tra primo e secondo stile dipenderebbe, forse, dal fatto di considerare un po’ crudelmente il fuggitivo come qualcosa da mangiare (come un oggetto quindi) o come un essere vivente con cui interagire (nel momento in cui viene sollevato). ↩︎
Pag. 6, vignette 3,4,5. ↩︎
Io direi che, in questo caso, “vedere” può essere inteso in modo più generale come “avere esperienza”. ↩︎
Sicuramente dei testi sull’argomento possono essere trovati nella letteratura scientifica nata dalla produzione pionieristica di James Gibson. Altrimenti, se qualcuno non fosse troppo interessato ad approfondire le questioni dal punto di vista delle scienze psicologiche, mi viene a mente che questo concetto è stato presentato anche in un breve testo: Ambienti Umani e Ambienti Animali scritto dal biologo Jakob von Uëxkull, ultimamente riscoperto anche nell’ambito dell’ecocritica letteraria. ↩︎
In un senso ampio, anche gli ambienti urbani, le tradizioni, le costruzioni linguistiche e simili sono produzioni artefattuali. Io invece voglia parlare specificamente di oggetti maneggiabili, come gli utensili. Preferisco non usare il termine “utensile”, però, perché, come vediamo in questa storia, in realtà non è ben chiaro se gli oggetti descritti abbiano un qualche tipo di utilità pratica. ↩︎
Da questo punto di vista, sarebbe molto interessante approfondire la questione cercando affinità e differenze tra panpanya e altri importanti artisti pop che si sono interessati alla rappresentazione di oggetti meccanici o cimeli nel panorama giapponese, quali Otsuka Yasuo, Miyazaki Hayao, Okawara Kunio, Anno Hideaki, Otomo Katsuhiro, Toriyama Akira, Nagano Mamoru, Urasawa Naoki e tanti altri. ↩︎
Pag. 15. ↩︎
Pag. 18, vignette 5,6. ↩︎
Pag. 19, vignetta 5. ↩︎
Qui con “non-banale” mi riferisco a caratteristiche che non riguardino solo la maggiore quantità di immagini o cose simili. ↩︎
Nella prima storia, per esempio, la presenza di un granchio in un ambiente cittadino ha una risoluzione positiva e il mistero viene “risolto”. Nelle altre due storie brevi, al contrario, la situazione non arriva a una vera e propria soluzione, in questo senso possiamo considerarle “negative”. ↩︎
Etica, Dilemmi e Scelta in Togashi Yoshihiro
Questo articolo è stato scritto originariamente tra agosto e novembre del 2021. La mia intenzione iniziale era quella di pubblicarlo esclusivamente all’interno di una raccolta su fumetto e animazione, evitando di prendere un altro spazio sul blog di Matteo. Riflettendoci, non c’erano ragioni vere e proprie per non pubblicarlo online. Semplicemente, quando si scrive è anche bello sperimentare e variare gli ambiti di pubblicazione. In ogni caso, negli anni ho comunque passato il testo a vari amici come Matteo, Paolo Toti, Matteo Cardelli, Luca, Danilo Manzi e Lorenzo Di Giuseppe, che hanno fatto sempre seguire a un’attenta lettura delle fruttuose discussioni. Oltre a loro, lo scritto è arrivato anche a un’altra persona che ne è rimasta particolarmente entusiasta, tanto da voler scrivere un nuovo articolo che fosse (idealmente) il proseguimento del mio. Pensavo che fosse un’esagerazione, invece è andata effettivamente così: Settembre è il mese più crudele - perché vale la pena perdersi dentro York Shin City, che sarà presente in Keiko - Bedroom Comics Criticism #1, si pone proprio in continuità con Etica, Dilemmi e Scelta in Togashi Yoshihiro. Nonostante l’articolo di Keiko (che mi è stato già inviato) sia in linea di principio apprezzabile anche senza aver letto il mio, mi sembrava comunque una buona cosa che i lettori e le lettrici vi avessero accesso, in modo da avere sotto gli occhi il quadro completo. Spero la troverete una lettura gradevole.
Ecco perché i tipi troppo seri sono difficili da trattare.
Yū Yū Hakusho)
Introduzione
Quando ci approcciamo alle narrazioni (realistiche o meno) non è difficile ritrovarci a dare una valutazione morale degli eventi che ci si presentano davanti. Questo succede con ogni tipo di storia, dai romanzi, al cinema fino ai fumetti. Si potrebbe forse sostenere che, in qualche misura, ogni tipo di narrazione ha un impegno morale sottostante; allo stesso modo, però, è innegabile che in alcune opere questo valore traspaia con maggiore lucidità.
Devilman, Akira, Monster o Nausicaä della valle del vento è veramente difficile non notare una forte componente etica al centro dell’opera. Storie di questo tipo possono infatti avere un ruolo fondamentale per il lettore: Monster può portare a interrogarsi sul valore di certi dilemmi morali nel momento in cui la propria deontologia si trova in contrasto con un particolare contesto, mentre Nausicaä può farci riflettere sul modo in cui concepiamo la natura e come dobbiamo agire nei suoi confronti1.
2 e che alcune possano essere più adatte rispetto ad altre per questo ruolo. Lo scopo di questo articolo è mostrare che il mangaka Togashi Yoshihiro dovrebbe essere compreso tra gli autori che presentano un’attenta problematizzazione morale all’interno delle loro opere.
mainstream, in particolare per Yū Yū Hakusho (conosciuto in Italia come Yu degli spettri) e Hunter x Hunter (opere già considerabili come classici nella produzione giapponese); questo non implica però che l’autore scelga delle tematiche o delle narrazioni superficiali nelle sue opere3. Ciò che proveremo a sostenere è che nelle opere di Togashi la componente etica sia, infatti, fondamentale per comprendere la poetica stessa dell’autore.
Level E), mentre l’ultima si focalizzerà su quelle più famose.
Nausicaä e la Natura: Un'analisi critica del fumetto di Miyazaki Hayao di Yupa
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Etiche humeane a grana grossa
Come abbiamo già accennato, il quadro interpretativo che prenderemo come riferimento per analizzare le opere di Togashi vede come figura cardine il filosofo scozzese David Hume. Qualcuno potrebbe trovare questo richiamo a Hume nel ventunesimo secolo come anacronistico. Tale accusa è aggravata dalla sua applicazione a opere pop di recente pubblicazione, come quelle di Togashi.
4: da una parte assistiamo a una ripresa delle cosiddette etiche della virtù (di cui le etiche humeane fanno parte), da un’altra è innegabile un interesse sempre maggiore per argomenti come le emozioni o la natura sociale dell’uomo. Oltre a questo, le etiche humeane si prestano particolarmente bene a essere integrate in un quadro naturalistico, cosa che permette loro di interagire fruttuosamente con ambiti come la psicologia cognitiva e la biologia.
5.
etiche delle virtù6 e che abbiano una matrice sentimentalista.
compassione verso il paziente e al coraggio verso delle regole che si avvertono come scorrette. Notiamo già, quindi, che le etiche della virtù possono essere considerate come teorie in cui il contesto ha un valore fondamentale, così come lo hanno le intenzioni e le ragioni dell’agente. A differenza di altre teorie etiche, il carattere e i bisogni degli individui coinvolti nell’azione morale sono estremamente importanti per un teorico delle virtù. Questa idea si sposa benissimo con la seconda caratteristica delle etiche humeane, cioè il fatto che i sentimenti siano usati come risorse che ci permettono di distinguere un’azione virtuosa da una viziosa.
approvazione o di biasimo che proviamo di fronte a una certa azione7.
Predicati come “agire moralmente” andrebbero quindi ancorati a chi enuncia il giudizio morale.
“essere virtuoso/vizioso per x”.
8.
9. La cosa interessante è che in etiche di questo tipo uno spazio rilevante non è occupato solo dai sentimenti degli individui, ma anche dalla nostra capacità di comprendere le ragioni degli altri quando compiono particolari scelte. Chiaramente comprendere le ragioni altrui potrebbe non essere sufficiente per ritenere un’azione come virtuosa, poiché potremmo trovare un’azione riprovevole pur comprendendone le ragioni. Quello che è importante tenere a mente è che la comunicazione dialogica tra individui e lo scambio di punti di vista diversi ha un ruolo centrale all’interno delle etiche humeane.
10.
La regola del gusto e altri saggi di David Hume (a cura di Giulio Preti)
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Come abbiamo già accennato, un’idea centrale in queste teorie è che le scelte morali non siano realisticamente sganciabili dagli interessi e dai desideri degli individui11: quando ci troviamo a fare delle scelte, potremmo non essere “trasparenti a noi stessi” e desiderare cose estremamente differenti tra di loro. Questo potrebbe portarci a non saper decidere che azione compiere in un particolare contesto. Riassumendo, ci troviamo di fronte a teorie che relativizzano la distinzione tra morale e immorale ai singoli individui che giudicano un’azione e che potrebbero non condannare come immorale la possibilità da parte di un agente di non saper agire di fronte a certi dilemmi morali. Arrivati a questo punto, un’obiezione abbastanza ovvia che potrebbe essere mossa alla teoria che abbiamo presentato è questa: se un’azione morale è veramente fondata sui sentimenti che proviamo singolarmente, allora non è possibile un vero e proprio disaccordo morale12. È normale che, quando compio un’azione, io approvi ciò che sto facendo, in quel caso l’azione sarebbe buona per me. Io potrei, però, compiere un’azione che danneggia molte persone e approvare comunque la mia stessa condotta. In questo modo un assassino potrebbe compiere un’azione virtuosa almeno quanto può compierla un santo, dal momento che entrambi hanno delle ragioni e dei sentimenti che permettono di approvare le loro stesse azioni. Questo problema viene parzialmente risolto considerando il concetto di simpatia che Hume presenta nel Trattato sull’intelletto umano13. Con simpatia ci riferiamo a un meccanismo psicologico non-inferenziale che ci permette, in gradi diversi, di provare le stesse sensazioni esperite da un individuo quando si trova in una particolare situazione14. Quella della simpatia è una sorta di tendenza naturale che gli uomini hanno di immedesimarsi nei panni degli altri, comprendendo le loro passioni e i loro interessi. In questo senso, quando compiamo un’azione che sia utile o piacevole per gli altri noi possiamo sentire che questi provano un piacere derivante dalla nostra azione, proprio in virtù della simpatia. Allo stesso modo, la simpatia ci permette di comprendere quando arrechiamo danno a qualcuno.
disaccordo: un’azione morale non sarà solo un’azione che noi stessi approviamo, ma che potrà essere approvata anche dagli altri in un contesto più generale possibile. In questo modo l’azione di un assassino potrebbe essere approvata da lui, ma trovare una disapprovazione totale da parte degli altri. La simpatia si presenta quindi come una guida necessaria per imparare ad agire moralmente.
dipende dal contesto sociale in cui è effettuata e può essere continuamente perfezionata15 a causa della variabilità dei nostri rapporti sociali. Questa idea permette di considerare una visione dell’etica fortemente vincolata ai contesti sociali e storici, in cui gli individui possono cambiare continuamente prospettiva rispetto alle cose tramite l’interazione virtuosa con gli altri. Da questo punto di vista, agire moralmente non è tanto un fatto, quanto un ideale a cui aspirare.
Come trattare uno stomaco invisibile
Dopo aver fornito le coordinate concettuali che useremo d’ora in avanti, possiamo iniziare a vedere come queste si applichino alle opere di Togashi Yoshihiro partendo da una storia breve presente in Level E, manga serializzato su Weekly Shōnen Jump dal 1995 al 1997 e pubblicato in Italia da Planet Manga nel 2012.
Ci sono diverse ragioni per dare a Level E un ruolo centrale all’interno di questo articolo. La prima ragione riguarda la sua scarsa popolarità tra i lettori italiani; tra le opere di Togashi portate in Italia, infatti, Level E è sicuramente la meno letta e conosciuta. Dietro questa analisi c’è quindi la speranza che qualche lettore interessato possa avvicinarsi a un manga decisamente meritevole. La seconda è che, a livello editoriale, l’opera risulta essere abbastanza peculiare: non solo Level E rappresenta un caso di pubblicazione mensile su rivista settimanale, ma, in un’intervista pubblicata per i 50 anni della rivista Weekly Shōnen Jump, è Togashi stesso ad affermare che la creazione dell’opera avesse lo scopo di mostrare un lato del suo carattere che non era riuscito a emergere in Yū Yū Hakusho16. Oltre a questo, Togashi parla di un suo interesse “duplice” per il fumetto, che l’autore paragona al rapporto dialettico tra yin e yang: mentre da una parte rimane costante la sua voglia di pubblicare per una rivista mainstream, dall’altra non nega un profondo interesse per riviste alternative come Garo. Queste due informazioni possono servirci per comprendere perché ritenere Level E così interessante. Di fatto è impossibile negare che, nella produzione dell’autore, l’opera sia quella che si allontana di più da strutture e tematiche mainstream; se consideriamo che questa natura più alternativa nasce proprio dalla volontà del mangaka di svelare “uno dei suoi lati nascosti”, è abbastanza plausibile pensare che Level E sia un’opera fondamentale per comprendere il pensiero e la poetica di Togashi.
Level E possiamo infatti trovare, seppur spesso a livello germinale, quasi tutti i nuclei tematici presenti nelle opere di Togashi: dal rapporto tra natura e cultura al tema del cannibalismo, dalla riflessione sull’importanza delle informazioni fino alla natura della finzione e del gioco. Questi e molti altri temi fondamentali appaiono in modo evidente all’interno di Level E; capiamo quindi come l’opera sia necessaria sia per comprendere meglio gli interessi dell’autore che per avere un quadro più chiaro degli argomenti affrontati nelle altre opere.
La storia breve che analizzeremo, cioè quella dei capitoli 004 e 005, affronta proprio il tema del cannibalismo, argomento già presente in Yū Yū Hakusho ma poi ampliato in Hunter x Hunter.
Level E e alter ego dell’autore) che viene esposto a un editor decisamente poco brillante. Quello che il principe Baka cerca di spiegare è che la sua opera può svolgere un ruolo di perfezionamento morale, permettendo ai lettori di comprendere punti di vista differenti dai propri. Un’idea simile è perfettamente in linea con una teoria humeana, dal momento che questa assume che le narrazioni abbiano proprio il ruolo di raffinare i sentimenti dei lettori nei confronti degli altri individui17.
Level E, anche la storia dei capitoli 004 e 005 parla di alieni che popolano la Terra all’insaputa degli umani; occasione che l’autore sfrutta per permettere a culture, società e visioni del mondo diverse di interagire. È infatti fondamentale notare che, sin dal primo capitolo dell’opera, l’interesse di Togashi sembra essere squisitamente socio-antropologico: l’immenso immaginario della fantascienza non è solo uno strumento narrativo ma anche un banco di prova per costruire culture e valori alternativi che possono facilmente entrare in conflitto con i nostri. Proprio questo interesse sembra giustificare in modo brillante la presenza nel racconto del tema del cannibalismo.
18. Yamamoto e gli altri componenti della sua famiglia sono gli ultimi conwelliani rimasti e si trovano nella terribile situazione di continuare a provare fame per coloro verso le quali provano attrazione sessuale, senza però potersi riprodurre. Come viene specificato, infatti, l’assimilazione di carne non conwelliana non ha alcuna funzione nella loro riproduzione. La cosa interessante da tenere a mente è proprio il fatto che i conwelliani continuano a provare questo tremendo senso di fame finché non si nutrono della partner e che questo sentimento non è placabile in altro modo (questo fenomeno xeno-biologico nella storia è chiamato stomaco invisibile); in un certo senso i conwelliani si “trovano costretti” a nutrirsi di carne umana, seppur sia completamente inutile a fini riproduttivi.
Il fenomeno del cannibalismo è molto complesso non solo per ragioni scientifiche ma anche per la sua forte connessione con le nostre intuizioni morali. Dal nostro punto di vista è abbastanza comune trovare il cannibalismo come un’azione immorale; interessante è riflettere sul fatto che, invece, non tendiamo a dare giudizi così netti quando il cannibalismo è effettuato da specie diverse dalla nostra. Intuitivamente, un motivo valido potrebbe essere che le azioni di un cannibale umano dipendano da azioni volontarie o razionali, cosa che magari non succede per altri animali19.
volontà in virtù della quale riusciamo ad attribuire responsabilità ad altri individui e a riconoscere le loro azioni come morali.
se gli fosse ordinato di non dormire20. Addormentarsi, infatti, sembra essere un’azione che non può essere controllata dalla volontà o da altri atti intenzionali (se non in minima parte), a differenza di azioni come leggere, scrivere o afferrare una palla. Una chiara applicazione delle etiche humeane si lega proprio a questo problema: il fatto che i conwelliani non abbiano controllo delle loro azioni li rende effettivamente colpevoli di azioni immorali? Mentre per certe etiche che si appellano a regole astratte il comportamento dei conwelliani è inequivocabilmente immorale (ad esempio teorie che ritengono che uccidere sia intrinsecamente sbagliato), possiamo capire che per un’etica humeana la cosa è molto più difficile.
avrebbe voluto parlare con Yamamoto, ma non avrebbe avuto niente da dirgli, e nella scelta, altrimenti ingiustificabile, dei protagonisti di continuare a lavorare nella clinica aliena che gli aveva fornito informazioni sui conwelliani. L’interpretazione più plausibile, perfettamente in linea con il quadro humeano, è proprio che i protagonisti, di fronte alla loro impotenza nella risoluzione del dilemma, abbiano deciso di fare maggiore esperienza con specie differenti per avere una sensibilità più sviluppata all’interno di quei contesti e capire quale sia il modo migliore di agire di fronte ad altri problemi simili21.
Esempi e spunti
Mentre la sezione precedente aveva lo scopo di presentare un caso che avesse una valenza generale, facilmente comprensibile anche da un lettore lontano dalle opere di Togashi, quella attuale serve a fornire una serie di esempi che possano rendere evidente la plausibilità di un approccio humeano alle opere dell’autore. D’ora in avanti si assume che il lettore abbia almeno una conoscenza basilare delle trame e dei temi di Yū Yū Hakusho e Hunter x Hunter.
Ancora carne, ma più ironia
Nonostante Yū Yū Hakusho sia principalmente ricordato per le sue scene di combattimento, è interessante notare come una forte tematizzazione morale emerga negli ultimi 60 capitoli dell’opera. Basti pensare che leggendo il capitolo 117, in modo totalmente inaspettato, il lettore si ritrova, tramite gli occhi di Sensui, ad assistere a un festino in cui decine di persone vengono perversamente torturate, fatte a pezzi e gettate in pozze di sangue. Questo cambiamento di stile, esplicitamente horror, fa da “apripista simbolico” all’interesse per i temi morali che l’opera inizia a sviluppare. Lo scopo evidente di questi ultimi capitoli è chiedersi fino a che punto dei principi morali possano essere generalizzabili22, mostrando come i rapporti tra bene e male siano in realtà estremamente sfumati: dopo aver combattuto con i demoni per buona parte della storia, i personaggi inizieranno infatti a interagire maggiormente con loro, fino a giustificare molte delle loro pratiche.
23. Questa scelta, a prima vista contraddittoria, può essere facilmente interpretata da un quadro humeano. Dobbiamo infatti ricordare che, dopo un anno passato nel regno dei demoni, Yusuke ha tutto il tempo di comprendere i valori dei demoni e le loro pratiche di vita. I demoni al seguito di Raizen si nutrono di carne umana, ma non ritengono il fatto così importante, tanto che alcuni ammettono tranquillamente di voler smettere di farlo24. All’interno di un’ipotetica scala dei valori, per i sottoposti di Raizen ciò che è importante è il divertimento provocato dallo scontro, la carne umana ha solo la funzione di accrescere la forza dei demoni permettendo loro di avere performance migliori durante il combattimento. Yusuke mostra di aver compreso pienamente questa scala di valori, per questo si propone di procurare della carne al padre. In quel contesto sociale l’azione non è sicuramente vista come immorale, mentre lo sarebbe stata nel caso il consumo di carne umana fosse stata già abolita nel regno di Raizen.
25, che non risparmia nessuno dei demoni con cui combatte. Dopo aver incontrato Itsuki, questo lo corrompe “come si fa con una bambina innocente facendole vedere un porno senza censure”26 mostrandogli le mostruosità di cui sono capaci gli esseri umani; proprio da lì Sensui decide di voler causare un genocidio umano. Nonostante siano entrambi detective del mondo degli spiriti, Sensui pare essere una versione degenerata di Yusuke e la ragione principale di questa differenza è radicata nel concetto di moralità che hanno i due. Mentre Yusuke viene scherzosamente considerato come un detective poco serio da Koenma, Sensui, al contrario, ha un ferreo senso di giustizia. Se Yusuke si adatta particolarmente bene a un’etica più concreta (come quelle humeane), Sensui è associabile a visioni etiche astratte e universalistiche. Di fatto, Sensui sembra voler sterminare gli esseri umani perché, come i demoni, anche questi sono malvagi per natura, se non peggio. L’imperativo di far estinguere i malvagi, che inizialmente era applicato solo ai demoni da parte di Sensui, subisce un cambio di dominio: dopo aver realizzato che gli umani sono capaci di azioni orribili, allora la norma deve essere applicata anche a loro. Posizioni di questo tipo sono chiaramente in contrasto con un’etica humeana e il fatto che Sensui sia descritto come un personaggio negativo, potrebbe essere interpretato come una critica verso un modo eccessivamente astratto di intendere le distinzioni morali. Dopotutto, il finale di Yū Yū Hakusho sembra suggerire proprio che mondi diversi hanno sistemi di valori complessi e ugualmente ricchi che, nonostante le differenze, possono in qualche modo provare a integrarsi e comunicare.
Yu degli spettri - New Edition di Togashi Yoshihiro
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“Forse perché non li conosciamo?”
Mentre in Yū Yū Hakusho le questioni morali iniziano a emergere solo nell’ultimo terzo dell’opera, Hunter x Hunter sembra ereditare sin dal principio una certa complessità tematica da Level E, complessità tematica spesso sviluppata in modi decisamente brillanti. È inutile dire che temi come quello di natura e cultura siano fondamentali nella saga delle Formichimere, così come per un lettore attento sarà impossibile non notare che il rapporto tra Komugi e Meruem viene impostato secondo quelle dinamiche comunicative e di comprensione dei valori reciproci che sono fondamentali nelle etiche humeane. Poiché lo spazio rimanente è veramente poco (e poiché sarebbe necessaria una serie di articoli per esaurire la ricchezza delle Formichimere), preferiamo fornire esempi tratti da una saga meno esplicita su queste tematiche, ciò quella di York Shin City.
York Shin City è una saga decisamente peculiare, sia dal punto di vista stilistico che da quello narrativo: di fatto la storia alterna momenti noir ad altri di thriller investigativo, sempre all’interno di un contesto horror di sfondo. Nonostante queste componenti estetiche siano fondamentali durante la lettura della saga27, uno spazio importante viene dedicato anche al modo in cui le azioni della Brigata Fantasma vengono percepite dai personaggi della storia.
shōnen classica ci troveremmo in un conflitto morale che rispecchia la divisione tra fazioni: da una parte avremmo i protagonisti della storia che incarnano valori corretti, dall’altra i nemici che rispecchiano dei comportamenti inaccettabili.
non li conoscono28.
Una simile affermazione si presta, chiaramente, a essere interpretata tramite il concetto di simpatia: il fatto che esista una distanza tra i membri della Brigata e altri individui esterni è ciò che li porta a valutare le loro azioni come non-immorali. La questione è facilmente comprensibile analizzando la struttura del Ragno. Questo si presenta come un gruppo in cui i membri versano un contributo di fedeltà verso un ente astratto, cioè il gruppo stesso. All’interno della Brigata esistono ruoli e funzioni e ognuno dei membri si rende conto della sua dispensabilità (o meno) nell’economia del Ragno29. Ciò che ha un valore primario è la sopravvivenza del gruppo.
compatta e comunitaria30, in cui i membri si identificano in un ruolo e provano fiducia solo per gli altri membri del gruppo, distanziandosi da strutture sociali più ampie. In un contesto simile è facile vedere come i membri della Brigata non provino alcun tipo di tendenza emotiva positiva verso gli esterni. Il lato più affascinante e profondo della questione si ha, però, dopo il rapimento di Chrollo. In quel caso il Ragno si spacca in due sottogruppi con opinioni differenti, tra chi vuole seguire gli ordini del capo (cosa che porterebbe alla morte di Chrollo) e chi vorrebbe sottostare alle regole dello scambio di ostaggi. Questa complicazione ulteriore è perfettamente in linea con la teoria che abbiamo presentato: nonostante esistano delle forti uniformità all’interno di un gruppo, è impossibile che i singoli individui non abbiano idee, desideri e necessità differenti.
a priori, ci permettano di classificare degli individui come santi o assassini. Piuttosto è più sensato concepire gli altri come coacervi di comportamenti virtuosi e viziosi, spesso in contraddizione; questa perdita di generalità nelle classificazioni morali non è da considerare come un difetto, ma come un fattore fondamentale per comprendere meglio le ragioni altrui e sviluppare in modo più adatto la nostra sensibilità morale.
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Bibliografia
Balistreri, M. (2010). Etica e romanzi. Firenze, Le Lettere.
Botti, C. (2014). Prospettive femministe. Milano-Udine, Mimesis.
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Greco, L. (2008). L’io morale: David Hume e l’etica contemporanea. Napoli, Liguori.
Greco, L. (2013). Toward a Humean Virtue Ethics. In Julia Peters (ed.), in Aristotelian Ethics in Contemporary Perspective (pp. 210-23). Londra, Routledge.
Hume, D. (1987). Trattato sulla natura umana. Roma-Bari, Laterza.
Hume, D. (2017). La regola del gusto e altri saggi. Milano, Abscondita.
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Sitografia
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Lo Spazio Bianco (2015), Yu degli spettri di Y. Togashi: l’equilibrio del male, consultato il 10/11/2021, da https://www.lospaziobianco.it/spettri-togashi-lequilibrio/.
Matteo Caronna - Terre Illustrate (2020, 12 Dicembre), Yoshihiro Togashi: rimedi alla noia feat Danilo Manzi [video], reperibile su https://www.youtube.com/watch?v=GlaMIZyZSF0 .
r/HunterXHunter (2018), Togashi’s Interview Translated – Jump 90’s Star Road of Glory!!, consultato il 14/11/2021, da https://old.reddit.com/r/HunterXHunter/comments/83js58/togashis_interview_translated_jump_90s_star_road/.
Note
Per una lettura approfondita sul ruolo della natura in Nausicaä si veda Yupa (2014). ↩︎
Questa assunzione è meno pacifica di quello che sembra, ma non sarà scopo dell’articolo approfondire la questione. Per un quadro generale si veda Balistreri (2010). ↩︎
Per una infarinatura divertente sulla complessità dell’autore si consiglia di recuperare il video Yoshihiro Togashi, rimedi alla noia sul canale YouTube Terre Illustrate. ↩︎
Basti vedere Slote (2010), oppure la possibile integrazione con alcune etiche femministe in Botti (2014). ↩︎
Cfr. Greco (2008). ↩︎
Come succede sempre con testi classici, è possibile trovare versioni molto diverse del pensiero di un certo autore. Hume non sfugge a questo fenomeno, trovando interpretazioni che vanno dall’etica delle virtù, al consequenzialismo. Per una visione più chiara del dibattito si veda Swanton (2007). ↩︎
Hume (1987), pp. 481-503. ↩︎
La questione è molto più complessa. In questo articolo abbiamo preferito rifarci all’interpretazione presentata in Greco (2014), sia perché più attinente all’autore originale, sia perché più in linea con la poetica di Togashi. Come sottolineato, questo tipo di teoria non implica alcun tipo di impegno ontologico nei confronti delle proprietà morali, ma questo non vuol dire che non possano essere integrate in una teoria humeana come in Swanton (2007). ↩︎
Questa idea si vede molto bene in Hume (2017), pp. 21-27, seppur ci si riferisca al problema del gusto estetico. ↩︎
Cosa che invece potrebbe essere condannata come immorale in tipi di etiche più astratte; in quel caso l’azione di Thomas potrebbe essere considerata come una negligenza rispetto a certe prescrizioni morali. ↩︎
Williams (1982). ↩︎
Foot (2002). ↩︎
Hume (1987) pp. 332-340, si veda anche Greco (2008), pp. 105-122. ↩︎
In Slote (2010) viene problematizzata una differenza tra simpatia ed empatia; Slote stesso afferma che l’empatia è un principio psicologico molto più solido per le etiche humeane rispetto alla semplice simpatia. In questo articolo la questione non sarà affrontata e il concetto di simpatia sarà preso a grana molto grossa, per essere usato come strumento interpretativo per le opere di Togashi. ↩︎
Balistreri (2010), p. 165. ↩︎
Una traduzione inglese dell’intervista si può ritrovare in
https://old.reddit.com/r/HunterXHunter/comments/83js58/togashis_interview_translated_jump_90s_star_road/ ↩︎
Per un approfondimento si veda Balistreri (2010), cap. 3. oppure Hume (2017). ↩︎
Level E cap. 005, p. 191. ↩︎
Se questa ragione sia effettivamente valida è qualcosa che potrebbe essere discusso. Nel contesto che stiamo fornendo, però, cerchiamo di assumere una posizione che potrebbe essere argomentata a livello di senso comune. ↩︎
Level E, p. 194. ↩︎
La questione è effettivamente controversa, poiché si potrebbero fornire una serie di obiezioni in cui si cerca di dimostrare che i protagonisti si sono comportati in modo immorale nel lasciar perdere la questione. L’obiezione è comprensibile ma, agli occhi di chi scrive, non riuscirebbe a cogliere troppo bene il punto del racconto. Prima di tutto, non sappiamo niente di ciò che succede ai vari personaggi nell’arco di tempo in cui avviene il suicidio della famiglia Yamamoto, quindi non sappiamo se erano possibili delle soluzioni valide per salvare la situazione. In secondo luogo, questo andrebbe contro alle intenzioni del principe Baka nella scrittura della storia, poiché egli stesso afferma di voler mostrare che certi individui non compiono volontariamente azioni malvagie. Un finale in cui, per salvare delle possibili vittime, i protagonisti decidono di denunciare Yamamoto alla polizia avrebbe sicuramente avuto un impatto minore, poiché avrebbe comunque fatto passare i cornwelliani come personaggi ingiusti e “da punire”. Sicuramente immaginare situazioni alternative non espresse dalla storia è uno dei fattori che rende interessante il nostro rapporto con l’arte, ma a volte potrebbe farci sfuggire il punto di un’opera. ↩︎
Questa interpretazione era già stata presentata, seppur in modo molto generale, da Nathan Quaranta in un suo articolo per lo Spazio Bianco. Si veda https://www.lospaziobianco.it/spettri-togashi-lequilibrio/ . ↩︎
Un altro esempio fondamentale è la rivelazione relativa alla politica del Regno dei Morti che Kurama fa a Yusuke, cap. 170. ↩︎
Yū Yū Hakusho cap. 156. ↩︎
Yū Yū Hakusho, cap. 126-127. ↩︎
Parafrasi di cap. 139. ↩︎
Per avere delle coordinate che permettono di cogliere dei lati più sottili dell’estetica di York Shin si veda https://web.archive.org/web/20220922100826/https://bosozoku.it/shintaro-kago-a-york-shin-city-ero-guro-in-hunter-x-hunter/. ↩︎
Hunter x Hunter, cap. 111. Una cosa interessante è che Gon stesso esibisce un comportamento fortemente contraddittorio durante l’asta dei vasi, fattosta che Sepail nel capitolo 088 si riferisce a Gon descrivendolo come un individuo che non discrima tra bene e male. Giudizio abbastanza bizzarro, considerando le accuse quasi moralistiche che Gon farà contro Nobunaga e Chrollo. ↩︎
Hunter x Hunter, cap. 104 e 114. Non è un caso che i personaggi si riferiscano a questo usando una metaforica anatomica, in cui i membri si identificano nella testa, nel corpo o nelle zampe. ↩︎
Probabilmente il racconto dell’attentato da parte degli abitanti del Paese delle Stelle Cadenti (cap. 102) può servire a presentare un paradigma culturale di carattere comunitario che viene anche adottato all’interno del Ragno. Chiaramente questo non vuol dire che non esistano forti differenze tra i due gruppi. ↩︎
GoGo Monster, realtà, finzione, spazi di gioco
Introduzione
In questo articolo verrà presentata l’analisi di un’opera di Matsumoto Taiyō pubblicata come volume unico nel 2000, cioè GoGo Monster (GOGO モンスター). Nello specifico, l’articolo cercherà di fornire una chiave di lettura che permetta di comprendere adeguatamente un’opera percepita come complicata e difficilmente penetrabile. Va inoltre considerato che scopo dell’articolo è anche quello di continuare uno studio già iniziato con il precedente elaborato su Ping Pong, sempre reperibile sul blog di Terre Illustrate. Vi sono almeno due ragioni per dare spazio a GoGo Monster. La prima è di carattere editoriale: GoGo Monster è il fumetto che Matsumoto ha realizzato dopo Ping Pong e si tratta dell’unica opera lunga (più di 400 pagine) che l’autore non ha pubblicato su rivista. Questa scelta editoriale è rispecchiata anche dalla struttura dell’opera, divisa in capitoli di lunghezza eterogenea. La pubblicazione di GoGo Monster ha richiesto tre anni di lavoro in cui Matsumoto ha corretto e ricorretto le proprie pagine, al punto di non saper più se erano buone o meno1.
Considerando che GoGo Monster riprende esplicitamente alcuni dei temi più importanti di Ping Pong, è abbastanza naturale pensare che questa lunga gestazione coincida con una maggior consapevolezza e profondità degli argomenti trattati.
2. Succede di frequente, però, che le opere di Matsumoto trattino temi molto vari, spesso sfumando da un’unica situazione raccontata3. GoGo Monster, da questo punto di vista, sembra essere abbastanza uniforme negli argomenti che affronta. L’opera non fa deviazioni tematiche e sembra andare in una direzione ben precisa, che probabilmente è quella pensata dall’autore4.
GoGo Monster possa permettere di avere una presa abbastanza solida sulla poetica generale del mangaka.
immagine e quello di gioco. Chi è avvezzo alla letteratura specialistica di estetica e teoria dell’arte difficilmente rimarrà sorpreso dall’importanza di questi temi, al centro di molti dei dibattiti contemporanei5. I profani potrebbero, invece, rimanere maggiormente spiazzati dal secondo concetto tirato in ballo. Comunemente tendiamo a vedere il gioco come un’azione puerile, di scarso valore, da relegare al periodo dell’infanzia. Giocare è una forma di svago, un divertimento che va distinto dalla serietà richiesta dall’entrata nella società “dei grandi”. Anche da adulti il gioco continua a esistere, ma in forma estremamente limitata: esempi possono essere una cena con amici, oppure la presenza in tribuna per un evento sportivo. L’idea comune, comunque, è che i giochi siano una parte marginale delle nostre vite, da associare a esperienze e sensazioni frivole nella nostra esperienza quotidiana. Ci sono le cose importanti, poi c’è il gioco. Basta dare una rapida occhiata a vari ambiti scientifici per vedere come questa intuizione non sia solo superficiale, ma persino sbagliata. Non solo i giochi sono parte integrante delle nostre vite, ma sono una pratica sociale importantissima per la produzione della cultura. Non è strano, quindi, che il concetto di gioco possa ricevere un grande interesse anche in ambito artistico. Anche solo nel mondo dei manga, è sufficiente pensare a grandi autori come Araki Hirohiko, Togashi Yoshihiro o Urasawa Naoki per vedere quanto l’atto di “giocare” sia importante. L’articolo cercherà di chiarire questi due concetti, alternandoli all’analisi testuale dell’opera. Un simile approccio è rispecchiato dalla struttura dell’elaborato, diviso in due sezioni principali: una dedicata alle immagini e una dedicata al gioco.
Essendo un’analisi dell’opera, è inutile dire che è richiesto, almeno, di aver letto il manga in questione e aver familiarizzato con le sue tematiche.
Apertura sulle immagini
GoGo Monster è una storia che viene raccontata intorno a pochi personaggi. Il protagonista è Tachibana Yuki, affiancato dal compagno di classe Suzuki Makoto, il giardiniere Gantsu e il brillante IQ. Un lettore che volesse essere provocatorio potrebbe contestare queste affermazioni dicendo che, in realtà, i personaggi di GoGo Monster sono molti di più. Non ho infatti considerato Superstar o Chance o tutti gli altri mostri, nemici di Yuki, che invadono la scuola portandola a una progressiva decadenza. Tutti i personaggi a cui ci siamo riferiti ora però sono invisibili: non vengono mai presentati con la stessa vividezza di Yuki, Makoto e gli altri. Eppure, stando a ciò che dice Yuki, loro ci sono e sono parte integrante del racconto, seppur non vengano mai mostrati.
Come possiamo già intuire, GoGo Monster è un’opera in cui ciò che si può vedere o meno ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo della storia, così come per le sue tematiche.
Il rapporto tra visibile e invisibile può essere fruttuosamente analizzato all’interno dell’opera da due punti di vista, sia da quello diegetico che da quello extra-diegetico. Iniziamo analizzando il ruolo che questo rapporto ha a livello extra-diegetico, per poi passare al suo uso interno alla storia.
La narrazione di GoGo Monster vive di suggestioni e di non-detti.
Qui troviamo, in modo abbastanza chiaro, una differenza tra i punti di vista di Yuki e quello del compagno di classe Makoto. Nella seconda vignetta è possibile notare delle strane linee, simili a volti, disegnate all’interno delle gocce di pioggia che scendono sul vetro. Quello è, plausibilmente, il punto di vista di Yuki6. Nella quarta, invece, questi volti sono assenti. Questo è il punto di vista di Makoto. Un simile stratagemma si presenta più volte all’interno della storia, fino a diventare difficilmente decifrabile nel capitolo Inverno, in cui è presente un’alternanza continua di prospettive. Allo stesso modo, uno dei motori dell’opera, cioè il bullismo compiuto dai bambini verso insegnanti e altri compagni, non è mai realmente esplicitato, se non da frasi fugaci o scene specifiche. Leggendo da pagina 93 a pagina 99, per esempio, è possibile comprendere che Yuki è stato picchiato dai compagni per recuperare l’orologio di Makoto. Un simile evento, però, non viene mai rappresentato visivamente nella narrazione. Allo stesso modo non si vede mai nessuno dei bambini rompere un vetro, oppure boicottare la lezione di uno degli insegnanti. Tutte queste informazioni possono essere ricavate solo da elementi disseminati per tutta l’opera.
È abbastanza interessante notare, però, che un simile tema non sia affatto secondario. Al contrario, questo è un ingrediente necessario per la comprensione della storia. Matsumoto sembra essere ben consapevole del potere che le immagini hanno sul lettore, sulla sua capacità di decifrare in modo adatto particolari eventi. Eppure, durante la lettura di GoGo Monster, è possibile che questi elementi sfuggano totalmente a un lettore poco attento. È plausibile pensare che lasciare un simile elemento narrativo come invisibile al lettore non sia solo una disattenzione da parte dell’autore, ma sia una scelta ponderata e consapevole7. Come dovremmo interpretare una simile scelta stilistica?
Diamo subito una risposta che, però, sarà più chiara dopo che il lettore avrà confrontato questo punto con il modo in cui il non visibile è affrontato all’interno della storia. Matsumoto sembra voler mettere il lettore nella stessa situazione di Yuki. Proprio come il protagonista, anche il lettore si ritrova a dover decifrare gli eventi della storia come se fossero causati da entità invisibili (che, nel nostro caso, sono i compagni di classe). L’idea sembra proprio quella di voler far sentire al lettore cosa si prova a vedere degli effetti che sono provocati da entità che non vediamo mai per tutta la narrazione, fattosta che non è difficile credere al racconto di Yuki sui mostri cattivi. Dopotutto anche il lettore non ha mai alcuna prova visiva che a provocare tutte le disgrazie scolastiche siano gli altri bambini. Detto questo, speriamo che la cosa diventi più chiara andando avanti con l’analisi. Facciamoci ora la domanda più spinosa.
All’interno della narrazione8 cosa sono i mostri citati anche nel titolo dell’opera?
Come viene più volte esplicitato nella storia, i mostri non hanno una natura strettamente sensibile. Non possono essere visti come vediamo tavoli e sedie. Una simile idea è affermata da Yuki, che sostiene di avvertirli grazie al “potere della mente”, quanto dal giardiniere Gantsu, che riporta le testimonianze di altri bambini sensibili a queste presenze. L’interpretazione più plausibile è che i mostri siano in realtà delle “proiezioni” psicologiche che il piccolo Yuki fa a causa della sua fervida immaginazione. Questa interpretazione trova un forte riscontro anche nel personaggio di IQ, il primo a svelare a Yuki la natura finzionale di Superstar e Chance. Oltre a questo, vi è anche un altro elemento testuale che va in questa direzione. A pagina 112 è presente una scena in cui uno dei compagni di classe di Yuki legge un estratto come compito assegnato dalla maestra. È chiaro come un simile fenomeno possa essere interpretato meta-narrativamente come un modo per rappresentare il processo con cui Yuki arriva a “costruire” i mostri:
A volte leva un profondo ruggito dentro di me.
Non solo il riferimento a qualcosa che “fuoriesce” dalla propria interiorità è centrale, ma questo qualcosa è anche dipendente da noi (Non ha il coraggio di riconoscere spontaneamente la propria identità.). Banalmente, una fantasia cessa di esistere una volta che smettiamo di immaginarla. I “mostri” non sono altro se non una fantasia di Yuki, qualcosa che non esiste realmente9. Di un’idea simile pare essere anche la maestra di Tachibana che, parlando con il custode, classifica il comportamento del bambino come una sorta di delirio10. Si potrebbe quindi sostenere che Yuki (preda delle sue fantasie) viva in un mondo “tutto suo”, totalmente disancorato dalla realtà, che lo porta a estraniarsi dagli altri. Considerando la componente morale/pedagogica che è facilmente intuibile nell’opera, qualcuno particolarmente avventato potrebbe dare quindi una prima interpretazione del tema principale del manga. Cioè che GoGo Monster inviti ad abbandonare le proprie finzioni per “abbracciare la realtà” e le altre soggettività che la popolano.
Quello che sosteniamo in questo articolo non è solo che una simile interpretazione sia banale, ma che nasca da una lettura superficiale dell’opera11. Pensandoci bene, Matsumoto ci fornisce un appiglio grafico abbastanza efficace che può, plausibilmente, portarci in una direzione totalmente differente da quella sostenuta dal recensore avventato. Una direzione in cui scopriamo che il comportamento di Yuki, che normalmente definiremmo “delirante”(proprio come fa la maestra), non è così differente da una serie di azioni che anche noi lettori compiamo quotidianamente. Cerchiamo di spiegare questo punto. All’interno della storia possiamo trovare diversi modi in cui i mostri possono essere individuati dal lettore. Uno di questi è l’uso di vignette in cui non viene esplicitato chi stia parlando e in cui le frasi enunciate sono stilisticamente affini a quelle che solitamente vengono dette da Yuki12. La strategia preponderante per rappresentare i mostri, però, è quella grafica. Osservando bene i disegni, infatti, è possibile notare delle linee che richiamano dei volti in specifici oggetti naturali come fiori, foglie o gocce di pioggia. Che un simile artificio grafico serva a rappresentare la presenza dei mostri è chiaramente esplicitato già dalle prime pagine dell’opera. Già nelle pagine 10, 11 e 12 possiamo infatti notare una scena in cui Yuki, inizialmente preoccupato per la scomparsa dei suoi amici, dà loro il buongiorno dopo aver visto un volto in una delle gocce di pioggia. È chiaro quindi che i mostri si possano trovare osservando attentamente queste scene.
Ora potremmo farci una domanda particolarmente sofisticata dal punto di vista semiotico. La risposta a questa domanda, però, potrebbe portarci verso una strada interessante, essenziale per comprendere adeguatamente l’opera. Chiediamoci infatti se le linee che vediamo all’interno del disegno (e che solitamente associamo ai mostri) valgano o meno come simboli per il lettore. Detta in modo più semplice, possiamo notare come spesso all’interno di un fumetto vi siano degli elementi del disegno che non sono realmente parte dell’evento descritto. I baloons sono un esempio evidente per spiegare ciò di cui stiamo parlando. Per il lettore che sta approcciando la storia, le vignette sono una componente grafica della tavola (stesso discorso per le lettere al loro interno), ma a nessuno verrebbe mai in mente di pensare che queste facciano realmente parte della storia. Nessun personaggio, all’interno del mondo descritto dalla storia a fumetti, ha realmente intorno a sé un’enorme nuvoletta con delle lettere all’interno13. Discorso identico per le onomatopee. Entrambi sono strumenti grafici a cui i lettori danno un valore simbolico, per rappresentare altro nella storia (ad esempio voci, pensieri o suoni). Quello che ci stiamo chiedendo è se i volti che Matsumoto rappresenta all’interno dell’opera servano solo a individuare la presenza dei mostri per il lettore (un po’ come un’onomatopea rappresenta un suono), oppure se sia ciò che effetivamente Yuki e altri bambini percepiscono nella storia. La posizione che sosteniamo in questo articolo è la seconda. Ciò che noi lettori vediamo quando leggiamo il manga è anche ciò che viene percepito da Yuki. Come emergerà più avanti nell’articolo, questa è la posizione che ci sembra più plausibile in quanto la più coerente con le tematiche e la narrazione dell’opera. La ragione per prendere la posizione opposta è che, all’interno di GoGo Monster, viene ribadito anche da Yuki che i mostri sono invisibili. Siamo tornati al punto di partenza però, quindi dovremmo capire meglio cosa si intende per “invisibile” e cosa per “visibile”.
Vedere mostri, nel quotidiano
Quando diciamo di vedere qualcosa ci riferiamo a una gamma molto ampia di significati, metaforici o meno. Possiamo dire infatti di vedere quello che sta succedendo, poiché comprendiamo ciò che sta accadendo, così come possiamo vedere dove un nostro conoscente andrà a finire, se continuerà a uscire con certe compagnie. Quello che ci interessa, in questo caso, è il significato più semplice e diretto (il meno metaforico potremmo dire), cioè quello percettivo. Noi vediamo colori, tavoli, piante e persone, nel senso che abbiamo una particolare funzione cognitiva che ci permette di ricevere informazioni dall’esterno secondo un certo formato, cioè quello visivo. Fin qua il discorso è banale. Ciò che potremmo osservare, però, è che nella gamma degli oggetti che diciamo di percepire visivamente esistono delle profonde differenze. Di fatto, non diciamo solo di vedere colori, tavoli o persone, durante la nostra esperienza percettiva ma anche forme e strutture14. Per rendere le cose più concrete, si consideri il seguente esempio. Ci troviamo di fronte a una delle illusioni di Jastrow, una delle classiche illusioni ottiche che spesso ci vengono presentate già durante la nostra infanzia. Osservando l’immagine notiamo subito una lepre. Questo però non basta: chi ci ha presentato l’illusione ottica ci dice di osservare attentamente, poiché vi è un’altra figura nascosta nell’immagine. Noi, confusi, iniziamo a osservarla più attentamente, la esploriamo cercando di capire quale sia l’altra figura di cui sta parlando. Improvvisamente abbiamo una risposta: oltre a una lepre, nella stessa immagine possiamo vedere anche un’anatra.
Di fatto, prima vi era qualcosa che non vedevamo, ora lo vediamo. Se non troviamo questa specifica illusione convincente poiché estremamente inflazionata, non è importante. Possiamo infatti notare che casi simili possono essere ritrovati continuamente nella nostra vita quotidiana. A chiunque è capitato sicuramente di notare che le parti frontali o posteriori di un’automobile sembrano richiamare dei volti15; allo stesso modo è alquanto raro che qualcuno non abbia mai notato che le nuvole hanno spesso forme che ci sono familiari. Noi in questi casi vediamo più cose. Se un cumulo di nubi ci ricorda un cagnolino, noi vediamo sicuramente le nuvole con tutte le loro caratteristiche, ma vediamo anche un cane. Magari ciò che notiamo è molto lontano da un cane come lo conosciamo normalmente: un cagnolino di nuvole non ha ossa, né muscoli, né cervello. Un cane di nubi non può abbaiare né, tantomeno, uscire per una passeggiata. Rimane il fatto che, in questi casi, noi interpretiamo delle informazioni visive in qualche modo e questo ci rende in grado di vedere un cane che, fino a un secondo prima, non riuscivamo a vedere. In qualche modo la nostra immaginazione “si infiltra” nella nostra percezione e ci permette di interpretare certe informazioni in modo nuovo. Pensandoci attentamente, questo fenomeno avviene continuamente quando ci approcciamo alle immagini. Quando vediamo un bel ritratto, ci sembra normale parlarne come se questo fosse una persona: possiamo parlare della pelle di chi è rappresentato, dei suoi capelli o del vestito. Concretamente, non esiste alcuna pelle di fronte a noi, non ci sono capelli e nemmeno un vestito. Se non avessimo alcuna capacità di interpretare le immagini, ci sembrerebbe un delirio collettivo andare a una mostra d’arte e sentire altre persone parlare dell’enfasi di una battaglia o della grazia di un cherubino di fronte a tele macchiate di colore. Questo però non succede.
come se ci trovassimo di fronte a un conflitto.
immaginazione spontanea16 particolarmente fervida possa vedere in modo più vivido certe forme all’interno della propria percezione. Semplicemente, l’immaginazione di Yuki gli permette di cogliere una serie di immagini e strutture che noi non riusciamo a cogliere, per motivi legati alle nostre capacità immaginative. L’idea fondamentale all’interno della storia è che vi sia una differenza di sensibilità percettiva tra Yuki e gli altri personaggi17. Proprio come gli altri bambini, anche noi lettori potremmo trovarci nella situazione di non vedere le stesse cose che Yuki vede.
18.
Un’interpretazione simile risulta ancora più plausibile se la confrontiamo con il dialogo tra Gantsu e Makoto nelle pagine da 155 a 159. Qui viene esplicitamente detto dal guardiano che non è la prima volta che incontra un bambino come Yuki, sensibile a ciò che non si vede e non si sente.
Inverno, parte criptica e densa che costituisce il capitolo più lungo dell’opera. Ciò che sosterremo nella prossima sezione è che, al fine di comprendere meglio quel capitolo, sarà necessario connettere la spiegazione sulle immagini che abbiamo appena esposto con una nozione ancora più generale.
Dalle immagini al gioco
Le immagini hanno un ruolo fondamentale nella nostra vita. Possiamo veramente dire che, specialmente nella società contemporanea, siamo costantemente ricoperti da un telo di immagini. Banalmente, basti pensare che anche chi leggerà questo articolo dovrà per forza interagire con immagini che vengono proiettate da uno schermo (che sia da smartphone o da pc).
GoGo Monster si fa un riferimento a un mondo parallelo in cui Yuki è immerso. Finora abbiamo analizzato solo questa funzione delle immagini. Questa loro caratterizzazione è, però, in qualche modo superficiale. Le immagini non hanno solo un ruolo informativo. Certamente, tramite le immagini possiamo avere informazioni su altre zone del mondo
reale, come succede guardando un telegiornale. Oppure le immagini possono darci consapevolezza di cose che nessuno avrebbe mai esperito nel nostro quotidiano, come succede quando queste vengono usate nei modelli scientifici, oppure nel cinema o in pittura. Ma questo non è sufficiente. Ciò che sfugge a una caratterizzazione puramente conoscitiva delle immagini è che queste esercitano un potere nei nostri confronti. Vedere certe immagini ci fa piangere o ridere, ci porta a fare certe scelte invece che altre. Le immagini di un trailer hanno un effetto psicologico su di noi, spingendoci ad andare al cinema. Quelle che vediamo durante la lettura di un fumetto possono farci ridere, oppure straziarci. Pensandoci qualche minuto, è abbastanza assurdo che una rappresentazione di qualcosa che è irreale abbia un effetto così sconvolgente sul nostro animo.
GoGo Monster. Come abbiamo già puntualizzato, gli amici mostruosi di Yuki sono immagini che il bambino vede in modo molto vivido. Questa vividezza dipende dal fatto che gli oggetti forniscono certi insights su cui Yuki riesce a costruire usando la propria immaginazione.
quale sia il ruolo che i mostri hanno all’interno della vita del bambino. In altre parole, che potere i mostri esercitino su Tachibana. Dopotutto, è proprio perché Yuki non fa altro che parlare dei suoi amici che gli altri compagni di classe lo schivano, bollandolo come bizzarro. Per comprendere meglio questo punto, è necessario richiamarsi a certe posizioni in estetica che vedono il concetto di immagine come strettamente legato a quello di gioco19. Secondo queste prospettive i giochi sono una componente fondamentale delle nostre vite, sia durante l’infanzia che nell’età adulta. Quando siamo piccoli i giochi occupano una parte consistente delle nostre giornate. Giocando noi ci immedesimiamo, in qualche modo, in una particolare situazione che non staremmo vivendo realmente. Da bambini possiamo fare finta che un masso sia un drago, mentre il ramoscello che abbiamo raccolto è una spada lucente. In quel particolare contesto noi facciamo finta di essere realmente nel mezzo di un conflitto con una creatura mitica, almeno durante la durata del gioco.
20. Capiamo quindi come le immagini abbiano spesso un ruolo fondamentale per i giochi. Uno scrittore particolarmente evocativo ci porta più facilmente all’interno del suo mondo. Se i bambini di cui parlavamo prima scelgono di combattere un masso che ricorda un drago anche nella forma, è chiaro che l’immedesimazione nel gioco sarà maggiore. Ciò che stiamo dicendo non è che i giochi richiedono sempre delle immagini per immedesimarsi (si pensi a sport come il tennis), ma che le immagini possono avere un ruolo importantissimo in questo. Proprio come la nostra vita è immersa nelle immagini, allo stesso modo potremmo definirla come un’intersezione di giochi a cui spesso partecipiamo senza esserne realmente consapevoli. Data questa interpretazione, diventa facile comprendere in che senso le immagini esercitino un potere nei nostri confronti. Quando guardiamo un film, per esempio, le immagini che vediamo ci fanno commuovere perché in qualche modo partecipiamo al gioco che è implicito nel film. Allo stesso modo, potremmo dire che un’icona sacra può commuovere un credente perché ha un aspetto rilevante nel gioco di essere credente. Non è strano che certe immagini di guerra strazino certe persone mentre lasciano totalmente indifferenti altri; questo dipende dalla loro capacità di partecipare a un gioco (seppur straziante) in cui si immedesimano nelle vittime. Quest’ultimo esempio serve a dire che il concetto di gioco non è qualcosa che dovrebbe essere relegato all’intrattenimento (come invece il nostro modo comune di pensare ci suggerisce). “Giocare” a immedesimarsi nelle vittime di un conflitto è tutto meno che qualcosa che riguarda l’intrattenimento o il divertimento.
Partecipazione sociale: “Grazie al contenuto simbolico delle forme ludiche d’interazione e comunicazione e, soprattutto, grazie ai processi performativi d’interazione e generazione di significato le comunità si costituiscono, si trasformano e garantiscono la loro stabilità nel gioco. Causa originaria, processo ed effetto dell’emergere di azioni ludiche, le comunità non si distinguono tra loro soltanto per mezzo del sapere simbolico condiviso collettivamente, ma anche per mezzo delle forme d’interazione e comunicazione ludiche nelle quali e con le quali i membri delle comunità mettono in scena il loro sapere. Queste messe in scena rispondono al tentativo di auto-rappresentare e riprodurre l’ordine sociale, di generare sapere simbolico condiviso e soprattutto di dischiudere spazi d’interazione e campi di azione drammatica per i membri della comunità. I giochi generano comunità in senso emozionale, simbolico e performativo: sono campi d’azione scenici e performativi, nei quali i partecipanti al gioco armonizzano reciprocamente i rispettivi mondi percettivi e i loro universi di rappresentazione […].”21
Superamento delle crisi: “I giochi consentono alle comunità di gestire in maniera produttiva esperienze di differenza e situazioni di crisi. Nel corso del gioco i membri della comunità sono in grado di elaborare esperienze d’integrazione e/o di segregazione. I giochi possono dunque contribuire al raggiungimento di un accordo comunicativo circa una situazione nuova, avvertita come una minaccia e che mette in crisi la quotidianità.”22
Comprensione della realtà: “Situazioni che nella vita reale non si lasciano completamente dominare e controllare possono essere messa in scena e “testate” nei giochi, […]. I giochi, perciò, possono essere considerati come arrangiamenti in grado di ridurre la complessità del reale e grazie ai quali gli individui entrano in rapporto a un “altro”, a un “esterno”: stabiliscono linee di demarcazione, oltrepassano distanze e sviluppano la credenza che le forze performative e mimetiche che si sviluppano nel gioco non solo operino verso l’interno, ma anche verso l’esterno e siano perciò in grado di esercitare un influsso sulla “realtà”. Quando gioca, l’uomo si trasforma in un “altro”. Questa trasformazione, da un lato, è catalizzata dalla componente simbolica del gioco, che rinnova e modifica ’esperienza traslandola sul piano dei significati sacrali; dall’altro, è resa possibile e incentivata dall’azione performativa in comune, che genera nuova realtà.”23
Possiamo quindi capire come i giochi abbiano un ruolo essenziale per compiere particolari azioni della nostra vita. Arrivati a questo punto, possiamo provare ad applicare queste nozioni a GoGo Monster. Risponderemo, con ordine, a due domande: quale sono le regole del gioco di Yuki? Quale sono le funzioni che questo gioco ha per la vita del bambino?
bastone d’argento, oppure di aiutare Chance nei suoi dispetti. In questo modo il rapporto tra Yuki e i mostri non è solo di incoraggiamento, ma di vera e propria partecipazione. Compiendo le azioni richieste dai suoi amici, Yuki diventa parte, seppur simbolicamente, del gruppo di Superstar. In questo modo possiamo spiegare anche l’interesse di Yuki per il giardinaggio. Come viene più volte esplicitato dal bambino, la fioritura e fenomeni affini sono eventi causati da Superstar. È naturale, quindi, che Yuki trovi piacere ad accudire il giardino, punto di contatto tra lui e il mondo invisibile. In totale contrasto esistono dei mostri “cattivi” che devono essere eliminati e vengono combattuti da Superstar e soci. Partecipando con le sue azioni, in qualche modo anche Yuki può aiutare i suoi amici a vincere sui cattivi.
L’ipotesi che il gioco di Yuki abbia una natura comunicativa e cooperativa sembra essere confermata anche da IQ. Nelle stesse pagine in cui viene spiegata al protagonista la natura dei mostri, viene azzardata anche una spiegazione di queste apparizioni. Secondo IQ i mostri sono delle proiezioni immaginative che nascono dal bisogno di Yuki di socializzare con gli altri, mentre i mostri cattivi rappresentano la sua parte asociale, che si distanzia dai compagni. Vediamo che dietro a questa spiegazione è sottintesa una risposta alla seconda domanda che ci siamo posti. Secondo IQ, quindi, i mostri nascono da un desiderio alla socializzazione che affiora in Yuki, senza però che lui riesca a sfogarlo. Se è così, possiamo capire come le azioni di Yuki rispecchino le tre funzioni che abbiamo individuato. Il gioco di Yuki è un gioco solitario. È comunque interessante notare, però, come il bambino leghi con Makoto e Gantsu proprio quando loro cercano di comprendere le regole del suo gioco. Gantsu non si rivela mai dubbioso sulla natura dei mostri, oppure sul fatto che Yuki stia mentendo o meno su ciò che vede. Al contrario, è proprio il vecchio a suggerire al protagonista dei luoghi dove “loro” potrebbero essersi nascosti. Allo stesso modo, Makoto lega in modo unico con il suo compagno di banco quando inizia a interessarsi a ciò che dice sui mostri. Sono Gantsu e Makoto a entrare un poco alla volta nello “spazio di gioco” di Yuki. Ma è innegabile che sia proprio tramite questo gioco che i due stringono un rapporto di amicizia con il protagonista. Infine, è chiaro che lo scontro tra i mostri buoni e i mostri cattivi rappresenti un modo usato da Yuki per comprendere meglio il mondo che lo circonda.
GoGo Monster inizia con l’arrivo di nuovi alunni che causano uno squilibrio nell’ambiente scolastico. Dopo il loro arrivo, il numero dei vetri che vengono rotti aumenta, così come aumentano i casi di bullismo ed emarginazione all’interno della scuola. Questo conflitto, che ha una natura sociale molto complessa, viene metaforizzato in modo molto più semplice come una lotta tra mostri buoni e mostri cattivi. Non è un caso che Yuki attribuisca ai cattivi la responsabilità dei danni che la scuola subisce. È proprio in relazione a quest’ultimo punto che la figura di IQ diventa particolarmente affascinante da esaminare. Come Yuki, anche lui viene emarginato dagli altri poiché diverso, seppur questo dipenda da una spiccata intelligenza. A differenza di Yuki, questa spaccatura viene metabolizzata da IQ come una forma di superiorità sociale, che lo fa ergere sopra tutti gli altri. Basti pensare che il personaggio passa buona parte del suo tempo in una conigliera, nella quale proietta un parallelismo simbolico tra i conigli e i suoi compagni di scuola. Dal suo punto di vista, il rapporto tra lui e gli altri alunni è come quello che ha con dei conigli; creature tenere, ma intellettualmente inferiori. Nonostante questo, ha un coniglio preferito che chiama, in modo indicativo, Yuki. IQ percepisce un’affinità tra lui e il protagonista, per questo prova più volte a interagire con lui.
Inverno/Conclusione
Arrivati a questo punto, diventa molto più facile comprendere il capitolo più corposo dell’opera, cioè Inverno. Nelle (poche) analisi che si trovano a riguardo, di solito questo capitolo viene descritto come onirico, metafisico o lynchiano. Stiamo parlando di aggettivi adeguati, specialmente se ci riferiamo alla componente “visiva” delle scene rappresentate. Questo appello a qualcosa di assurdo o ineffabile non dovrebbe però impedirci di comprendere cosa stia succedendo, a vari livelli, nella storia. Il capitolo inizia dopo l’avvicinamento di Tachibana ad IQ. Questo avvicinamento è dovuto al senso di angoscia che Yuki inizia a provare notando che, gradualmente, i suoi amici mostruosi non si stanno più manifestando. Per questo motivo il bambino decide di entrare in relazione con IQ che, in modo aridamente razionale, riesce a dargli una spiegazione solida dei suoi cambiamenti. Questo senso di angoscia è simboleggiato in modo evidente dalle metafore mortifere che Yuki usa durante tutta l’opera. Il fatto di “non poter più vedere Superstar e gli altri” equivale a un cambiamento corporeo: il cervello si indurisce come pietra e il corpo inizia a decomporsi. In questa situazione, Yuki trova un contatto con l’unica persona che riesce a spiegargli i suoi cambiamenti. Di fronte a questa angoscia, diventa anche facile comprendere perché Yuki decida di rifugiarsi con IQ al quarto piano della scuola. Rifugiarsi, nascondere e scappare sono visti come un modo di fermare questa decomposizione parziale; questo è possibile solo abbandonandosi totalmente alla propria immaginazione. Chiaramente questa è un’occasione anche per IQ, che finalmente può trovare qualcuno con cui condividere la propria “scatola”.
Inverno ed è difficile discriminare i due piani. Ciò che è importante, però, è comprendere i motivi per cui il gioco tra Yuki e IQ viene rotto. Perché, in altre parole, i due escono dal quarto piano che, anche nella mappa iniziale, era descritto come una tana delle creature invisibili. La questione può essere compresa facilmente riprendendo tutti i punti che avevamo già discusso. Yuki si costruisce un ambiente immaginario che ha una funzione compensativa: i mostri rappresentano, in qualche modo, il suo desiderio di partecipare comunicativamente con altri individui. Poiché l’ambiente a cui il bambino è abituato (e che vede come positivo) è quello, è facile capire come possa sentirsi angosciato dalla sua perdita. Questa perdita di immaginazione dipende proprio dal fatto che Yuki stia legando con Makoto, e che quindi non abbia più bisogno di strumenti compensativi. Yuki però non comprende questa cosa, almeno fino al finale, in cui vede Makoto cercarlo all’interno del quarto piano. Yuki decide volontariamente di uscire dal mondo dei mostri perché si rende conto che esiste un ambiente che lui trova molto più importante. Come avevamo già accennato, questo punto non deve essere interpretato mettendo in contrapposizione realtà e fantasia.
Nella sua scelta di uscire dal quarto piano Makoto non “rigetta simbolicamente” la fantasia per “entrare nella realtà”. Semplicemente capisce che il gioco dei mostri è un gioco che può anche non essere più giocato. L’idea è sottile e si riallaccia all’articolo su Ping Pong pubblicato su Terre Illustrate. Matsumoto non sembra suggerire un primato tra varie dimensioni quanto, piuttosto, il fatto che nella nostra vita ci ritroviamo continuamente a giocare. Giocare ci serve a comunicare, a stringere rapporti, a capire meglio il mondo. Però, allo stesso modo, un gioco non deve essere qualcosa che va mantenuto se smette di svolgere la sua funzione, oppure se non riesce più a soddisfarci. Abbastanza indicativo, infatti, che le ultime pagine dell’opera siano dedicate a descrivere una scena in cui Yuki è ancora intento a giocare (questa volta in bicicletta), ma insieme a Makoto. In linea con la sua opera precedente, anche qua Matsumoto sembra suggerire una visione del gioco come una cassetta degli attrezzi fondamentale nella nostra vita, ma i cui pezzi possono essere tranquillamente gettati una volta che non ne abbiamo più bisogno.
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Bibliografia
Huizinga J. 2002. Homo Ludens. Einaudi.
Furuya U. 2019. La musica di Marie. Coconino Press.
Kago S. 2014. Uno scontro accidentale sulla strada per andare a casa può portare a un bacio?. Hikari Edizioni.
Matsumoto T. 2000. GoGo Monster. J-POP Edizioni.
McCloud S. 1994. Understanding Comics: the invisible art. HarperPerennial.
Walton K. 1990. Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts. Harvard University Press.
Wittgenstein L. 2017. Ricerche filosofiche. Einaudi.
Wulf C. 2018. Homo imaginationis. Le radici estetiche dell’antropologia storico-culturale. Mimesis.
Sitografia
Tutti i siti sono stati visitati l’ultima volta in data 05/05/2024
https://dellecosenascoste.wixsite.com/home/post/ping-pong-the-animation-desiderio-e-crescita-nella-relazione-di-maestria
https://www.du9.org/en/entretien/matsumoto-taiyou/
https://terreillustrate.blogspot.com/2021/10/ping-pong-di-matsumoto-taiyo-arte.html
Note
https://www.du9.org/en/entretien/matsumoto-taiyou/ ↩︎
Si pensi a Ping Pong o a I Gatti del Louvre, in cui i momenti concettualmente più profondi si legano al culmine del climax narrativo e alla sperimentazione stilistica. Oppure si pensi alla varietà tematica di Sunny, rispecchiata dalla natura frammentaria ed episodica della narrazione. ↩︎
In Ping Pong il rapporto tra Peko e Smile può essere interpretato dal punto di vista estetico, come nell’articolo pubblicato su Terre Illustrate, ma anche da quello della crescita tramite la mimesi, come è stato esposto in https://dellecosenascoste.wixsite.com/home/post/ping-pong-the-animation-desiderio-e-crescita-nella-relazione-di-maestria. ↩︎
Anche questa, in realtà, può essere vista come una conseguenza della diversa modalità di pubblicazione. ↩︎
Già solo in Italia, basti pensare alla produzione accademica sulle immagini di Andrea Pinotti.
↩︎
Cfr. pag. 11 in cui vi è una prima presentazione di questo fenomeno. ↩︎
Come abbiamo già ricordato, una simile interpretazione non pare nemmeno plausibile. Lo stesso Matsumoto afferma di essere tornato una quantità innumerevole di volte sull’opera per rifinirla; credere che un elemento cardine della narrazione non sia esplicitato per via di una svista è un’interpretazione ingenua. ↩︎
Cioè considerandoli all’interno delle regole del mondo di GoGo Monster, senza interpretarli come simboli, metafore o altri artifici metanarrativi. ↩︎
Pag. 186 ↩︎
Pag. 202 ↩︎
Dopotutto, anche Gantsu non sembra convinto dell’affermazione della maestra sullo stato psicologico di Yuki, pag. 202. ↩︎
A esempio, pag. -3 ↩︎
Shintaro Kago sfrutta in modo brillante questa ambiguità tra rappresentazione effettiva e simbolo in un divertente racconto della raccolta Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio?. ↩︎
Cfr. Wittgenstein. 2017. ↩︎
Questo punto viene osservato in modo abbastanza divertente anche in McCloud. 1994. ↩︎
Cfr. Walton. 1990. ↩︎
L’idea che esistano differenze percettive tra singoli individui è un’idea che, nell’articolo su Ping Pong, è emersa in relazione al concetto di competenza motoria. In questo caso sembra che il fenomeno sia invece legato alle capacità immaginative di chi percepisce. Non ho mai riflettuto troppo su questo tema, ma è plausibile pensare che anche altre opere di Matsumoto approfondiscano questo punto. ↩︎
Un confronto interessante sarebbe con la geniale opera La musica di Marie di Furuya Usumaru. In quel caso il tema della differenza percettiva viene messo a confronto con l’esperienza religiosa e l’opera, in modo non così dissimile da GoGo Monster, termina con un’interrogazione conclusiva sul ruolo delle finzioni nella nsotra vita. L’uso di un sarcasmo pungente da parte di Furuya è sicuramente un modo di narrare differente da quello di Matsumoto, ma proprio questa differenza potrebbe portare a una comparazione fruttuosa. ↩︎
Un punto di riferimento sarà Walton. 1993. ↩︎
Chiaramente qui stiamo facendo esempi abbastanza banali. Alcuni autori sostengono che anche una aprte delle nostre pratiche sociali, come fare la guerra, siano interpretabili a partire dalla nozione di gioco. Si veda Huizinga. 2002. ↩︎
Wulf. 2018. p. 171. ↩︎
Wulf. 2018. p. 172. ↩︎
Wulf. 2018. pp. 172-173 ↩︎
Hard boiled, ma con un cuore d'oro - Il Lupin III di Hayao Miyazaki pt. 1 di 3
L’autore dell’articolo desidera ringraziare Mario Pasqualini per l’aiuto con la traduzione delle fonti in giapponese usate e Mario A. Rumor per l’aiuto nel reperimento di una di queste.
Per la maggior parte dei titoli in italiano degli episodi, delle serie e dei film menzionati in questo articolo si è scelto di usare una traduzione più fedele ai titoli giapponesi. Queste traduzioni sono state realizzate dall’autore dell’articolo o da Mario Pasqualini. Ciascuno di questi titoli sarà contrassegnato da una nota riportante il titolo giapponese originale e i titoli usati negli adattamenti ufficiali italiani.
Un ringraziamento anche a tutte le persone che hanno letto questo articolo in anteprima e mi hanno aiutato con i loro feedback.
Introduzione
Gli anni ‘70 sono stati per Lupin III un decennio importante. È in quegli anni, infatti, che il personaggio creato da Monkey Punch fa il passaggio dalla carta stampata all’animazione, dando il via a una lunga serie di adattamenti per il cinema e per la televisione che prosegue ancora oggi e che lo hanno reso un caposaldo della cultura popolare giapponese. Nel corso di questo processo, Lupin III si è reso indipendente dal materiale originale, cambiando, evolvendo e trasformandosi in base al gusto, allo stile e alle esigenza di ciascuno degli artisti che si sono avvicendati al timone delle sue avventure animate (e cartacee). Tra questi artisti spicca sicuramente il nome di Hayao Miyazaki, futuro fondatore e regista di punta dello Studio Ghibli, che proprio negli anni ‘70 ha diretto diverse opere aventi per protagonista Lupin III, lasciando sul personaggio e sulla sua storia un’impronta ormai indelebile. Lo scopo di questa serie di articoli sarà proprio quella di tracciare i contorni di quello che si potrebbe definire “il Lupin III di Hayao Miyazaki”, ricostruendo la storia e i dietro le quinte del suo coinvolgimento nel franchise e analizzando ciascuna delle opere che portano la sua firma. Il primo articolo si occuperà della prima serie, Lupin III Part 1 (1971-1972) (colloquialmente soprannominata dai fan “giacca verde”), di cui Miyazaki ha diretto, insieme a Isao Takahata, la seconda metà. Il secondo articolo sarà invece incentrato su Lupin III - Il castello di Cagliostro (1979), secondo lungometraggio animato del franchise nonché primo film della carriera da regista di Miyazaki. Infine, nel terzo e ultimo articolo sarà la volta degli episodi 145 e 155 della seconda serie di Lupin III, Lupin III Part 2 (1977-1980) (“giacca rossa”), gli unici da lui diretti, che hanno segnato la fine del coinvolgimento di Miyazaki.
L’uscita dalla Toei
Alla fine degli anni ‘60 Hayao Miyazaki era ancora un animatore Toei Dōga (futura Toei Animation), studio d’animazione in cui aveva esordito nel 1963. In quel periodo, Toei era nel pieno di un processo di razionalizzazione delle proprie risorse: molti degli animatori della vecchia guardia assunti a tempo pieno stavano venendo “invitati” a dimettersi1 e lo studio iniziava a concentrarsi sempre più sulla produzione di serie animate per la televisione2. Fu questo il clima che spinse Yasuo Ōtsuka, veterano della Toei Dōga nonché mentore di Miyazaki, a lasciare lo studio nel Dicembre 1968, dopo il completamento delle animazioni del film Il gatto con gli stivali (1969), per passare allo studio A Production, dove Daikichirō Kusube, fondatore dello studio nonché ex-animatore della Toei Dōga, lo aveva invitato3 a lavorare come animatore al Pilot Film di Lupin III2 che stava venendo prodotto per conto della casa di produzione Tōkyō Movie (futura TMS) sotto la regia di Masaaki Ōsumi. Questo cortometraggio di poco più di una decina di minuti fu realizzato con lo scopo di attirare l’interesse dei finanziatori per produrre un lungometraggio per il cinema tratto dal popolare manga di Monkey Punch. Il progetto fu percepito però come troppo rischioso e finì in stallo4. Ōsumi e Ōtsuka vennero quindi assegnati alla produzione della serie animata dei Mumin4, i personaggi creati dall’autrice finlandese Tove Jansson, che iniziò la messa in onda a partire dall’Ottobre del 19695.Secondo lo stesso Ōtsuka6, questa serie attirò l’attenzione di Miyazaki e Isao Takahata, che nel frattempo avevano già lasciato Toei, e li spinse, insieme all’animatore Yōichi Kotabe, a trasferirsi in A Production, dove nel 1971 tenteranno di realizzare un’altra serie animata ispirata a un classico della letteratura per l’infanzia occidentale: Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren. Il progetto non ottenne però l’approvazione dell’autrice e non vide mai la luce.
La prima serie di Lupin III e l’arrivo di Miyazaki e Takahata
Nel 1971 il progetto dell’adattamento animato di Lupin III si concretizzò in una serie per la televisione7. Ōsumi mantenne la sua posizione di regista mentre Ōtsuka venne promosso a character designer e direttore delle animazioni. I due decisero di mettersi al lavoro con l’intenzione di realizzare un tipo di animazione per adulti come non si era mai visto prima in televisione7. Ōtsuka diede seguito a questa intenzione concentrandosi sul realismo degli oggetti di scena: le armi e i veicoli non dovevano avere un aspetto generico, poco definito, ma dovevano sempre rifarsi ad armi e veicoli realmente esistenti8. Ōsumi si concentrò invece su altri aspetti, principalmente quelli legati alla regia e alla caratterizzazione dei personaggi: le atmosfere, per esempio, dovevano comunicare una certa noia esistenziale9 e il suo Lupin essere attraversato dall’apatia tipica di una persona ricca che si trova senza obiettivi e con troppo tempo tra le proprie mani10. Questo atteggiamento si rifletteva anche nelle pose che Ōtsuka chiese ai suoi animatori11: Lupin e Jigen dovevano essere personaggi scomposti, spesso allungati sul divano, con le spalle perennemente rilassate e mai con la schiena dritta, l’esatto contrario delle pose composte ed energetiche dei personaggi di Tommy La stella dei Giants a cui lavorarono fino a pochi mesi prima. A questa caratterizzazione per i personaggi si aggiunsero tutta una serie di influenze dal cinema live action, soprattutto dai film western o di Yakuza, che saranno ben evidenti nel corso della serie.
La serie esordì il 24 Ottobre 1971 su Yomiuri TV, ma il tanto ambizioso progetto di Ōsumi, Ōtsuka e del loro staff non andò incontro ai favori del pubblico: sin da subito gli ascolti furono infatti tremendamente bassi e arrivarono a toccare perfino il 4% di share12. In seguito alla trasmissione dei primi episodi vennero quindi indette diverse riunioni con lo staff e i produttori. Lo sponsor, il produttore di caramelle Asada, diede tutta la colpa del fallimento alla decisione di realizzare un cartone animato per adulti. L’azienda era fermamente convinta che l’animazione dovesse rivolgersi ai bambini e per questo fece promettere allo staff di adeguarsi a questo target eliminando gli elementi fuori luogo come, per esempio, quelli erotici12.Ōsumi si ritrovò una considerevole pressione addosso e, trovatosi alle strette, non sentì di poter far altro che dimettersi13. Per sostituirlo Kusube decise di affidare la regia della serie a Miyazaki e Takahata che, titubanti, accettarono unicamente perché lo studio non aveva altre alternative14. I due decisero quindi di prendere le redini della serie firmandosi con lo pseudonimo Gruppo dei registi A Production.
Lupin III - La prima serie
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La coppia si approcciò alla serie con delle idee precise, in parte opposte a quelle di Ōsumi, che Miyazaki, nonostante l’anonimato iniziale, diversi anni dopo ha esposto pubblicamente in più di un’occasione151617. Contrario al mantenere l’apatia dei primi episodi che era, secondo lui, un riflesso della società dei primi anni ‘70, Miyazaki desiderava portare nella serie quello spirito entusiasta e affamato di nuove esperienze che caratterizzava il Giappone della crescita economica della fine degli anni ‘60 e lo stesso manga originale di Monkey Punch. Non più un ricco annoiato che metteva in dubbio la propria esistenza, nella sua interpretazione Lupin III era un personaggio che non aveva mai conosciuto la ricchezza accumulata e sperperata dal suo illustre antenato, una figura spensierata e ottimista, incapace di rimanere ferma e sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo ed eccitante da fare. Jun’ichi Iioka, responsabile del dipartimento di sceneggiatura della serie, riporta che a sua volta Takahata avrebbe espresso durante le riunioni con lo staff l’intenzione di rendere Lupin III un personaggio più eroico e di alleggerire le atmosfere della serie introducendo diverse gag e scene slapstick18. Per le trame degli episodi Takahata guardava a dei modelli letterari19, alle storie scritte da Maurice Leblanc con protagonista Arsène Lupin, l’originale ladro gentiluomo, e a quelle scritte da Edogawa Ranpo con protagonisti il detective Akechi Kogorō (che era anche apparso in alcuni capitoli del manga originale e nel Pilot Film) e la sua nemesi, l’astuto ladro soprannominato “L’uomo misterioso dalle venti facce”. Nei primi episodi diretti da Ōsumi i furti erano un elemento secondario, se non spesso proprio assente: il suo Lupin III era prima di tutto una celebrità del sottobosco criminale e solo secondariamente un ladro professionista. Al contrario, Takahata aveva l’intenzione di riavvicinare Lupin al mestiere di ladro dando maggiore spazio ai furti, ai piani ingegnosi e strampalati con cui li portava a termine e alle sfide tra lui e Zenigata, che così sarebbe apparso molto di più di quanto sarebbe dovuto apparire se fosse rimasto Ōsumi al timone19. Con queste direzioni in mente, Miyazaki e Takahata rivoluzionarono la prima serie di Lupin III, donandole una seconda anima che, affiancandosi a quella di Ōsumi, la rese un lavoro unico e irripetibile.
Il passaggio dalla visione artistica di Ōsumi a quella di Miyazaki e Takahata non avvenne in maniera drastica ma fu graduale e non privo di problemi. Il primo cambiamento visibile della serie riguardò l’introduzione di una nuova sigla d’apertura a partire dall’episodio 4. La nuova sigla consisteva in un montaggio di scene dell’anime e del Pilot Film accompagnato da un breve monologo con cui Yasuo Yamada, doppiatore del personaggio di Lupin III, introduceva la serie e i suoi protagonisti. L’utilizzo di animazioni riciclate lascia supporre che si trattasse probabilmente di un cambiamento dell’ultimo minuto dovuto a quanto stava avvenendo dietro le quinte della serie. Infatti, prima ancora che Takahata esprimesse questa intenzione, a insistere che venisse reso più chiaro che Lupin III fosse un ladro e non un semplice criminale fu la stessa Yomiuri TV20. Il cambiamento della sigla di apertura segnò inoltre la scomparsa del nome di Ōsumi dai crediti: fatta eccezione per l’episodio 9, tutti gli episodi dal 4 al 15 non presentano infatti nessuna indicazione su chi fosse il regista della serie. Stando alle testimonianze1213, Ōsumi deve aver lasciato la produzione della serie proprio nel periodo della messa in onda degli episodi 3 e 4. Inoltre, Ōtsuka riferisce che Miyazaki e Takahata si sarebbero fatti carico di organizzare e correggere gli storyboard, un compito che prima spettava a lui e a Ōsumi, a partire dall’episodio 521. I due devono quindi essere subentrati prima della messa in onda del suddetto episodio. Ovviamente in quel momento i lavori per diversi degli episodi successivi erano in uno stato già piuttosto avanzato e lo stesso Ōtsuka22 riteneva che la regia vera e propria di Miyazaki e Takahata fosse iniziata con gli episodi 11 e 13 e che gli episodi precedenti, pur avendo subito alcune modifiche e tagli, rimanessero principalmente il frutto del lavoro di Ōsumi. Comunque, al loro arrivo Miyazaki e Takahata presero immediatamente la situazione in mano e bloccarono tutti gli storyboard e le sceneggiature degli episodi che non erano ancora stati trasformati in animazione, analizzando il materiale esistente per decidere cosa tenere, cosa cambiare e cosa scartare completamente1522. Per via di queste revisioni, i lavori di animazione incapparono in molti ritardi e Miyazaki stesso si ritrovò a dover contribuire disegnando diverse scene22 degli episodi a cui aveva lavorato Ōsumi, rendendo così ancora più difficile distinguere in maniera netta dove finisca il lavoro di quest’ultimo e dove inizi quello della coppia che lo ha sostituito.
Il cambio di direzione provocò un terremoto anche tra gli sceneggiatori. Secondo Jun’ichi Iioka19, quando Miyazaki e Takahata presero in mano la serie le sceneggiature per i primi 21 episodi erano già state completate sotto la supervisione di Ōsumi. Tutte quelle i cui lavori di animazione non erano ancora iniziati, fatta eccezione per una, furono però scartate e riscritte da zero19. Inoltre, buona parte del team iniziale di sceneggiatori decise di andarsene seguendo Ōsumi perché non interessata alla direzione che la serie avrebbe preso19. Fu Takahata a farsi quindi carico di supervisionare le nuove sceneggiature: la suddivisione dei compiti prevedeva che lui si occupasse di studiare i materiali originali e di lavorare con gli sceneggiatori alle trame degli episodi, prestando soprattutto attenzione a definire l’aspetto logico degli intrecci23. È probabilmente a questo lavoro di Takahata che si deve la presenza costante di piani e trucchi negli episodi della seconda metà della serie, elemento che si farà invece secondario per lasciare spazio all’azione e all’avventura nelle opere su Lupin III che anni dopo Miyazaki dirigerà in solitaria. Durante i lavori a questa prima serie, quest’ultimo non partecipava alle riunioni con gli sceneggiatori, ma si riuniva solo in seguito con Takahata per discutere di ciascun episodio19. Inoltre, Miyazaki collaborava con Ōtsuka alla creazione dei design dei veicoli e dei personaggi14 e, ovviamente, alla supervisione delle animazioni. Come accennato prima, l’obiettivo della nuova direzione della serie era non solo di riavvicinare Lupin III alle sue origini di ladro, ma anche quello di aumentare le gag e gli elementi slapstick per avvicinare gli spettatori più giovani18. In questo il contributo di Miyazaki agli storyboard e alle animazioni della serie fu fondamentale24.
Le avventure di Arsenio Lupin - Ladro gentiluomo di Maurice Leblanc
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La fase di transizione
Date le tempistiche descritte in precedenza, è improbabile che Miyazaki e Takahata fossero riusciti ad apportare modifiche rilevanti agli episodi 5 e 6. Discorso diverso per gli episodi immediatamente successivi che, nonostante fossero già a buon punto, subirono probabilmente alcuni tagli, aggiunte e modifiche, seppur in maniera non invasiva14. Nell’episodio 7, Lupo chiama lupo25, Lupin III è intenzionato a rubare le pergamene che contengono il segreto della spada di Goemon. L’episodio contiene diverse scene di violenza ed è in generale in linea con i precedenti di Ōsumi. Allo stesso tempo, però, la seconda metà dell’episodio vede Lupin coinvolto in due duelli che si risolvono, senza violenza, con delle gag che stemperano di molto le atmosfere, già piuttosto leggere nella prima metà. Non è possibile sapere con certezza se queste scene fossero state pensate così già sotto la supervisione di Ōsumi, anzi, viste le tempistiche, è probabile che lo fossero, ma è possibile ipotizzare che alcune di queste gag, come quella in cui uno dei samurai avversari rincorre Lupin agitando la spada, siano state ritoccate, magari allungate e animate, sotto la supervisione di Miyazaki o da Miyazaki stesso. Discorso diverso invece per l’episodio 8, Tutti riuniti nell’Operazione Carte da gioco26, al cui interno sembrano iniziare a convivere le due anime della serie. In questo episodio Lupin si impossessa di un mazzo di carte leggendario soffiandolo a un affarista senza scrupoli che, ovviamente, tenterà di tutto pur di riprenderselo. Già durante la fase di pre-produzione era stato deciso che l’episodio 8 sarebbe stato il primo a presentare la gang di Lupin al completo (da qui il titolo)27 e, per la maggior parte del minutaggio, l’episodio è in piena continuità con i precedenti, oltre che ispirato a due capitoli del manga, il 57 e il 59, di cui uno già adattato nel Pilot Film diretto dallo stesso Ōsumi. Al contrario, la prima parte dell’episodio è molto vicina al tipo di vicende che Takahata e Miyazaki avevano intenzione di mettere in scena: Lupin avvisa la sua vittima prima di compiere il furto e con una serie di trucchi riesce nei suoi intenti senza che Zenigata possa fare nulla per fermarlo. Inoltre, fino all’episodio precedente le vicende della serie si erano svolte principalmente in ambientazioni spoglie, isolate e lontane dalla società. Il furto all’inizio dell’episodio 8 si svolge invece in un contesto di vita mondana, non solo distante dai precedenti ma anche più vicino al modello letterario rappresentato dalle avventure di Arsène Lupin scritte da Maurice Leblanc. Sin dagli inizi della produzione pare che l’emittente televisivo facesse pressioni su Ōsumi affinché si concentrasse di più su questo tipo di storie20 ed è quindi molto probabile che l’idea di iniziare l’episodio in questo modo fosse già nei suoi piani. Nonostante questo, alcuni dettagli della messa in scena di questa prima parte potrebbero essere stati rimaneggiati in qualche misura da Takahata e Miyazaki. L’idea di un Lupin che si traveste da formosa signora di mezz’età o che usa un pallone gonfiabile con le fattezze di suo nonno per attuare la fuga sembrano infatti più vicine alla versione del personaggio dal carattere giocoso che Takahata e Miyazaki svilupperanno più avanti. A destare i maggiori sospetti, comunque, è la scena successiva: in essa, Lupin spiega di aver commesso il furto unicamente con lo scopo di farla pagare alla sua vittima accusandola di essere una persona avida che ha costruito la propria fortuna sulle spalle dei più poveri. Per quanto si tratti di un elemento totalmente secondario nell’economia dell’episodio, questo discorso contraddice un po’ la figura del personaggio che agisce seguendo unicamente i propri interessi e la propria curiosità che era stata costruita fino a quel momento, anticipando così quella vena eroica che Takahata e Miyazaki erano intenzionati a sviluppare.
Tra gli episodi che compongono questa fase centrale di transizione, l’episodio 9, Il sicario canta il blues28, rappresenta un caso piuttosto particolare. In esso fa la sua comparsa un sicario di nome Poon che apre una finestra sul misterioso passato di Fujiko. In apertura l’episodio ripropone la sigla dei primi tre episodi dove Ōsumi viene nuovamente indicato come regista della serie. Un segno, forse, di quanto l’episodio sia rimasto fedele alla sceneggiatura e agli storyboard realizzati sotto la sua supervisione. In effetti, non solo è in piena continuità con il lavoro di Ōsumi nell’intreccio e nel taglio registico, ma ripropone anche i temi e le atmosfere malinconiche presenti principalmente nella prima manciata di episodi. Come nell’episodio 2, L’uomo chiamato mago29, viene esplorato il personaggio di Fujiko e il suo rapporto con Lupin: quello femminile negli episodi di Ōsumi è un universo misterioso e inconoscibile e Fujiko, la sua rappresentante principale, è una figura enigmatica dal passato sconosciuto, fedele solo a sé stessa e impossibile da comprendere per gli uomini della serie, unicamente destinati a fare da pedine nelle sue macchinazioni. In questo episodio non solo viene fatta luce su una parte dei suoi trascorsi, ma la vediamo aprirsi e mostrare una fragilità e dei sentimenti apparentemente sinceri, soprattutto nei confronti di Lupin. Di fatto Ōsumi sembrava voler aprire qui uno spiraglio per sviluppi successivi nel rapporto tra i due che però non hanno mai avuto modo di concretizzarsi per via del suo abbandono. Con i cambiamenti a cui è andata incontro la serie e, soprattutto, con l’enorme successo raggiunto dal franchise negli anni seguenti, i cinque protagonisti hanno finito per cristallizzarsi nei loro ruoli, azzerando quasi del tutto la possibilità che il loro rapporto evolva in qualche modo. Questo è uno dei motivi per cui l’episodio 9 occupa un posto speciale in questa fase di transizione della serie. Nonostante tutti questi fattori, l’episodio fu anche il primo in cui l’apporto di Miyazaki si fece realmente rilevante: la mano dietro le animazioni di buona parte delle scene d’azione della prima metà dell’episodio è, infatti, inconfondibilmente la sua. Nonostante ciò, il numero di gag rimase ridotto al minimo e i toni adulti della trama vennero in larga parte rispettati, anche se proprio questi elementi furono causa di un contenzioso tra lo staff. Ōsumi ha raccontanto30 che la sceneggiatura originale prevedeva che lo stratagemma adoperato da Lupin per distrarre il compagno di Poon si concludesse con il lancio di una lancia di bambù affilata che lo avrebbe infilzato e ucciso. Sempre stando a quanto riportato in una sua intervista30, qualcuno dei membri dello staff riteneva che si trattasse però di un omicidio troppo crudele da disegnare e pare che per questo Miyazaki abbia proposto di concludere la scena con una gag: sulla punta della lancia di bambù sarebbe apparso un guantone da boxe che avrebbe steso il nemico. Non è chiaro quanto questo aneddoto riguardante Miyazaki possa essere attendibile dato che Ōsumi non era da tempo più presente. In ogni caso, alla fine si adottò una via di mezzo: il lancio di un sasso che, colpendolo sulla testa, finisce per tramortire e far precipitare il compagno di Poon.
Con l’episodio 10, Punta al falsario!31, si fa ancora più evidente la coesistenza di due anime diverse all’interno della serie. L’episodio vede Lupin in competizione con il Barone Ukraine su chi tra i due riuscirà per primo a reclutare Ivanov, un famoso falsario di banconote che si è da tempo ritirato dal mondo criminale. Oltre ad anticipare diversi aspetti della trama di Lupin III: Il castello di Cagliostro, il film che Miyazaki dirigerà nel 1979, l’episodio contiene più di un elemento che riflette il gusto e la direzione ricercata dalla coppia Miyazaki/Takahata e che pertanto possiamo provare ad attribuire a loro. Il primo elemento, quello più inconfondibile, è quello del volo: la passione di Miyazaki per gli aeroplani è ampiamente documentata nonché onnipresente nelle sue opere, e proprio nella prima metà di questo episodio ritroviamo diverse scene di volo, inclusa una battaglia aerea, che è impossibile non attribuire a lui. Difficile invece attribuire a qualcuno con certezza la paternità dell’enigma sul nascondiglio di Ivanov: è uno snodo di trama perfettamente in linea con l’intenzione di Takahata di avvicinare la serie alle storie di Leblanc ed Edogawa, ma nulla esclude che questo elemento fosse già presente nella sceneggiatura inizialmente supervisionata da Ōsumi. Infine, l’episodio presenta un notevole contrasto di tono tra le scene con protagonista Lupin e quelle incentrate su Ivanov. Se da un lato si toccano infatti in maniera fugace temi maturi e inusuali come la depressione di Ivanov, i suoi rimpianti per i crimini commessi e la sua relazione platonica con Silver Fox, dall’altro lato le atmosfere sono spesso stemperate dalle gag e le scene d’azione che coinvolgono Lupin. L’apice di questo contrasto di tono avviene nel finale che vede Lupin e Flinch scontrarsi a mani nude in una scena di stampo marcatamente comico mentre Ivanov, perduta la donna amata, decide di farsi saltare in aria assieme al suo rifugio.
Secondo Ōtsuka, l’episodio 11, Tempo che il settimo ponte cada32 è il primo la cui regia si può attribuire pienamente alla coppia Miyazaki/Takahata22. Indubbiamente, gli elementi che è possibile ricondurre a loro sono molti, anche se nasce comunque sotto la direzione di Ōsumi, ispirato al capitolo 17 del manga, e prevedeva inizialmente il fratello di Pycal nei panni del villain33. La trama vede Lupin indagare su una figura che sta facendo saltare in aria tutti i ponti di una città spacciandosi per lui; rintracciato il colpevole, il ladro scopre di essere finito in una trappola e viene costretto sotto ricatto a compiere il furto di un’auto blindata. Innanzitutto, l’ambientazione dell’episodio è completamente diversa da quella dei precedenti: i fatti si svolgono in una piccola città costiera attraversata da diversi canali la cui architettura ricorda, per quanto generica, più una città europea che una giapponese. Come detto in precedenza, Miyazaki e Takahata prima di prendere le redini di Lupin III avevano tentato di realizzare un anime tratto da Pippi Calzelunghe e negli anni successivi realizzeranno diverse opere tratte dalla letteratura europea o semplicemente ambientate in Europa. È quindi possibile che l’ambientazione di questo episodio rifletta questo interesse per l’Europa e i suoi paesaggi. Passando all’intreccio, l’episodio prosegue il lavoro di ridefinizione del personaggio di Lupin: l’apatia delle sue prime avventure è ormai completamente sparita e lo vediamo qui invece interpretare per la prima volta il ruolo dell’eroe in maniera del tutto disinteressata. Il suo obiettivo è quello di salvare una fanciulla innocente, un tipo di personaggio ricorrente nelle opere della prime fasi della carriera di Miyazaki e nel resto del franchise di Lupin III, anche grazie proprio all’influenza del suo Lupin III: Il castello di Cagliostro. Anche per questo, è probabile che il suo design dai tratti delicati sia opera dello stesso Miyazaki. Non è un caso, forse, che l’incipit dell’episodio veda Lupin intenzionato a ripulire il proprio nome da dei crimini che non ha commesso: è, infatti, come se la serie stesse tracciando una linea di confine tra il Lupin III criminale introdotto nella prima metà e il Lupin III ladro gentiluomo che andrà definendosi da qui in avanti. Nel cambiare il personaggio Takahata e Miyazaki non fanno però l’errore di eliminare un tratto distintivo del personaggio: la sua coolness. L’episodio infatti si distingue non solo per la sua trama divertente, articolata e piena di trucchi, ma anche per la sequenza che vede un Lupin ammanettato caricare la pistola con i denti e prendere la mira per colpire il nemico in barca: il lavoro di sound design, la colonna sonora western, l’attenzione della regia sul gesto e il sangue freddo di Lupin rendono questo momento una delle scene più cool di sempre. La scena però è subito controbilanciata da una gag, che comunque non stona troppo con l’episodio né rovina il momento come si potrebbe pensare. Nonostante Ōtsuka attribuisca l’episodio a Miyazaki e Takahata, visto che in realtà i semi erano stati già piantati da Ōsumi non è perfettamente chiaro a chi dovrebbe spettare la paternità di questa scena tanto iconica. L’aspetto cool del personaggio rimarrà anche negli episodi successivi, seppur continuamente stemperato dai momenti comici, e sarà più centrale nelle opere di Lupin III che Miyazaki dirigerà in solitaria. Tuttavia, una scena di questo tipo non si ripeterà più nella serie, sia nella sua dimensione narrativa, che vede Lupin uccidere un’altra persona, sia in quella registica, con le sue influenze western. Questo ci permette di sollevare un punto che andrebbe sempre tenuto a mente quando si parla di un lavoro collettivo come quello che si nasconde dietro la produzione di una serie animata: non tutte le idee possono essere attribuite al regista, anzi, tutto il contrario. Il tentativo che si sta facendo in questo articolo di comprendere sotto quale regista siano state realizzate determinate scene non significa che sia tutto frutto delle idee di questi registi. In questo caso, per esempio, è possibile che la scena sia nata o si sia sviluppata in questo modo anche grazie all’influenza della persona che si è occupata degli storyboard, di uno degli animatori o dello stesso Ōtsuka. Esattamente come l’episodio 13, l’ultimo con ancora qualche influenza del lavoro di Ōsumi, che presenterà elementi atipici per la serie dovuti probabilmente alla realizzazione degli storyboard da parte di un artista d’eccezione: Osamu Dezaki3.
Sempre stando a Ōtsuka, l’episodio 12, Alla fine chi riderà?34, era l’ultimo i cui lavori erano già avviati mentre Ōsumi era ancora al timone della serie22. È forse il meno riuscito di questa fase di transizione per via di più di un fattore. In questo episodio Lupin deve vedersela con Hayate, l’esponente di un’organizzazione criminale non meglio identificata, per il possesso dell’ultimo tesoro di un villaggio sperduto tra le montagne. In questo episodio, ancora più che nel decimo, le scene con protagonisti Lupin, Jigen e Fujiko presentano dei toni sopra le righe completamente diversi rispetto a quelli più drammatici delle scene con Hayate e i suoi sottoposti, per cui l’onore è una questione di vita o di morte. Anche qui, il finale è piuttosto esplicativo di questa tendenza: per Lupin e Jigen l’intera vicenda non è stata niente più che un gioco e quando prendono in scacco Hayate lo invitano ad andarsene senza causare ulteriori spargimenti di sangue, ma quest’ultimo, sollecitato da un suo sottoposto, preferisce gettarsi tra le fiamme per lavare con il suicidio l’onta dei suoi fallimenti. Rispetto all’episodio 10, però, tutto il resto non funziona: il piano di Lupin sembra un insieme di mosse scelte a caso, senza alcuna logica concreta, mentre la storia del villaggio e dell’organizzazione di cui fa parte Hayate è priva di dettagli e non ha alcuna profondità. Quest’ultimo aspetto potrebbe essere in realtà dovuto alla censura: stando a Ōsumi, la sceneggiatura originale toccava argomenti tabù come gli Ainu e i Burakumin e pertanto venne manomessa in maniera consistente35. Di questi riferimenti sembra essere sopravvissuto solamente il vestito del capo del villaggio le cui decorazioni ricordano quelle del vestiario tipico degli Ainu. È curioso notare, tra l’altro, che Miyazaki e Takahata fossero già incappati in un’esperienza simile: anche il film Il principe del sole - La grande avventure di Hols36 (1968) diretto da Takahata presso la Toei Dōga sarebbe dovuto essere ambientato in un villaggio Ainu, ma così non è stato per via delle interferenze dello studio.
Come già detto, l’episodio 13, Attenzione alla macchina del tempo!37, è l’ultimo episodio a essere stato influenzato in qualche misura dall’operato di Ōsumi. Si tratta, infatti, dell’unica sceneggiatura, tra quelle realizzate sotto la sua supervisione ma di cui non erano ancora iniziati i lavori di animazione, a non essere stata scartata19. Il titolo originale della sceneggiatura doveva essere “Solo dicendo addio si vive”1938. La storia, ispirata al capitolo 83 del manga, vede Lupin alle prese con Kyōsuke Mamō, un uomo in possesso di una macchina del tempo intenzionato a fare fuori Lupin III per impedire a Lupin XIII di distruggere la sua famiglia nel XXIX secolo. Ovviamente, anche se la sceneggiatura originale era stata realizzata prima del loro arrivo, Miyazaki e Takahata realizzarono un episodio che riflette pienamente la nuova direzione della serie. Dopo un prologo carico di pathos e di mistero, l’episodio si apre con Lupin e Jigen intenti in uno dei loro soliti furti. Ormai il canovaccio che diverrà una delle colonne portanti della serie è stato impostato: Lupin avvisa in anticipo la sua vittima, Zenigata prova a fermarlo ma non riesce a opporsi ai suoi piani ingegnosi. Portato a termine il colpo, i due si fermano a celebrare e a commentare il loro successo tra le risate e la soddisfazione. La scena serve chiaramente a preparare il secondo ingresso in scena di Mamō, pronto a spegnere il loro entusiasmo, ma è anche un primo segno di quanto sia diverso questo Lupin rispetto a quello visto in precedenza: non più irrigidito dalla sua noia esistenziale, il nuovo Lupin pratica il furto per puro divertimento, per amore del rischio e della sfida. Il resto dell’episodio ci mostra inoltre un personaggio più sopra le righe, spensierato, a tratti spavaldo e bambinesco. Questo non è più il Lupin dell’episodio 4, Una sola chance di fuga39, che dinanzi alla possibilità di venire giustiziato resta fermo a contemplare la morte ponderando se abbracciarla o meno; questo Lupin della morte ha invece paura, e, messo alle strette da un personaggio quasi onnipotente come Mamō, rimane profondamente turbato e cerca di nascondere questo suo stato d’animo facendo il buffone. Discorso simile anche per Jigen e Goemon i cui caratteri sono stati alleggeriti per prestarsi meglio ai toni comici dell’episodio che, nonostante metta Lupin in una situazione disperata, è comunque pieno di gag. A questo proposito, un cambiamento apportato da Miyazaki e Takahata rispetto alla sceneggiatura originale di cui siamo a conoscenza con certezza riguarda il finale: inizialmente era previsto che Lupin uccidesse Mamō con una falce19, ma nell’episodio finito si limita a metterlo in fuga dopo averlo ridicolizzato assieme a Jigen e Goemon, prima disarmandolo e privandolo dei suoi vestiti, e poi distruggendo a martellate la sua macchina del tempo.
Un discorso a parte andrebbe fatto per il personaggio di Fujiko. Mentre Lupin e i suoi due compagni, anche se in misura minore, hanno subito un cambiamento drastico ma ben ragionato, lei da questo episodio ne esce unicamente impoverita. Il suo personaggio è una figura piatta che fa da sfondo: il suo rapporto complesso e contraddittorio con Lupin è completamente spazzato via e i due diventano qui una sorta di coppia generica di fidanzati. Dopo vari tentativi di appuntamento interrotti dall’intervento di Mamō, Lupin arriva persino a chiederle la mano per poterla sposare prima di morire. Fujiko non solo accetta con piacere, ma nella scena finale, dopo che ormai il pericolo è stato scongiurato, rivendica la promessa d’amore fattagli e cerca di costringere Lupin a sposarla nonostante le sue proteste. Si tratta di una dinamica completamente aliena al personaggio e alla serie, che non verrà più riproposta e il cui tiro verrà, per fortuna, aggiustato già a partire dall’episodio successivo.
Gli episodi di Miyazaki e Takahata
L’episodio 14, Il segreto dello smeraldo40, segnò la fine della fase di transizione della serie. Da qui in avanti, tutti gli episodi, questo incluso, furono concepiti e realizzati per intero sotto la regia di Miyazaki e Takahata. La trama di questo episodio vede Lupin e Fujiko infiltrarsi a una serata di gala su una nave per rubare uno smeraldo chiamato “Occhio del Nilo”; lo smeraldo, però, non si trova dove loro credevano che fosse e i due dovranno scoprirne la vera ubicazione senza insospettire Zenigata, anche lui presente sulla nave. Si tratta di un intreccio vivace, e, come si potrebbe aspettare da Miyazaki, la regia gioca soprattutto a esaltare i movimenti dei personaggi, adottando uno stile meno ricercato rispetto a quello ricco di influenze dal cinema dal vivo di Ōsumi per dare così maggiore spazio alle animazioni. L’episodio, come i successivi d’altronde, è infatti pieno di momenti comici e gag slapstick, tra cui colpisce soprattutto la buffa e articolata sequenza di ballo tra Zenigata e Fujiko. L’ambientazione è, come all’inizio dell’episodio 8, mondana, aristocratica, ma è completamente scomparsa qualsiasi figura negativa o criminale, a eccezione ovviamente dei ladri protagonisti: da qui in avanti le apparizioni di personaggi di questo tipo saranno poche e circoscritte a una manciata di episodi. Infine, in questo episodio fa la sua apparizione una Fujiko completamente nuova. I suoi capelli non sono più lunghi e mossi ma sono diventati un caschetto mentre il suo fisico e il suo vestiario sono stati ridisegnati per ridurre l’accento che veniva dato alle curve del suo corpo. Al livello caratteriale, non più la donna indecifrabile degli episodi precedenti, questa nuova Fujiko è a tutti gli effetti una rivale e una collaboratrice saltuaria di Lupin, anche se non disdegnerà, nei prossimi episodi, di continuare a tradirlo o ad approfittarsi di lui facendo leva sul suo fascino.
L’episodio 15, Catturiamo Lupin e andiamo in Europa41, dà inizio al filone di episodi in cui le sfide e gli inseguimenti tra Lupin e Zenigata sono al centro o occupano una parte prominente delle storie. In questi episodi la dinamica tra i due diviene un misto tra il gioco Guardie e ladri e gli inseguimenti in stile Tom & Jerry. Sono sfide le cui mosse e contromosse sono sia mentali che fisiche: il divertimento di questi episodi, infatti, non sta solo nei trucchi assurdi e ingegnosi escogitati da Lupin, ma anche nel modo con cui vengono messi in pratica e nelle conseguenze che hanno sui personaggi. Spesso, anche per via delle intromissioni di Zenigata, le mosse di Lupin riescono, o non riescono, solo per un soffio, lasciando col fiato sospeso lo spettatore e generando una risata nel momento in cui qualcosa va storto e Lupin ne paga le conseguenze fisiche. Rispetto ai precedenti, in questi episodi Zenigata si fa più vivace e intraprendente, un vero e proprio terremoto, pronto a tutto pur di battere Lupin al suo stesso gioco. Alla fine, però, il ladro ha sempre la meglio, generando ulteriori risate per via delle reazioni scomposte del povero Zenigata, destinato a essere l’eterno sconfitto anche quando sembra avere la vittoria in pugno. A questo nuovo filone appartengono, chi più e chi meno, tutti gli episodi successivi, fatta eccezione per il 20 e il 21. Tutta questa evoluzione nella loro dinamica sarebbe riuscita la metà se Miyazaki e Ōtsuka non avessero fatto evolvere anche lo stile di animazione della serie: in questi episodi, lo stile di disegno si fa più morbido, meno realistico, i volti si fanno più tondeggianti e le espressioni più esagerate, ma soprattutto i movimenti vengono accentuati per dare maggiore carica alle gag slapstick e agli inseguimenti tra i personaggi. Questa evoluzione nelle animazioni non arriva però senza alcun singhiozzo: l’episodio presenta diversi momenti in cui i tratti e la capigliatura di Fujiko cambiano continuamente da un’inquadratura all’altra, a volte imitando il design dei primi episodi, come se gli animatori non fossero ancora venuti pienamente a patti con il nuovo design del personaggio.
L’episodio 16, Tattiche di furto alla gioielleria42, porta due cambiamenti importanti. Il primo riguarda l’esordio di una nuova sigla di apertura interamente composta da clip degli episodi precedenti. La selezione, ovviamente, pesca principalmente dagli episodi di Miyazaki e Takahata ma riprende anche scene dai precedenti, concentrandosi soprattutto sul mostrare gli inseguimenti e le disavventure che coinvolgono Lupin, i suoi compagni e la polizia. Il testo del nuovo brano perlopiù ripete il nome di Lupin III, come quello usato per la prima sigla di apertura, ma il ritmo è più vivace e il tono più allegro, perfettamente in linea con il cambiamento della serie stessa. Solo per questo singolo episodio, la sigla è accompagnata da un monologo di Goro Naya, doppiatore di Zenigata, che, sotto forma di rapporto ufficiale, descrive i cinque protagonisti (sé stesso incluso), riassumendo così le premesse della serie esattamente come faceva Yasuo Yamada nella seconda sigla d’apertura. Infine, questa nuova sigla è importante perché introduce per la prima volta i nuovi registi della serie sotto lo pseudonimo Gruppo dei registi A Production. L’altro cambiamento importante riguarda l’introduzione della Fiat 500 a sostituzione della Mercedes Benz SSK che Lupin aveva guidato in molti degli episodi precedenti e nella prima sigla. Il motivo del cambiamento fu principalmente di natura pratica: il design della Mercedes Benz SSK era piuttosto complesso da animare e pare che solo Ōtsuka e Yuzo Aoki, uno degli animatori di punta della serie, fossero in grado di disegnarla nelle varie angolazioni necessarie; Miyazaki avrebbe quindi proposto di usare una macchina come la Fiat 500 perché molto più facile da disegnare43. La Fiat 500 da cui presero ispirazione apparteneva allo stesso Ōtsuka e pare che Miyazaki abbia giustificato la scelta spiegando che un’utilitaria alla portata di tutti per un ladro che spesso rimane a bocca asciutta avesse anche più senso di una costosissima Mercedes Benz SSK43. In effetti, l’episodio 16 è proprio uno degli episodi in cui Lupin, pur avendola vinta, perde la refurtiva un attimo prima di farla franca. La macchina riflette probabilmente il gusto dello stesso Miyazaki che, come renderà poi esplicito in film come Porco Rosso (1992) e Si alza il vento (2013), apprezza l’Italia e l’ingegneria italiana. Inoltre si sposa bene con il cambiamento del personaggio, che in questi episodi dimostra un carattere molto più alla mano e spensierato. Già nel primo episodio diretto da Ōsumi Lupin si era travestito da idraulico per infiltrarsi in un edificio, ma è con la direzione di Miyazaki e Takahata che i suoi piani iniziano a implicare quasi sempre un nuovo travestimento, spesso da lavoratore manuale impegnato, di volta in volta, nei mestieri più disparati, senza nessuna paura di sporcarsi le mani o di svolgere mansioni poco dignitose per una figura del suo lignaggio. Infine, che la Fiat 500 si prestasse meglio a essere animata e utilizzata negli episodi della seconda metà della serie fu subito evidente: già al suo esordio la macchina si fa protagonista di diversi inseguimenti e gag, dimostrando una malleabilità ben diversa dalla Mercedes Benz SSK, che veniva invece utilizzata perlopiù in scene statiche e impostate. Rimanendo in tema veicoli, negli episodi appaiono di nuovo diversi mezzi di volo, alcuni realistici e altri ben più strampalati, che riflettono sicuramente il gusto e la passione di Miyazaki. Infine, l’episodio stabilisce un altro tratto caratteriale importante di Fujiko: a quanto visto in precedenza si aggiunge qui un’avidità esagerata, quasi parodistica, che diverrà tanto un suo tratto distintivo quanto un suo punto debole, un po’ come lo è per Lupin il suo debole per le donne, su cui, tra l’altro, si concentra proprio l’episodio successivo, il 17.
L’episodio 19, Quale sarà la terza generazione vincente?44, vede l’Ispettore Ganimard III, nipote dell’ispettore che dava la caccia all’originale Arsène Lupin, sfidare Lupin III in occasione di una mostra dedicata ai cimeli di suo nonno. Si fa quindi riferimento esplicito alla fonte letteraria del personaggio. Al contrario, l’episodio successivo, il 20 è, assieme al 13, l’unico episodio diretto da Miyazaki e Takahata a rifarsi a un capitolo del manga. Gli episodi nati sotto la regia di Ōsumi avevano spesso fatto riferimento al manga pescando a piene mani situazioni e stratagemmi oppure estendendo, approfondendo e riscrivendo storie e personaggi di alcuni capitoli per adattarle alla durata standard di un episodio. Quelle realizzate per intero da Miyazaki e Takahata sono invece per la maggior parte storie completamente originali, a eccezione, per l’appunto, dell’episodio 20, Cattura il falso Lupin45, che vede Lupin infiltrarsi su un’isola per indagare su una serie di furti che sono stati commessi sfruttando il nome e gli stratagemmi di suo nonno. L’incipit si rifà ai capitoli dal 2 al 5 di Lupin IIII - Le nuove avventure46, una serie di storie scritte e disegnate da Monkey Punch in concomitanza con la messa in onda dell’anime. L’intreccio dell’episodio, comunque, è perlopiù inedito ed è probabilmente il meno riuscito tra quelli diretti da Miyazaki e Takahata: le gag sono esagerate e piatte mentre gli stratagemmi troppo banali e facili.
L’episodio 21, Aiutate la bisbetica!47, è l’ultima eccezione al filone incentrato sulle sfide tra Lupin e Zenigata. In questo episodio Lupin deve salvare e proteggere la figlia dell’ex-partner di suo padre, Lupin II, mentre è inseguito dai rapitori e dalla polizia. Come per l’episodio 11, anche qui viene fuori il lato gentile ed eroico del personaggio, pronto a sacrificarsi e a mettere i propri interessi e la propria reputazione al secondo posto rispetto alla sicurezza di un innocente. Si tratta di nuovo di una giovane fanciulla, ma questa volta il suo carattere è più sfrontato e irrequieto. Il suo aspetto comunque, persino più di quello di Lisa, la ragazza dell’episodio 11, ricorda le future protagoniste delle opere di Miyazaki. L’episodio è inoltre uno dei pochi tra quelli diretti da Miyazaki e Takahata a presentare alcuni elementi emotivi e melodrammatici, pur rimanendo principalmente una storia d’avventura dai toni leggeri. Come nei finali dell’episodio 11, di Lupin III: Il castello di Cagliostro e dell’episodio 155 della seconda serie, anche qui la storia si chiude con una certa nota malinconica, con l’idea che Lupin non appartenga al mondo di cui fanno parte le giovani fanciulle che di volta in volta si ritrova a salvare. Pur nascondendo un cuore d’oro, Lupin rimane pur sempre un ladro che quindi non può far altro che sparire dopo aver compiuto le sue buone azioni, senza possibilità di rimanere a prendersene i meriti.
L’episodio 23, La grande competizione per l’oro48,è il finale della serie: un’enorme quantità di monete d’oro viene ritrovata per caso durante i lavori per costruire la metropolitana di Tōkyō e divengono l’oggetto della sfida finale tra Lupin III e l’Ispettore Zenigata. Miyazaki successivamente raccontò che che tutto lo staff si divertì parecchio a realizzare questo episodio, a inservirvi tutto ciò che piaceva loro e ad alzare al massimo il livello di assurdità49. Il risultato è uno degli episodi più intensi, divertenti e rifiniti della serie, ricco di tutte le caratteristiche migliori di questa seconda metà diretta da Miyazaki e Takahata. Animazioni e fondali sono decisamente più curati ed elaborati, e l’intreccio è un continuo susseguirsi di mosse e contromosse, inseguimenti e gag slapstick. In un finale che sembra anticipare tutte le volte che verrà dato per morto nelle opere successive, Lupin decide di farsi saltare in aria insieme al suo ultimo covo e ai suoi compagni per sfuggire alle grinfie dell’Ispettore Zenigata che, convinto di aver perso la sua ragione di vita, scoppia a piangere. Nella scena seguente viene svelato che non si trattava di nient’altro che dell’ennesimo trucco di Lupin, salvo in un barile alla deriva nel mare e pronto a ricominciare da capo in un’altra nazione. Il suo acerrimo nemico, però, lo raggiunge subito e inizia a inseguirlo a nuoto, strappando così al pubblico un’ultima risata prima di chiudere la serie con l’unico finale possibile: la riconferma che l’inseguimento tra Lupin e Zenigata non avrà mai fine.
Conclusione
Purtroppo, l’episodio 23 chiuse prematuramente la serie. Gli episodi previsti erano infatti 2643, ma con un indice degli ascolti medio dell’8.8% in un periodo in cui gli anime erano soliti ottenere il 20%30 non si poté far altro che cancellarla in anticipo. Negli anni successivi la serie fu riscoperta dal pubblico e le repliche arrivarono persino a ottenere ascolti di oltre il 30%1050. Da questo successo nacque l’idea di realizzare una seconda serie animata e un primo film cinematografico, da cui prese poi il via uno dei franchise più longevi della storia degli anime e dei manga. Mentre succedeva questo, Miyazaki e Takahata si erano ormai spostati su progetti di altro tipo. Insieme realizzeranno i due mediometraggi della serie Panda! Go, panda! (1972-1973) e le serie di Heidi (1974) e Marco dagli Appennini alle Ande (1976) per poi separarsi durante la lavorazione di Anna dai capelli rossi (1979). Da lì, Miyazaki avvierà definitivamente la sua carriera da regista creando nel 1978 la serie di Conan - Il ragazzo dal futuro. Ma proprio quando il suo lavoro su Lupin III sembrava essere ormai un lontano ricordo, ecco che l’anno successivo il ladro gentiluomo tornerà nuovamente a bussare alla sua porta con un’opportunità da non lasciarsi scappare.
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Gli altri articoli di questa serie
Hard boiled, ma con un cuore d’oro - Il Lupin III di Hayao Miyazaki pt. 1 di 3
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[Metablog] Ragionamenti su “Il Lupin III di Hayao Miyazaki" pt. 2 (in arrivo)
[Metablog] Curiosità sul Lupin III di Miyazaki (in arrivo)
Bibliografia
100Tenrando anime komikusu 4 Rupan Sansei PART-1 (100てんランド・アニメコミクス4 ルパン三世 PART-1). 1982. Futabasha.
Kaze no tani no Naushika GUIDEBOOK (風の谷のナウシカ GUIDEBOOK). 2010. Tokuma Shoten.
THE Rupan Sansei FILES– Rupan Sansei zen kiroku (THEルパン三世FILES―ルパン三世全記録). 1998. Kinema Junpo.
Clements, Jonathan. 2013. Anime: a history. British Film Institute.
Miyazaki, Hayao. 2014. (Trad. di F.L. Schodt e Beth Cary) Starting Point: 1979-1996. Viz.
IIoka, Jun’ichi (飯岡順一). 2015. Watashi no「Rupan Sansei」funtouki: anime kyakuhon monogatari (私の「ルパン三世」奮闘記: アニメ脚本物語). Kawade Shobō Shinsha.
Kanoh, Seiji (叶 精二). 2021. Rupan Sansei PART1 e-konte shuu「TV 1st series」hizou shiryou korekushon (ルパン三世 PART1 絵コンテ集 「TV 1st series」秘蔵資料コレクション). Futabasha.
Ōtsuka, Yasuo (大塚康生). 2014. Sakuga ase mamire (作画汗まみれ 改訂最新版). Bungeishunjū.
Sitografia
Tutti i siti sono stati visitati l’ultima volta in data 21/09/2023
https://animetudes.com/2020/07/25/the-history-of-tms-part-6-lupin-the-third/
https://ja.wikipedia.org/wiki/%E3%83%A0%E3%83%BC%E3%83%9F%E3%83%B3_(%E3%82%A2%E3%83%8B%E3%83%A1)
https://sites.google.com/site/lupinthethirdcom/anime/films/-1979-the-castle-of-cagliostro/interviews/1981-4-june-hayao-miyazaki-yasuo-ohtsuka
http://lupinfes2003.fc2web.com/NEW2/interview/ohtsuka/oh02.htm
https://www.videor.co.jp/tvrating/past_tvrating/anime/01/post-3.html
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol2-16c1.html
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol6-02a7.html
Note
Anime: a history p.133 ↩︎
Sakuga ase mamire p.179-180 ↩︎ ↩︎
https://animetudes.com/2020/07/25/the-history-of-tms-part-6-lupin-the-third/ ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.184 ↩︎ ↩︎
https://ja.wikipedia.org/wiki/%E3%83%A0%E3%83%BC%E3%83%9F%E3%83%B3_(%E3%82%A2%E3%83%8B%E3%83%A1) ↩︎
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol2-16c1.html ↩︎
Sakuga ase mamire p.191 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.192 ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.24 ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.25 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.193 ↩︎
Sakuga ase mamire p.194-195 ↩︎ ↩︎ ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.71 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.206-207 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Kaze no tani no Naushika GUIDEBOOK p.148-157 ↩︎ ↩︎
Starting Point p. 277-284 ↩︎
https://sites.google.com/site/lupinthethirdcom/anime/films/-1979-the-castle-of-cagliostro/interviews/1981-4-june-hayao-miyazaki-yasuo-ohtsuka ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.23 ↩︎ ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.24-25 ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.18-19 ↩︎ ↩︎
Rupan Sansei PART1 e-konte shuu p.72-73 ↩︎
Sakuga ase mamire p.206-207 ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎
http://lupinfes2003.fc2web.com/NEW2/interview/ohtsuka/oh02.htm ↩︎
Sakuga ase mamire p.202 ↩︎
Titolo originale: 「狼は狼を呼ぶ」
Titoli italiani: Il segreto delle tre pergamene / La spada invincibile ↩︎
Titolo originale: 「全員集合トランプ作戦」
Titoli italiani: Le carte da gioco di Napoleone / Il segno della fortuna ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.16 ↩︎
Titolo originale: 「殺し屋はブルースを歌う」
Titoli italiani: Il documento segreto del calcolatore elettronico / Il passato ritorna ↩︎
Titolo originale: 「魔術師と呼ばれた男」
Titoli italiani: La barriera invisibile / Poteri magici ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.72 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Titolo originale: 「ニセ札つくりを狙え!」
Titoli italiani: Microfinger il re dei falsari / La principessa delle nevi ↩︎
Titolo originale: 「7番目の橋が落ちるとき」
Titoli italiani: Furto alla cassa della banca centrale / Il settimo ponte ↩︎
100Tenrando anime komikusu 4 Rupan Sansei PART-1 ↩︎
Titolo originale: 「誰が最後に笑ったか」
Titoli italiani: Le due statuine gemelle / Il villaggio assediato ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.72 ↩︎
Titolo originale: 「太陽の王子 ホルスの大冒険」
Titolo italiano: La grande avventura del piccolo principe Valiant ↩︎
Titolo originale: 「タイムマシンに気をつけろ!」
Titoli italiani: Una sfida dal futuro / La statua d’oro ↩︎
Titolo originale:「さよならだけが人生だ」 ↩︎
Titolo originale: 「脱獄のチャンスは一度」
Titoli italiani: L’evasione di Lupin / Prigioniero! ↩︎
Titolo originale:「エメラルドの秘密」
Titoli italiani: Caccia allo smeraldo / La fuga ↩︎
Titolo originale:「ルパンを捕まえてヨーロッパへ行こう」
Titoli italiani: Il busto d’oro del Sig. Kimman / Il dubbio ↩︎
Titolo originale: 「宝石横取り作戦」
Titoli italiani: Rapina alla gioielleria / Un gioco da ragazzi ↩︎
Sakuga ase mamire p.208-209 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Titolo originale: 「どっちが勝つか三代目!」
Titoli italiani: I cimeli della famiglia Lupin / Nemici per la pelle ↩︎
Titolo originale: 「ニセルパンを捕まえろ!」
Titoli italiani: La corona di Gengis Kahn / L’onore in pericolo ↩︎
Titolo originale: 「ルパン三世 新冒険]. In Italia queste storie sono state pubblicate integralmente da Planet Manga (2016) in coda alla prima serie del manga (Vol. 11-15, Cap.95-129). I capitoli menzionati nell’articolo corrispondono quindi ai capitoli 96-101. ↩︎
Titolo originale: 「ジャジャ馬娘を助けだせ!」
Titoli italiani: Il rapimento di Jenni / Un amico fedele ↩︎
Titolo originale: 「黄金の大勝負!」
Titoli italiani: L’isola dei sogni perduti / Antiche monete d’oro ↩︎
Starting Point p.280 ↩︎
https://www.videor.co.jp/tvrating/past_tvrating/anime/01/post-3.html ↩︎
Introduzione al nuovo Terre Illustrate
Terre Illustrate nacque nell’Agosto del 2012. Avevo appena compiuto 16 anni, da qualche tempo ormai leggevo fumetti con una certa assiduità e pertanto decisi di aprire un blog dove pubblicare i miei pensieri sulle opere che leggevo. A essere sinceri, all’inizio scrivevo principalmente con il desiderio di farmi notare. Nonostante il motivo futile, negli anni non ho mai smesso di scrivere e alla fine la scrittura stessa è diventata un altro mio hobby. Non solo la scrittura, ma anche il lavoro di ricerca e approfondimento che precede ogni mio articolo sono diventati una vera e propria passione e probabilmente Terre Illustrate continuerà a esistere, in una forma o nell’altra, finché rimarranno tali.
Nella sua incarnazione originale, Terre Illustrate non era nient’altro che un blog pubblicato tramite Blogspot, la piattaforma di blogging gratuita di Google, e, seppur con qualche rimaneggiamento, è sempre rimasto tale. L’argomento dei miei post, invece, nel tempo si è evoluto con l’evolversi dei miei gusti e dei miei interessi, dai fumetti si è quindi espanso ai cartoni animati e al cinema dal vivo, ma soprattutto si è concentrato sulle opere provenienti dal Giappone. Così come sono cambiate queste cose, anche i miei approcci alla scrittura e le mie idee su Internet sono cambiati notevolmente. Gli strumenti e le possibilità che mi offriva Blogspot hanno iniziato a starmi sempre più stretti e per questo ho iniziato prima a diversificare il mio lavoro, aprendo canali Youtube (qui e qui) e Twitch (qui), e poi a pianificare una nuova casa per Terre Illustrate. L’idea nasceva anche dal desiderio di possedere uno spazio su Internet che mi appartenesse veramente e di non essere più un “ospite”" di una grande azienda come Google. Negli anni, Internet si è fatto sempre più centralizzato e la maggior parte degli spazi “abitati” appartiene ormai a una manciata di aziende che virtualmente può fare qualsiasi cosa con quel che gli utenti pubblicano, in primis renderlo inaccessibile sia agli altri sia agli autori stessi. Per questo sono convinto che sia importante riappropriarsi dei propri pensieri, del proprio lavoro creativo, e lavorare per un web più decentralizzato. I social media e le piattaforme delle grandi aziende possono essere un ottimo mezzo per stringere nuovi contatti e un importante megafono per far conoscere a più persone il nostro lavoro, ma non dovrebbero mai essere la nostra base, il nostro quartier generale, perché basterebbe poco per perdere tutto. Ecco quindi perché ho scelto di aprirmi uno spazio indipendente: perché a prescindere da quel che potrebbe succedere al server che mi ospita, ogni aspetto di questo sito è salvo sui miei hard disk e mi basterebbe poco per spostarlo altrove.
L’obiettivo dietro questo cambiamento era anche quello di dare una nuova forma e una nuova organizzazione al mio lavoro. Internet è un mezzo meraviglioso perché dà a tutti la possibilità di esprimersi e di avere un proprio spazio dove farlo. Internet, però, è anche un luogo viziato da cattive abitudini, spesso dovute proprio ai modelli economici delle grandi aziende di cui si parlava sopra. In particolare, Internet è anche un posto dove si parla troppo, anche quando non ce n’è bisogno. Ogni giorno siamo costantemente inondati da nuovi post, nuovi articoli e nuovi video proposti in un flusso continuo e inarrestabile. Il risultato è che ognuno di essi tende a perdersi come un ago in un pagliaio, a emergere con fatica e a sparire dopo pochi giorni, se non poche ore. Questo, in un meccanismo che si morde la coda, alimenta ulteriori abitudini sgradevoli, come quella di produrre sempre di più per avere la certezza di essere costantemente visibili, sminuendo quindi il singolo frutto del proprio lavoro a favore della costruzione della propria persona pubblica, o come quella di rincorrere l’argomento sulla cresta dell’onda, anche a costo di produrre articoli, video e post clickbait, approssimativi o semplicemente vuoti, privi di contenuto. È un discorso lungo che meriterebbe molto più spazio per essere trattato seriamente, ma il punto a cui volevo arrivare è che con Terre Illustrate vorrei continuare a seguire un approccio rilassato e dare il giusto spazio a ogni singolo articolo o video prodotto, senza inseguire trend e senza sprecare energie a curare i canali social più del minimo indispensabile.
Questo ideale si è concretizzato e si concretizzerà in diversi modi. Innanzitutto si è concretizzato con diverse scelte fatte in merito al “nuovo” Terre Illustrate. Tra le mie priorità per la creazione del nuovo sito web c’era la presenza di funzionalità di ricerca e di tag degli articoli che fossero il più efficienti possibile, così da permettere ai lettori di proseguire con facilità il loro personale percorso di lettura e agli articoli di non esaurire il loro ciclo vitale una volta spariti dalla home page. Inoltre, il nuovo sito web mette a disposizione un buon sistema di note, totalmente assente su Blogspot, e, su desktop, un indice dei contenuti, così da rendere la consultazione il più agevole possibile. Per motivi pratici e non solo, ho anche optato per un sito web che fosse (quasi completamente) statico. Si tratta forse di una definizione che alla maggior parte dei lettori non dirà molto e io, a esser sinceri, non sono la persona più adatta per spiegarvi cosa sia un “sito statico”, ma vi basti sapere che questo si traduce in un sito molto più leggero e veloce da caricare, sia per me sia per l’utente finale.
Infine, il nuovo approccio “sinergico” e il metablog. Passando per l’url https://metablog.terreillustrate.it/ è possibile raggiungere un secondo sito web che avrà diverse funzioni. La prima, molto banalmente, sarà quella di contenere e archiviare le poche comunicazioni che ho necessità di fare. L’uscita di un nuovo video, l’archiviazione di una nuova live, le collaborazioni con altri siti e riviste e la mia partecipazione a panel e conferenze verranno comunicati, oltre che sui canali social di Terre Illustrate, sul metablog, ma non è questa la sua funzione principale. Il metablog nasce infatti per integrare ed espandere gli articoli pubblicati su Terre Illustrate. Al suo interno, per esempio, ho intenzione di pubblicare scritti più personali in cui racconto e discuto la lavorazione di alcuni degli articoli del sito principale con l’intento sia di rendere più chiari gli obiettivi che mi ero posto che di demistificare il processo che c’è dietro i suddetti articoli. Così facendo mi sembra di rendere i lettori un po’ più partecipi e, soprattutto, di dare ancora più rilievo a ciascun articolo. Già con quest’ultimo scopo in mente, due anni fa provai a sperimentare una piccola “campagna pubblicitaria” sui social per l’ultimo articolo di quello che è ormai il vecchio Terre Illustrate, la recensione di Ankoku Shinwa di Daijirō Morohoshi, realizzando una serie di post con curiosità aggiuntive sull’opera e sull’autore. L’esperimento ebbe un certo successo e mi ripromisi di ripeterlo, ma trovai anche uno spreco lasciare che tutte quelle informazioni si disperdessero nel mare dei social media. Per questo il metablog farà anche da archivio per questo tipo di post raccogliendoli in articoli appositi così che possano essere più facili da reperire e consultare. Sempre con lo scopo di dare maggiore rilievo, di approfondire e di espandere gli argomenti del blog principale, ho intenzione di far seguire ad alcuni degli articoli una live dedicata dove, per esempio, potrei mostrare alcuni dei materiali usati, nel caso di una ricerca storica, o invitare ospiti per discutere ulteriormente delle opere, degli autori o dei temi trattati. L’ultima funzione, per ora, del metablog non riguarda invece i miei articoli, ma quelli degli altri. Ho intenzione infatti di realizzare una piccola rubrica, una “metarivista”, in cui presenterò, con piccoli commenti, articoli e video presenti sul web e che ho trovato interessanti. Nulla di troppo elaborato, l’obiettivo è semplicemente quello di dare risalto al lavoro altrui, sempre nel tentativo di arginare in qualche misura la volatilità di Internet.
Questi, in sintesi, sono i motivi per cui il nuovo Terre Illustrate e il metablog sono nati. Di ciò che troverete su questo nuovo sito, invece, non c’è molto da aggiungere a quanto detto all’inizio di questo stesso articolo. L’approccio e la consapevolezza dietro sono sicuramente cambiati, e di molto, ma il nuovo Terre Illustrate rimarrà in piena continuità con il vecchio. Gli argomenti principali saranno sempre il fumetto e l’animazione, con un focus speciale sulle opere giapponesi, ma non sono assolutamente da escludere possibili incursioni in alcuni campi affini come il cinema dal vivo, la letteratura o, perché no?, i videogiochi. Così come non è da escludersi la pubblicazione di articoli scritti da autori ospiti, in piena continuità con l’intenzione di dare maggiore spazio ad altre voci, nonostante Terre Illustrate rimanga comunque un mio progetto personale.
Buona lettura.
Un ringraziamento di cuore va a Eduard che mi ha aiutato con la realizzazione di questo sito e del metablog occupandosi di praticamente tutti gli aspetti tecnici. Senza il suo contributo, il nuovo Terre Illustrate non esisterebbe.
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Terre Illustrate è il blog di Matteo Caronna dedicato al fumetto, all’animazione e affini. Si estende anche su Youtube (qui e qui), su Twitch (qui) e sul metablog (qui).
Manifesto di Terre Illustrate: https://terreillustrate.it/posts/00-introduzione-al-nuovo-terre-illustrate/
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Taking up the Invitation from a Crab – Appunti di Viaggio
Nota: Trattandosi di un articolo composto da “appunti di viaggio”, la pubblicazione completa del testo procederà in maniera progressiva, componendosi nel tempo con nuove parti più avanti, seguendo i ritmi del “viaggio” di chi scrive.
Primo appuntamento: 07/10/2025
Obiettivi dell’articolo, più qualche nota sul metodo
In questo articolo commenterò An Invitation from a Crab, raccolta di storie realizzata da panpanya e pubblicata in Italia da Star Comics a fine 2020. La raccolta è stata la prima uscita della testata panpanya Works. Nonostante la collana sia ormai arrivata alla settima pubblicazione,1 però, è facile notare come le opere di panpanya non sembrino aver riscosso un grande successo tra il pubblico italiano. Se prendiamo come indicatore di popolarità la pubblicazione di articoli su siti di settore, video approfondimenti o post social, per esempio, si nota come le pubblicazioni italiane di panpanya siano raramente affrontate, anche solo per fare rapide recensioni o commenti. Da un certo punto di vista, posso capire come la produzione di panpanya possa apparire eccentrica, avvicinandosi poco a diverse fette di pubblico; da tutt’altra prospettiva, però, trovo assai strano che queste opere non abbiano ricevuto un’attenzione maggiore all’interno di ambiti più “professionali”.
Negli anni, infatti, ho avuto tantissime occasioni di parlare in modo entusiastico di panpanya con Matteo e con Lorenzo Di Giuseppe; ciò che ha sempre sorpreso tutti e tre è come nelle storie di panpanya, dietro un’apparente leggerezza stilistica e narrativa, si nascondesse una grande solidità tematica e artistica. Quelle che, a un primo sguardo, sembravano solo delle storielle bizzarre, in realtà nascondevano riflessioni profonde – seppur concretissime – sulle abitudini, sulle nostre percezioni, sul legame che abbiamo con la quotidianità e con la memoria. Si noti che questi stessi temi, seppur affrontati in modo diverso, hanno suscitato un certo interesse “critico” negli anni, in relazione ad autori orientali molto apprezzati come Taniguchi Jirō, Matsumoto Taiyō, Adachi Mitsuru e – in una qualche misura – anche in mangaka molto popolari come Urasawa Naoki.
Come è, allora, che questi stessi temi non sono stati ritrovati anche nella produzione di panpanya?
Dal momento che in questi anni ho apprezzato così tanto le raccolte di panpanya, mi sembrava ingiusto non tentare – quantomeno – a legittimarle, provando a far emergere questioni e tematiche sotterranee che possono interessare a potenziali lettori. In generale, quando si apprezzano delle opere, si dovrebbe provare a far notare quanto possano essere interessanti. Ecco, quindi, il motivo principale dietro questo scritto.
Al contrario di altri articoli, però, ho optato per un approccio diverso. Le opere di panpanya sono raccolte di storie di lunghezza medio-breve nelle quali – nonostante esista uno sfondo stilistico ed espressivo comune – troviamo notevoli variazioni sui temi e sulle situazioni rappresentate. Oltre a questo, avevo il timore che un’analisi eccessivamente astratta allontanasse troppo chi legge dalle singole storie. Provare a fornire un’analisi complessiva della raccolta, quindi, mi sembrava abbastanza inadeguato. Ho preferito, piuttosto, fare un commento delle singole storie, anche qua adottando un metodo un po’ diverso da quello che possiamo trovare in altri articoli di Terre Illustrate o di Keiko – Rivista. Nel titolo parlo, infatti, del commento come una serie di appunti di viaggio, termine decisamente strano per parlare di un’analisi artistica.
Mi permetto di prendermi un po’ di spazio per spiegare cosa ho in mente. Se non avete, però, interesse verso questioni più astratte legate allo stile e ai modi di fare critica artistica, potete tranquillamente passare alla sezione Panoramica Generale.
Sullo stile dell’articolo. Gli appunti di viaggio sono un prodotto scritto che compiliamo durante un percorso. Cosa scriviamo in questi appunti? Le cose più disparate. Magari, camminando per una città, l’atmosfera di una strada ci colpisce particolarmente e vogliamo provare a catturarla a parole. Magari vogliamo ricordarci di un evento bizzarro che avviene proprio davanti ai nostri occhi, violando ogni nostra aspettativa. O, ancora, magari stiamo cercando un ristorante a cui siamo interessanti e abbiamo bisogno di appuntarci le indicazioni per raggiungerlo. Anche da questi brevi esempi, emergono due aspetti fondamentali che caratterizzano gli appunti di viaggio.
Il primo è la loro frammentarietà: quando scriviamo degli appunti di viaggio, non è richiesto alcun tipo di sistematicità o di unità strutturale. Seppur sia vero che una volta tornati a casa possiamo voler ordinare i nostri appunti, rendendoli più uniformi e integrandoli con ricordi e conoscenze a posteriori, inizialmente non esiste una vera e propria progettazione dietro la loro scrittura. Se sapessimo già cosa scrivere ancor prima di partire, forse non avrebbe troppo senso tenere degli appunti di viaggio.2
Il secondo aspetto che emerge è il legame tra gli appunti di viaggio e la soggettività di chi li compila. Come dicevo, realizzare degli appunti di viaggio può avere una funzione mnemonica (ricordarsi cosa succede), espressiva (descrivere le sensazioni che proviamo) o anche orientativa. Tutte funzioni che sono realizzate in relazione a chi compila gli appunti. La stessa strada che può essere pregna di senso – e meritevole di essere riportata su carta – per qualcuno, può essere arida e poco interessante per altri. Oppure, perché dovrei appuntarmi il percorso per raggiungere quel ristorante a cui sono interessato, se so già come arrivarci o preferisco usare il GPS dello smartphone? Gli appunti di viaggio sono, in qualche misura, molto simili a dei diari e per questo andrebbero letti come appunti di qualcuno.
Questo commento a panpanya può essere inteso come degli “appunti di viaggio” proprio perché nasce dalla parziale sistematizzazione di un insieme di note, osservazioni e commenti che ho fatto durante la lettura delle storie che compongono An Invitation from a Crab. Non dovrebbe essere una sorpresa, quindi, se durante la lettura lo stile cambiasse di netto da una storia all’altra, diventando più impressionistico e meno argomentativo. Inoltre, è possibile che alcune emozioni e risonanze di cui andrò a parlare potrebbero non apparire immediate o particolarmente salienti per chi legge. Da un certo punto di vista, non nego che questo sia una sorta di vezzo meta-letterario. Come sarà evidente a chi ha già letto alcune delle opere di panpanya, le varie raccolte si pongono sempre come una sorta di diario personale in cui le esperienze quotidiane, le abitudini, i ricordi, i sogni e le fantasie di chi disegna vanno a convergere. Ho ritenuto quindi divertente privilegiare un approccio alla scrittura che si ponesse in continuità stilistica con la raccolta, in modo da legare opera e commento in un unico insieme.
Ma questo è davvero fare critica d’arte?
Un’obiezione che qualcuno potrebbe fare all’intero articolo è che essere frammentari e aggiungere elementi soggettivi all’interno della propria analisi sia un pessimo modo di fare critica. Effettivamente, un’idea molto diffusa è che soggettività e critica siano due aspetti che non dovrebbero entrare in contatto. Al contrario, il lavoro di un buon critico passa anche dal saper “purificare” il più possibile le sue analisi da aspetti soggettivi; questa idea è generalmente legata al fatto che emozioni, pregiudizi e aspettative personali siano fattori eccessivamente variabili per essere considerati una base solida per fare critica d’arte. Analogamente al caso della strada descritto poco fa, una stessa opera può provocarmi emozioni fortissime almeno quanto può lasciare indifferente la persona al mio fianco. Ciò su cui, però, non possiamo discordare, sono i suoi aspetti strutturali, il suo valore storico o la raffinatezza tecnica con cui è realizzata; per questo dovremmo richiamare questi fattori “inopinabili” quando facciamo critica, così come dovremmo delegittimare l’appello a fattori soggettivi al suo interno. Dopotutto una cosa “può non piacermi” seppur “io riconosca il suo valore”.
Sinceramente, non solo credo che questa opinione sia sbagliata, ma credo che nasca da un modo di concepire la nostra soggettività che è eccessivamente ingenuo. Le emozioni e le aspettative, infatti, non sono cose che esistono “sottovuoto”, lontane dal mondo: come la psicologia ci insegna da decenni, queste dipendono sia da aspetti ambientali che da fattori squisitamente corporei. Il fatto che certe condizioni ambientali interagiscano con noi, provocandoci certe emozioni invece che altre, è qualcosa che è tanto oggettivo quanto la lista dei materiali usati per comporre una statua. Da questo punto di vista, quando un’opera ci lascia indifferenti e vediamo, invece, che provoca forti emozioni nella persona accanto a noi, ciò che dovremmo fare non è tanto ignorare gli aspetti emotivi poiché “eccessivamente variabili”. Casomai, dovremmo chiederci perché c’è questa differenza di reazione tra me e lui. Da quali aspetti personali dipenda e – nel caso fosse un’operazione sensata – se sia possibile metterci nella stessa condizione psicologica, in modo da provare sensazioni analoghe. Da questa prospettiva, fare critica non vuol dire solo avere una conoscenza approfondita su un’opera, ma anche essere capace di descrivere efficacemente il tipo di effetto che ci fa l’interazione con questa, sapendo districarne le ragioni sottostante. Anche tra i critici d’arte esiste una profonda disomogeneità, legata ai loro studi, alla loro vita emotiva e alla loro storia personale; considerare questa disomogeneità come un difetto e non come un punto di forza mi sembra decisamente poco fruttuoso. Ciò che farò nell’articolo sarà, appunto, provare a capire perché la raccolta di panpanya abbia un certo effetto psicologico su di me. Ciò che spero non è tanto di “far vedere” a chi legge le cose dal mio punto di vista, ma portarlo a riflettere su un preciso metodo di fare analisi.
A mio avviso, se c’è un ruolo sociale rilevante che i critici possono avere rispetto a chi decide di ascoltarli, questo non riguarda l’educazione al “buon gusto”, come credono in molti. Chi fa critica, casomai, dovrebbe occuparsi di costruire nuove forme di apprezzamento, che mostrino modi inediti di usare quegli “strani strumenti” che sono le opere d’arte, portando il pubblico a riflettere in modo più adeguato e profondo sulle loro abitudini e sulla loro vita interiore.
Panoramica Generale.3 An invitation from a crab è una raccolta composta da 18 storie brevi di lunghezza variabile e da 7 pagine di testo scritto chiamate “note”. Questa strana bipartizione rispecchia un approccio alla costruzione abbastanza profondo, che spero di far emergere bene nel commento. Anche rimamendo in un contesto letterario, una storia può essere realizzata avendo in mente tante funzioni differenti. Un autore può realizzare una storia a scopo formativo, come forma di svago, come espressione personale et cetera. Nel caso di panpanya, i libri della sua produzione hanno la stessa ergonomia di un coltellino svizzero, dal momento che le sue storie possono avere contemporaneamente intenti giocosi, stranianti, umoristici, malinconici o immaginifici. Questa varietà di funzioni non dovrebbe in realtà stupire in una raccolta di storie brevi, anzi, è qualcosa di molto comune. Tutte queste funzioni sembrano però il prodotto in un intento che muove l’intera produzione di panpanya, ovvero l’uso del libro come un oggetto a metà tra il diario e il taccuino di ricerca. L’impressione che provo leggendo i racconti di panpanya è infatti quella che potrei provare leggendo un ispirato scienziato che prova a descrivere i fenomeni naturali che gli si dispiegano di fronte durante la ricerca. Mentre però un naturalista può essere affascinato da certe reazioni chimiche o dal bizzarro comportamento dei bradipi, ciò che panpanya prova a descrivere sono i fenomeni della propria interiorità: credenze, sentimenti, abitudini, fantasticherie, ricordi.
L’autrice descrive minuziosamente l’effetto che fanno questi fenomeni interiori usando proprio il fumetto, come uno scienziato che prima cerca di descrivere quei fenomeni che tanto gli interessano e poi prova a costruire ipotesi esplicative, esperimenti concreti o situazioni mentali in cui testare delle leggi nascoste che intuisce di aver afferrato. In questo senso An invitation from a crab è un taccuino, almeno quanto è un diario, proprio perché i fenomeni che panpanya vuole descrivere sono quelli che possono essere catturati solo da una cronaca vissuta in prima persona. In questo senso, l’interiorità per panpanya non è un mondo completamente privato, esplorabile solo chiudendosi ermeticamente nell’indagine dei propri pensieri. Al contrario, panpanya sembra rigettare una simile visione romantica, concentrandosi sul fatto che le emozioni, i sentimenti e le fantasie dipendono in modo preponderante da ciò che succede fuori di noi, in una visione della psicologia che potremmo quasi definire ecologica. Per questo motivo panpanya non si appella troppo a metafore o allegorie che rappresentino ciò che succede dentro di lei ma, invece, usa lo strumento fumettistico come una sorta di banco di prova per costruire situazioni assurde in cui innescare quei meccanismi psicologici che lei stessa ha notato nel suo quotidiano. Si noti, infine, che l’approccio esplorativo dell’autrice non implica un distacco arido e freddo dalla propria interiorità. Bensì è un rapporto giocoso, di esperimento e sorpresa, quel tipo di rapporto splendido che non solo troviamo in altri grandi autori, ma che ci può permettere di vedere il quotidiano e noi stessi come qualcosa di unico, da cui trarre ispirazione. Tra le variegate realtà teoriche che emergeranno nel commento, questa mi sembra essere la più importante, l’approccio che è necessario cogliere per entrare nel mondo di panpanya.
Commento ad An Invitation from a Crab
Il volume/ Da fuori
Se lo consideriamo come prodotto cartotecnico, alcune parti di un volume a fumetti – come la copertina, la sovraccoperta, l’indice, il riassunto o il colophon– vengono il più delle volte considerati come elementi “esterni” al mondo descritto all’interno della storia. Chiaramente ci sono dei casi in cui questo non avviene: si pensi ai bellissimi schemi illustrativi nei volumi di Nausicaa della valle del vento di Miyazaki Hayao, che descrivono approfonditamente gli strumenti usati dai vari personaggi, oppure alle lunghe pagine riassuntive presenti in ogni volume di The Five Star Stories, necessarie per entrare all’interno dei mondi narrativi descritti in ogni singolo volume del capolavoro di Nagano Mamoru. È abbastanza raro, però, che copertine e sovraccoperte svolgano funzioni particolarmente complesse rispetto al contenuto di un’opera.4 Solitamente, le parti “più esterne” di un libro a fumetti hanno la funzione di attirare il lettore e dare un’idea del mood generale dell’opera o degli elementi che troveremo al suo interno, dal momento che il volume dovrà essere venduto in un contesto in cui non è possibile – idealmente – leggerlo integralmente prima dell’acquisto. Se valutiamo una copertina da questa prospettiva commerciale, questa non solo dovrà esprimere i fattori a cui accennavo prima, ma dovrà farlo nel modo più immediato possibile, in modo da catturare subito l’occhio del potenziale lettore. Da questo punto di vista, il guscio esterno di An Invitation from a Crab è, quantomeno, un caso peculiare.
Ricordo vividamente le sensazioni che ho avuto le prime volte che mi capitò di vedere – in negozio o nelle pagine online di Star Comics – la raccolta di panpanya e, proprio per i motivi detti sopra, la mia valutazione non fu delle migliori. A primo impatto, trovavo infatti sgraziata e dissonante la scelta grafica fatta per il fronte della sovraccoperta, in cui troviamo diversi tipi di formati rappresentativi. Nello spazio – abbastanza stretto in realtà – del fronte abbiamo stipati uno stemma, un’immagine evanescente in cui si nota un contrasto tra uno sfondo cittadino – disegnato e acquerellato su base fotografica – e un volto disegnato in uno stile molto stilizzato, definito da linee essenziali che occupano uno spazio bianco, in netto contrasto con la complessità dello sfondo. Sotto l’immagine, una colonna di testo scritto e, a fianco, una mappa di una zona del Giappone che non sono mai riuscito a identificare. Parliamo quindi di quattro elementi grafici differenti, tutti ammassati in uno spazio che dovrebbe avere la funzione di catturare al volo l’attenzione del lettore.
In più, mentre è facile cogliere – almeno superficialmente – il contenuto di un’immagine, la questione è molto più complessa per quanto riguarda una mappa o un testo scritto. Un’immagine può colpirti in pochi attimi anche vagando distrattamente per un negozio; un testo scritto, invece, può richiedere qualche minuto, portando a soffermarsi sul libro, per analizzarlo nel dettaglio. Azione che, spesso, un potenziale acquirente potrebbe non essere disposto a fare.5 Oltre a questa scelta comunicativa – che al tempo mi sembrava abbastanza inelegante e confusionaria – trovavo anche una dissonanza più superficiale proprio nella piccola immagine frontale, nel contrasto tra il realismo dello sfondo e l’eccessiva semplificazione del volto della protagonista. In realtà la cosa non avrebbe dovuto impressionarmi particolarmente, dal momento che molti autori che apprezzo – come Mizuki Shigeru e, in certe fasi, Tezuka Osamu – tendono a contrapporre ambienti realistici a figure umane disegnate in modo deformed; in questi autori, però, spesso questo contrasto tra elementi è mediato da una qualche uniformità stilistica – magari nello spessore del tratto o nella gestione dello spazio – cosa che non riuscivo a trovare nell’alternanza tra il volto di panpanya e il paesaggio cittadino.
A posteriori, è chiaro che questo senso di dissonanza che provavo tradiva un approccio erroneo alla struttura comunicativa del libro. In quelle occasioni avevo creduto erroneamente che l’oggetto dovesse essere valutato a partire da una serie di valori puramente legati alla piacevolezza visiva come, per esempio, il fatto che il disegno in copertina fosse memorabile o che, con un solo colpo d’occhio, questa esibisse delle peculiarità grafiche che potevano catturarmi e farmi interessare alla lettura. In qualche modo il mio approccio era legato a una disposizione psicologica che potrei definire come contemplativa:6 le cose si guardano e si apprezzano osservandole, in uno stato di attesa, sperando che la loro osservazione ci colpisca in qualche modo. Il guscio di An Invitation from a Crab, però, diventa più facilmente apprezzabile nel momento in cui il volume inizia a essere effettivamente usato come strumento. Con questo non mi riferisco solo al fatto che la copertina richieda un approccio “più complesso” dal momento che richiede anche di leggere una parte testuale, ma intendo dire che le parti esterne della raccolta iniziano a mostrare fattori di interessi nel momento in cui le usiamo come “basi” per un lavoro immaginativo – proprio come potrebbe succedere usando una mappa o un opuscolo di viaggio. Provo a spiegare meglio quello che intendo.
Iniziando a leggere la colonna di testo, ci troviamo di fronte a un racconto realistico in cui la narratrice riporta, con dovizia di particolari, un episodio bizzarro che la vede come protagonista. Passeggiando per la città, panpanya racconta di essersi imbattuta in un granchio che scorrazzava per strada; da lì inizia un inseguimento che termina di fronte a una pescheria. Ci sono due punti che secondo me andrebbero approfonditi, in relazione a questa storia.
Come dicevo, i fattori di apprezzamento di questa sovraccoperta non sono strettamente visivi quanto cognitivi; detto altrimenti, se prendiamo il racconto della caccia al granchio come elemento principale della sovraccoperta e lo mettiamo in relazione con gli altri (la mappa laterale e l’immagine sovrastante), notiamo come questi elementi possano servire a rendere più vivida l’immaginazione del lettore durante la lettura del testo. Uno può infatti usare l’immagine per visualizzare meglio la scena, così come può giocare con la mappa, rintracciando il percorso fatto dalla narratrice nel suo inseguimento. Non solo: se guardiamo l’aletta laterale oppure osserviamo la copertina del volume, tolta la sovraccoperta, troviamo altri elementi che ci possono aiutare a giocare ancora di più con il racconto. Nell’aletta della sovraccoperta, infatti, troviamo la foto di un granchio – con tanto di descrizione naturalistica sottostante – mentre la copertina rappresenta le basole di un percorso pedonale, che potremmo vedere come quello percorso dalla protagonista. Vediamo quindi come, in realtà, i vari elementi grafici “di superficie” del volume possano avere una funzione che non è direttamente grafica, ma servano a costruire un ambiente immaginativo per entrare nell’atmosfera generale della raccolta. Come dicevo, questo approccio non va a favorire tanto il lato percettivo “diretto” quanto quello che potremmo definire cognitivo (qui inteso come “non strettamente legato all’esperienza percettiva”). Poco prima ho parlato di “mappe” proprio perché la sensazione che a me sembra di provare, in questi casi, è simile a quella che provo quando devo organizzare un viaggio o un percorso di trekking e mi ritrovo a leggere, in anticipo, delle guide per comprendere i luoghi da visitare e i percorsi da prendere senza rischiare di perdermi. Anche in quei casi c’è una componente cognitiva alla base di questi oggetti rappresentazionali, che passa dalla combinazione di testo scritto, cartine, immagini e altri elementi che possono permettermi di orientarmi in modo efficace. Passando alla seconda osservazione, è molto interessante notare come, già in questa breve storia iniziale, sia possibile trovare una serie di elementi tematici che saranno presenti in tutta la raccolta. Troviamo infatti:
Struttura “a diario”: le storie vengono quasi sempre innescate a partire da eventi bizzarri o fatti peculiari che irrompono nel quotidiano della protagonista. Questo rapporto tra quotidiano e non-quotidiano e la sovrapposizione fittizia tra l’autrice e la protagonista dei racconti permettono di concepire le storie come parti di una sorta di diario o di un taccuino. Questa impressione è anche rafforzata dalle riflessioni presenti nelle note, che sono spesso datate e servono a intervallare le varie storie.
Cura nelle descrizioni di artefatti, fenomeni naturali e pratiche sociali: qui ci stiamo riferendo sia a oggetti e fenomeni reali – che possono ritrovarsi anche nel nostro mondo – che finzionali, inventati di sana pianta da panpanya. In entrambi i casi, la visione di panpanya su simili questioni è quella di una naturalista che studia i fenomeni che si trova di fronte, provando a ricavarne conoscenze e leggi generali.
Interesse per il contesto urbano: panpanya predilige i contesti urbani per ambientare le sue storie. In ogni caso, anche nei casi in cui la narrazione avvenga fuori dalla città, la presenza di elementi antropici è costantemente presente. Detto questo, è comunque bizzarro notare come, nonostante le produzioni umane siano praticamente onnipresenti nelle storie di panpanya, l’autrice tenda a rappresentare spesso oggetti che non svolgono più la loro funzione primaria oppure il cui uso è praticamente incomprensibile. Si passa infatti da quartieri disabitati e oggetti inutilizzati fino ad architetture e prodotti artefattuali talmente bizzarri7 che – come succede spesso nella produzione di Sakabashira Imiri – è quasi possibile percepire questi stessi elementi come naturali, generati spontaneamente.
Umorismo basato sul paradosso: nel racconto che è presente in sovraccoperta, per esempio, l’humour deriva da una serie di fattori quali l’idea che un granchio sia un’animale che fa parte della fauna cittadina e il contrasto tra la minuziosa attenzione naturalistica di panpanya (tale da segnarsi anche il percorso fatto inseguendo il granchio) e l’ingenuità manifestata dal non aver notato il cartellino del prezzo attaccato al granchietto.
Riflettendoci, la copertina del volume è effettivamente un’ottima presentazione del volume, dal momento che al suo interno sono presenti una serie di elementi che un lettore può aspettarsi e ritrovare nella raccolta. La cosa interessante è che, in questo caso, questi aspetti non sono tanto veicolati dagli aspetti visivi del volume, ma richiedono un uso multifattoriale degli elementi che compongono la parte esterna dell’opera. Se qualcuno si fosse chiesto perché fosse così importante dedicare tutto questo spazio a un elemento “esterno” all’opera, ecco qua la spiegazione.
An Invitation from a Crab richiede al lettore, sin dall’inizio, un forte lavoro immaginativo, in modo da sintonizzarsi con i temi e con l’approccio psicologico che l’autrice avrà all’interno del volume. Da questa prospettiva, potremmo anche dare una lettura divertente al titolo stesso della raccolta, ripreso dalla storia che apre il volume. Quella che è descritta nella sovraccoperta e nella prima storia non è una “invitation” quanto una vera e propria caccia alla preda: la protagonista insegue il povero granchio perché vuole cucinarlo! Potremmo però intendere from a crab in senso metonimico: incontrare un granchio in una città è una cosa alquanto strana, sicuramente un evento inaspettato; potremmo quindi intendere invitation from a crab come un “invito” che ci viene fatto quando ci troviamo di fronte a eventi unici o bizzarri e abbiamo la sensazione che questi vogliano chiamarci a giocare con loro. La scelta di partecipare attivamente spetta poi a noi.
An invitation from a crab di panpanya
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Prima storia: Un invito da un granchio.
L’atmosfera immaginativa che possiamo creare esplorando l’esterno del volume trova uno sfogo più concreto con la prima storia della raccolta. Un invito da un granchio, infatti, altro non è se non la versione a fumetti del racconto sulla caccia al granchio che leggiamo sulla sovraccoperta. Stessa storia, due media differenti; questo mi porta immediatamente a fare una riflessione su una differenza espressiva fondamentale tra le due versioni. Nella versione presente sulla sovraccoperta il testo scritto è supportato da una mappa che ci permette di immaginarci in modo più nitido l’inseguimento, spingendoci a fantasticare sul tipo di traiettoria fatto dalla protagonista. In qualche modo la possibilità di mappare il percorso fatto dalla protagonista è parte del gioco che possiamo costruire con gli ingredienti che ci vengono forniti nella parte esterna del volume. Notiamo invece come questo aspetto legato all’orientamento e alla mappabilità dell’ambiente cada facilmente in secondo piano all’interno della controparte fumettistica: le scalinate e le strade percorse da panpanya sono infatti decisamente generiche e difficilmente potrebbero essere usate per immaginare un percorso uniforme. In questo non aiuta nemmeno la natura frammentaria delle sequenze e del disegno che rendono difficile fare una ricostruzione spaziale accurata dell’inseguimento. Ciò che a me pare enfatizzato, casomai, è la verticalità delle architetture e dello sviluppo urbano, oppure il senso di frenesia che l’autrice esprime con continui cambi di tratto durante l’inseguimento. In questo senso, credo che il fumetto esprima molto bene un senso di dispersione all’interno degli ambienti cittadini che è praticamente assente nella prima versione della storia. Continuando a parlare della versione a fumetto della storia, comunque, una cosa che mi colpisce particolarmente del disegno di panpanya8 è il contrasto tra due diverse modalità di disegno, legate a ciò che l’autrice vuole rappresentare. La prima di queste modalità può essere ritrovata in una rappresentazione molto dettagliata degli ambienti, dei palazzi e degli oggetti; questa scelta dà spazio a viste suggestive ed esprime un solido senso di concretezza nella rappresentazione degli ambienti.9 Questa concretezza, però, sembra venir meno nel caso in cui a essere rappresentati siano la protagonista o gli altri comprimari. In tutti questi casi, la mia impressione è che la loro rappresentazione sia più evanescente, in un modo quasi contraddittorio. La materialità del corpo vivente della protagonista e degli altri è, infatti, spesso definito da un bianco intenso che viene delimitato da pochi tratti, molto sintetici ed espressivi. Sono proprio queste poche linee a dare volume ai personaggi dandogli un minimo di materialità, in modo da non farci percepire i loro corpi come quelli di fantasmi che fluttuano tra gli ambienti cittadini. Cosa questo contrasto tra la materialità degli ambienti e l’immaterialità dei personaggi voglia esprimere è qualcosa su cui riflettere in seguito.10
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Sono nei pressi di casa mia, eppure mi sembra di vedere tutto con occhi nuovi, forse perché sto inseguendo un granchio.
Affermazione bizzarra. Qui panpanya sta riflettendo sul fatto che, in qualche modo, ci sia un legame causale tra le sue capacità percettive e il fatto di star inseguendo un granchio, come se l’azione che sta compiendo cambiasse il modo in cui vede le cose intorno a sé. L’autrice sta, quindi, facendo una precisa affermazione sulla natura della sua esperienza personale: il modo in cui lei può vedere12 una stessa cosa può variare sensibilmente a seconda di cosa sta facendo. Ciò che si sta affermando, quindi è che vi sia un legame tra cosa cerchiamo dall’ambiente intorno a noi e il modo in cui noi lo esperiamo. Le stesse strade che la protagonista percorre ogni giorno per andare a scuola sembrano diverse nel momento in cui i suoi obiettivi concreti sono differenti dal solito. Normalmente lei percorre la strada con l’obiettivo di andare a scuola, qua però quegli stessi spazi devono essere percorsi per inseguire un granchio! L’idea che i nostri obiettivi pratici abbiano un qualche effetto sul modo in cui percepiamo le cose è un’idea ormai affermata in diversi ambiti di ricerca;13 ciò che è interessante notare, però, è come panpanya ricavi questo tipo di teorie senza richiamare esplicitamente delle teorie scientifiche. La maggior parte delle idee che l’autrice presenta nel corso della raccolta, parlando della natura della sua esperienza personale, sono ricavate infatti da una sottile osservazione dei suoi processi interiori, di ciò che le succede direttamente interagendo con il mondo. Mi permetto di sottolineare questi punti perché, nel corso della raccolta, il rapporto tra esperienza e obiettivi pratici tornerà a più riprese, con diverse variazioni. A volte, per esempio, panpanya potrebbe essere interessata a capire come la nostra percezione cambia in relazione ai ricordi, altre volte alle abitudini, altre ancora alle aspettative e così via.
Un altro tema trasversale che emerge da questo racconto, direttamente legato alla questione della percezione, è quello della quotidianità. Se dovessi fare un’osservazione evocativa, ma un po’ esagerata, direi che l’interesse per il quotidiano è il nucleo essenziale di tutta la produzione di panpanya. Qui con quotidiano non mi riferisco a qualcosa di carattere sociale o lavorativo, ma sto parlando di una sua caratterizzazione puramente psicologica. Tutti noi sviluppiamo delle routine e delle abitudini che rendono, per periodi di tempo più o meno lunghi, più stabili le nostre esperienze. Magari facciamo sempre la stessa strada per andare a lavoro, le nostre giornate si suddividono in attività molto simili tra loro, impostiamo una dieta che richiede una regolarità nei pasti, qualche sera della settimana possiamo dedicarla a uscire o a guardare un film con gli amici, … questi sono solo alcuni esempi di pratiche che vanno a costituire il quotidiano di una persona. Il quotidiano, in altre parole, è quell’insieme di abitudini, aspettative, rituali, sensazioni e comportamenti ripetuti che sono associati allo stile di vita di un individuo. Da questo punto di vista, ognuno di noi ha un quotidiano differente. È anche vero, però, che possono esistere somiglianze tra le quotidianità di individui diversi; spesso queste regolarità sono legate a fattori caratteriali, materiali, culturali. Ciò che sembra interessare a panpanya è proprio questo concetto di quotidianità e il modo in cui l’inaspettato può entrare nelle nostre abitudini; Un invito da un granchio è un racconto esemplificativo, da questo punto di vista. La storia inizia con un evento inatteso, che non fa parte della quotidianità della protagonista. Questo la porta a vivere una breve avventura in cui il percorso che vede ogni giorno acquista un senso differente, totalmente nuovo. L’episodio della caccia al granchio, però, è solo uno dei possibili approcci al tema; in realtà il rapporto tra quotidiano e non-quotidiano ha una struttura molto più variegata e complessa in panpanya.
Prima nota: Atmosfera.
È sufficiente concludere la prima storia per vedere come il tema del quotidiano emerga con un’accezione abbastanza diversa a pagina 9, con la prima nota. Ai miei occhi lo scritto ha il fascino di una riflessione notturna, in cui qualcuno, alla fine di una lunga giornata, inizia a pensare a qualcosa che gli è rimasto particolarmente impresso. Quando riconosciamo un evento come strano o peculiare, può succedere che in qualche modo questo sia già implicitamente “carico di teoria” per noi; magari ci colpisce perché abbiamo qualcosa da dire a riguardo e non viceversa. Dopodiché, in un momento di riposo, abbiamo il tempo e la disposizione d’animo adatta per lasciare che questo “carico teorico” vada a dispiegarsi, mentre ci perdiamo nella riflessione; non è forse nemmeno importante che si arrivi a un vero e proprio risultato concettuale, ma è sufficiente che il pensiero vada a orientarsi secondo ciò che ci ha colpito. In questo caso, ciò che la protagonista coglie è qualcosa che lei chiama atmosfera, che si manifesta notando l’austerità nella voce del presentatore di un vecchio notiziario. A partire da questo anomalo tessuto di sensazioni uditive, in particolare a partire dal modo chiaro e nitido di parlare del presentatore, l’autrice trova una rottura con la propria esperienza quotidiana, con il modo in cui il parlato televisivo fa parte della sua attuale esperienza abitudinaria. Proprio come nella storia precedente, ciò che si nota è qualcosa di anomalo, che non fa parte del modo in cui la nostra esperienza è standardizzata: nel caso della caccia al granchio questo generava esaltazione e frenesia, ad andare incontro a sentieri inesplorati. Qui invece, la novità ha un carattere calmo e riflessivo, innescando una riflessione generale. A partire da questa “anomalia atmosferica”, l’autrice inizia a immaginare le possibili ragioni che portavano i conduttori a preferire un modo così impostato di parlare. Un primo risultato – ammetto, abbastanza inaspettato anche per me a una prima lettura – che l’autrice indivua può essere tranquillamente inscritto nelle linee teoriche tracciate dal Benjamin dell’Opera d’arte sul rapporto tra tecnologia e percezione. Di fatto, l’autrice fornisce un chiarissimo esempio sul modo in cui gli strumenti tecnologici di un certo periodo storico abbiano un effetto forte sul modo in cui la percezione degli individui va a strutturarsi. panpanya ipotizza infatti che la scelta di articolare i discorsi in un modo ‘sì regimentato dipendesse dalle caratteristiche tecniche della strumentazione microfonica del tempo, che aveva bisogno di un certo tipo di stimolazioni acustiche perché funzionasse in modo efficace. A partire da un bisogno legato alla strumentazione tecnologica, certi tipi di strutture percettive si sviluppavano, quindi, e diventavano un elemento comune, parte della quotidianità di chiunque seguisse la televisione al tempo. Con il cambiamento degli strumenti tecnologici, sono anche cambiate le performance vocali richieste ai presentatori e, di conseguenza, anche l’atmosfera sonora associata. Seppur l’ipotesi non venga confermata, la riflessione è sicuramente suggestiva e denota un’attenzione molto profonda sul ruolo che gli strumenti tecnici hanno sulla nostra esperienza. A fianco di questa bella riflessione, però, vedo anche una declinazione del tema del quotidiano che si distacca dal modo in cui questo era stato trattato in Un invito da un granchio. In entrambi i casi troviamo la stessa dinamica, in cui un’anomalia dà vita a qualcos’altro, dicevo già prima. Ciò che però è davvero interessante notare è che, in questo caso, a innescare un senso di dissonanza dal nostro quotidiano è qualcosa che, in tempi più lontani, era stato parte del quotidiano di qualcun altro. Non a caso, panpanya sembra quasi proporre un criterio di classificazione storica delle atmosfere, connesso alle risorse tecnologiche del periodo. Ciò che mi ha colpito, e che meriterebbe un approfondimento, è quindi la sensibilità che panpanya dimostra nel riconoscere una cosa che, per quanto scontata, non riusciamo facilmente a tenere a mente: il fatto che quella che ho chiamato quotidianità abbia una vita vera e propria e che, proseguendo lugubremente con questa metafora biologica, arrivata a un certo punto anche questa muoia. Quando questo succede, ciò che prima ci sembra evidente e ovvio diventa estraneo e meno immediato da comprendere; in qualche modo si distacca dalla nostra vita. In modo speculare a ciò che avviene nel caso della strada per andare a scuola nel racconto precedente, finché qualcosa fa parte della nostra quotidianità, per noi appare come familiare. È solo distanziandosi dal contesto quotidiano in cui viviamo certe cose, però, che notiamo alcune caratteristiche che non avremmo potuto cogliere altrimenti.
Secondo appuntamento: 17/10/2025
Seconda storia: Ricordi incomprensibili.
Un aspetto grafico su cui mi sono concentrato commentando la prima storia (Un invito da un granchio) è la rappresentazione dell’ambiente urbano. Questo aspetto è centrale nella produzione di panpanya, quindi spero non sorprenderà se, nel corso del commento, vi farò spesso richiamo. La descrizione di ambienti antropizzati, però, non è l’unico elemento “materiale” che ricorre in modo continuativo nelle storie dell’autrice. Già in questo secondo racconto, infatti, troviamo un’altra caratteristica centrale nella produzione artistica di panpanya: l’attenzione accurata per gli artefatti.
14 d’ora in avanti userò anche termini come “oggettistica” e simili con questa specifica accezione. Che tipo di artefatti vuole descrivere panpanya, leggendo le sue storie? In realtà, oggetti di tutti i tipi: si passa da oggetti di uso quotidiano a produzioni fantastiche ed esotiche, di difficile comprensibilità. I motivi alla base di questa attenzione possono essere molteplici: in questa storia, per esempio, l’accurata descrizione dell’oggettistica ha sia un valore simbolico – nel momento in cui l’incapacità di decifrare i regali della nonna si lega alla rarefazione del ricordo – che uno umoristico. Ciò che è interessante notare, però, è come panpanya usi “tutti gli aspetti” che compongono gli artefatti che descrive nelle sue storie. Mi spiego meglio. Un artefatto è solitamente composto da un aspetto materiale/strutturale (come è fatto, il materiale di cui è fatto, …) e uno funzionale (per quale scopo è stato costruito, come deve essere usato) che vanno a interagire. Un martello è composto da un manico e da una testa; il primo solitamente fatto con un materiale flessibile e realizzato con una forma che rende facile l’impugnabilità. La seconda, invece deve essere fatta con un materiale resistente, che permetta di battere l’oggetto efficacemente. Impugnabilità e martellabilità sono delle funzioni che sono realizzate dalla “materia” che compone il martello: l’oggetto è fatto per compiere certi compiti e la materia viene manipolata da chi lo progetta per svolgerli al meglio. Ecco, quando dirò che panpanya usa l’oggettistica in modo inusuale potrei riferirmi a entrambi questi aspetti. Ci sono dei casi – come questa storia – in cui l’oggetto che viene inventato dall’autrice è bizzarro sia a livello materiale, sia a livello funzionale; ci sono, però, anche dei casi in cui a livello materiale l’oggetto che panpanya descrive è affine alla nostra quotidianità, ma è il modo in cui è usato a risultare stravagante. Simmetricamente, troveremo anche delle situazioni in cui un oggetto svolge una funzione affine alla nostra esperienza quotidiana, ma a partire da una struttura materiale totalmente inaspettata. In questo senso, possiamo parlare di un vero e proprio realismo artefattuale nella produzione di panpanya, nel senso in cui l’autrice sembra catturare e manipolare al meglio gli aspetti essenziali che caratterizzano la produzione di oggetti.15 Passiamo alla storia. Come dicevo, due aspetti che mi hanno colpito particolarmente di questa seconda storia possono essere compresi solo concentrandosi sugli assurdi giochi che la nonna regala a panpanya, nei suoi ricordi. Da una parte c’è sicuramente un aspetto umoristico. A occhio, credo che la presa comica del racconto dipenda principalmente da due aspetti strettamente interconnessi. Il primo riguarda, sicuramente, la stravagante ergonomia degli oggetti che, da semplici giocattoli esotici, iniziano a diventare sempre più incomprensibili, fino a sembrare artefatti provenienti da una storia di fantascienza. Questo senso di paradossalità comica è accentuata anche dall’uso della ripetizione a pagina 12, in cui i regali aumentano gradualmente di complessità.
Inoltre, questi strani oggetti vengono anche presentati come regali. Se fatto come gesto di affetto, un regalo è un’azione in cui porgiamo a una persona qualcosa che abbiamo a cuore o che – ipotizziamo – il ricevente possa apprezzare. Passiamo quindi al secondo aspetto comico della vicenda, ovvero l’incomunicabilità – per usare un’espressione un po’ pacchiana e volgarizzata – tra nonna e nipote.
mood del racconto non intende mai essere né paranoico né dissacrante. Al contrario, l’atmosfera che si respira nel racconto è leggera e giocosa, seppur con una nota malinconica. Di fronte agli assurdi regali della nonna, panpanya reagisce con il leggero imbarazzo che hanno i bambini quando non capiscono “il mondo degli adulti” e, anche nel finale, il ricordo della nonna viene trattato in modo ironico e vagamente dolce. Oltre alla funzione umoristica, come accennavo già prima, uno potrebbe anche analizzare l’uso dei regali del racconto per trovare anche un aspetto simbolico. In qualche modo regalare è un atto comunicativo, dal momento in cui pensiamo che la funzione che un oggetto svolge possa dire qualcosa della relazione che abbiamo col ricevente; comprendere perché ci viene regalato un artefatto, quindi, vuol dire anche comprendere le intenzioni del regalo. Il punto, però, è che spesso non comprendiamo molte cose dei comportamenti altrui, specialmente nel rapporto che abbiamo con persone che abbiamo vicine. Il comportamento, anche benevolo, di certe persone può sembrarci totalmente impenetrabile certe volte e potremmo rimpiangere di non aver compreso qualcuno. Nel caso di panpanya, l’incapacità di comprendere i regali si lega all’incapacità di comprendere le intenzioni della nonna – il suo mondo privato potremmo dire. Questo aspetto, è ripreso proprio nel finale, che racchiude un po’ tutti gli elementi che ho discusso finora. La lettera della nonna – uno degli oggetti comunicativi per eccellenza – si pone proprio in continuità con gli altri regali: un artefatto che non permette di comprendere le intenzioni di chi lo produce e che, a prima vista, non sembra avere una chiave d’uso come tanti altri giocattoli. Seppur la cosa venga trattata con leggerezza dall’autrice, è comunque innegabile, però, che vi sia un elemento malinconico nel fatto che questa impossibilità di comprendere un’altra persona venga poi assimilata nei nostri ricordi, lontano dalla nostra vita attuale.
Seconda nota: Distacco.
Aspetti rarefatti e, a tratti, malinconici possono essere ritrovati anche in questa seconda nota che presenta una struttura generale molto simile alla prima. Anche in questo caso, infatti, l’autrice apre il suo appunto parlando di un’esperienza quotidiana (buttare la spazzatura la sera) durante la quale nota un aspetto bizzarro; questo aprirà a riflessioni e ipotesi legate alla sua interiorità.
L’analogia tra le due note, in realtà, si presenta solo a un livello molto generale, dal momento che questa parte scritta – apparentemente semplice, ma dotata di una notevole densità riflessiva – presenta degli obiettivi speculativi diversi. In Atmosfera, l’autrice individua un particolare elemento psicologico – quella “atmosfera” che dà il nome alla nota, appunto – dandone una descrizione introspettiva. Dopodiché panpanya inizia a fare delle ipotesi per provare a capire quali siano le radici di questo fenomeno, correlate a fenomeni esterni. La nota, quindi, si presenta esclusivamente come avente una struttura esplicativa: l’autrice ha un fenomeno di fronte e prova a capirne le cause formulando ipotesi astratte. Anche nel caso di Distacco esiste effettivamente un elemento descrittivo, in cui l’autrice individua un particolare effetto psicologico e prova a razionalizzarlo; ciò che differenzia questa nota dalla precedente, però, è la presenta di un elemento sperimentale al suo interno. In questo commento la produzione di panpanya verrà spesso considerata come un ibrido tra un taccuino per le osservazioni scientifiche e un diario. Un diario può essere usato per compiere tante azioni diverse, ma lo stesso può valere per un taccuino osservativo. Uno scienziato può infatti usare un taccuino come un supporto cognitivo per aiutarsi nei calcoli, ma può anche usarlo per appuntarsi dei risultati, progettare esperimenti o abbozzare modelli grafici. Rimanendo all’interno della metafora di An Invitation from a Crab come taccuino, la prima nota può essere considerata come il prodotto di una ricercatrice che prova a comprendere i motivi dietro a un fenomeno. Una chimica si trova di fronte a un’inattesa reazione polimerica e prova a ipotizzarne le cause, segnandole su dei fogli. In questa seconda nota, però, panpanya non è solo intenzionata a descrivere un fenomeno, ma a comprenderlo per costruzione; in qualche modo, qua l’autrice è da intendere come una tecnica di laboratorio che vuole capire come manipolare degli elementi per accrescere la sua conoscenza del mondo. A differenza di una studiosa di chimica, però, ciò che panpanya prova a “manipolare” per accrescere le sue conoscenze sono i suoi stessi pensieri, i suoi ricordi e le sue sensazioni, in modo da avere accesso a nuove strutture di senso. Spero che alla fine di questo commento si possa capire meglio ciò che intendo.
Come dicevo, la nota inizia da un contesto quotidiano, mentre panpanya sta andando a buttare la spazzatura. È sera, la poca luminosità naturale permette di scorgere un aereo che brilla nel cielo.
Fin qua, tutto normale. L’animo di panpanya, però, viene scosso nel momento in cui pensa al fatto che, all’interno dell’aereo, ci siano effettivamente delle persone che, come lei, stanno vivendo la loro vita. Questo pensiero elicita nell’autrice un sentimento di distacco – da qui il nome della nota – che diventa la base per la sua indagine. L’idea è che, sì, panpanya sta provando questo turbante sentimento; cosa potrebbero provare, però, le persone sull’aereo che stanno guardando sotto di loro? Anche loro provano un sentimento analogo? Prima di rispondere alla domanda – in modo molto brillante aggiungerei – l’autrice individua una gradualità di tipi nel sentimento di distacco:
Dato che gli aerei volano in genere a diecimila metri di altezza, in pratica si trattava di un veicolo che si muoveva a una distanza di appena dieci chilometri da terra, eppure il senso di distacco era rafforzato dal fatto che si trovava in cielo.16
Da questo denso passaggio possiamo ricavare che il sentimento di distacco può essere, sì, legato alla distanza spaziale; le distanze, però, non hanno tutte lo stesso valore nel provarci un sentimento di distacco.
Detto altrimenti, pensare a una persona che vive a dieci chilometri di distanza da casa nostra mentre è impegnato negli obblighi casalinghi o lavorativi ci potrebbe provocare un sentimento di distacco diverso rispetto a pensarlo sopra un aereo che vola a dieci chilometri di altezza. Cosa cambia? Rimanendo in linea con l’apparato concettuale dell’autrice, potremmo notare una differenza rilevante nel tipo di ambiente che i due soggetti stanno vivendo. Mentre panpanya pensa alle persone dell’aereo, si ritrova in un contesto cittadino; la notte sta calando, siamo intorno all’ora di cena, accanto a lei – plausibilmente – ci sono altre persone che si riposando o si stanno preparando per affrontare la giornata successiva. I piedi di panpanya sono ben ancorati al suolo e, intorno a lei, ci sono quegli oggetti materiali e direttamente toccabili, afferrabili, che troviamo in un contesto cittadino. Una persona che sta viaggiando in aereo, al contrario, è circondato da un ambiente molto diverso, composto perlopiù da elementi paesaggistici se uno sta vicino a un finestrino. Lo spazio da esplorare è assai più limitato, le cose che potremmo toccare sono molte meno e non è nemmeno chiaro se possiamo dire che chi è su un aereo è “ancorato al suolo”.
Ora, plausibilmente il senso di distacco è proprio legato al fatto che, pensando ai passeggeri, l’autrice si ritrova a immaginarsi un ambiente “materiale” molto distante da quello che sta vivendo in quel momento. Dal momento che, però, la distanza tra i passeggeri dell’aereo e panpanya è la stessa – seppur “invertita” – c’è da chiedersi se anche loro provino un sentimento analogo. È qui che entra in gioco l’aspetto sperimentale della nota, che la differenzia da Atmosfera.
Per comprendere cosa un passeggero di un aereo o un pilota possano provare guardando la città, panpanya decide di usare una via introspettiva: “comprendere un sentimento” qui è inteso come un
processo in cui cerchiamo, con l’immaginazione, di metterci nei panni di un’altra persona. Dal momento che l’immaginazione è anche legata ai nostri sentimenti, se riusciamo efficacemente a immaginarci la situazione in cui sta vivendo una persona, plausibilmente dovremmo provare anche sentimenti analoghi, o no? In realtà non è detto. In primo luogo, non è chiaro se i sentimenti che proviamo quando immaginiamo qualcosa siano gli stessi che abbiamo quando viviamo direttamente quella stessa cosa – non immaginata. In secondo luogo, immaginare è sempre un’azione parziale, in cui “selezioniamo” delle cose da immaginare: rappresentarsi “interamente” una situazione sembra praticamente impossibile e, di conseguenza, può essere molto difficile immaginare le cose giuste per avere le giuste reazioni empatiche. L’immaginazione, però, non è solo un modo per “replicare la realtà col pensiero”, ma può essere usata anche in modi molto più interessanti come in questa nota panpanya stessa rende chiaro. La strategia dell’autrice infatti è quella di usare una forma di immaginazione analogica per provare a comprendere gli stati d’animo dei passeggeri dell’aereo. L’idea è proprio quella di isolare un’esperienza che l’autrice ha già avuto in vita sua e che sia sufficientemente simile a quella che vuole provare a capire e immergerla – per usare termini algebrici – nel nuovo contesto immaginativo. Concretamente, panpanya prende come riferimento un’esperienza che ricorda bene – il sentimento che si prova quando, in autostrada, si vedono delle case lontane – e la usa per immaginarsi cosa potrebbe provare un passeggero dell’aereo.
Mi è riaffiorata alla mente l’esperienza di quando viaggio in autostrada a bordo di una macchina. Il paesaggio che si vede dall’autostrada, che non ha vie laterali, trasmette un senso di distacco peculiare. […] Suppongo che un pilota, vedendo dal suo aereo le luci delle strade del mio quartiere, possa provare una sensazione simile.
In un certo senso, questa sovrapposizione analogica è molto sensata. Proprio come nel caso del viaggio in aereo, anche in autostrada ci troviamo circondati da un ambiente materiale che è composto da pochi elementi toccabili e molti intangibili. L’autrice, inoltre, specifica anche l’assenza delle vie laterali, per aumentare ancora di più l’idea che i luoghi che vediamo dall’auto siano effettivamente inaccessibili. Oltre a questo, anche quando viaggiamo in auto non possiamo dire di essere concretamente “ancorati al suolo”. In generale, è sensato descrivere un viaggio come quello autostradale come manchevole di concretezza e, da questo punto di vista, fioriscono le somiglianze con lo spostamento aereo. Dal momento che c’è una somiglianza sufficiente, quindi, è possibile usare il viaggio autostradale per comprendere quello aereo. L’aspetto pratico e sperimentale della vicenda sta proprio in questo uso costruttivo dell’immaginazione. Il ricordo del sentimento che leghiamo a una vecchia esperienza viene preso e viene “forzato” all’interno di una nuova costruzione mentale, in cui proviamo a capire se sia sensato provare certe sensazioni o se la nostra immaginazione “faccia resistenza”. Non solo, dal momento che l’analogia panpanya / pilota e abitante / guidatore tiene, l’autrice prova a usare l’esperienza che sta provando – quella di distacco, vedendo un aereo lontano – per comprendere quello che, invece, una persona esterna, che vive in prossimità dell’autostrada, prova pensando alle macchine che passano.
Terza storia: La storia dei pesci.
L’invenzione di artefatti stravaganti, in realtà, è solo uno dei modi con cui panpanya sperimenta con gli aspetti psicologici e sociali del quotidiano. Questa e la prossima storia (Innovation), infatti, sono in qualche modo simmetriche. Il contesto in cui entrambe le storie sono ambientate è quello lavorativo: in questa la protagonista lavora da pescivendola, nella prossima come operaia di fabbrica. La simmetria sta nel modo in cui panpanya usa la sua vena immaginativa per modificare le dinamiche che definiscono il lavoro a cui l’autrice è interessata. Ne La storia dei pesci, infatti, l’autrice inserisce un elemento completamente alieno alla nostra quotidianità per indagare come le pratiche lavorative cambierebbero, come i pescivendoli svilupperebbero nuove strategie per trattare questo nuovo elemento inventato dall’autrice. Al contrario, Innovation mostra come possano esistere modi assurdi e imprevedibili alla base della produzione di una risorsa – l’energia elettrica, in questo caso – senza che vi sia niente di esterno. È la pratica stessa a essere descritta come lontana dal nostro mondo, in quel caso.
La storia dei pesci, il racconto mostra come la capacità immaginativa di panpanya non sia solo legata agli artefatti, ma trovi una controparte anche nel mondo organico. Al centro del racconto sono i sugarelli parlanti, specie inventata dall’autrice che ha sviluppato una peculiare strategia evolutiva per sopravvivere alla pesca umana: i sugarelli parlanti sono infatti capaci di imitare la lingua parlata, in modo da impietosire i pescatori e aumentare le loro chances di sopravvivenza.
L’idea stessa di un’imitazione apre il campo a riflessioni variegate sul nostro rapporto con gli animali non-umani: i sugarelli stanno solo imitando o c’è un barlume di consapevolezza dietro i loro atti linguistici? Siamo davvero capaci di distinguere i due casi? La questione getta un aspetto crudele su tutto il racconto che – in ogni caso – va tenuto costantemente di conto, specie se messo in relazione all’universo lavorativo descritto dall’autrice. Come dicevo, un aspetto affascinante della sperimentazione di panpanya è il modo in cui mostra come i sugarelli parlanti abbiano delle conseguenze sulle pratiche ittiche. Detto altrimenti, ciò che possiamo notare con interesse è come l’esistenza dei sugarelli parlanti abbia portato dei pescivendoli a elaborare nuove strategie di lavoro che, in altri casi, non esisterebbero. Uccidere animali vivi per la produzione di cibo è un lavoro ingrato e crudele, che plausibilmente nessuno vorrebbe svolgere. Nel racconto di panpanya, però, questo aspetto viene ancora più accentuato. Mentre panpanya si ritrova nella situazione di dover uccidere un sugarello parlante per la prima volta per preparalo alla vendita, le emozioni che prova sono contrastanti e divisive, tanto che la protagonista non riesce neppure a compiere l’atto.
panpanya, esclamando:
Ah Ah Ah! La prima volta è così per tutti! […]
Non ti era mai capitato di pulire dei pesci parlanti?17
Inoltre, poco dopo:
Un principiante, sentendoli, potrebbe pensare di lasciarli andare. Ma noi siamo dei professionisti!18
Queste affermazioni suggeriscono non solo che un professionista dell’ambito ittico non debba esitare, passando sopra alla crudeltà del gesto, ma osserva che le sensazioni provate da panpanya sono, in qualche modo, una forma di iniziazione, di rito di passaggio che tutti i pescivendoli degni di tale nome devono passare. Questa situazione suggerisce che, nel mondo in cui i sugarelli parlanti esistono, agli sfilettatori di pesce sia richiesto qualcosa di ancora più crudo rispetto a quelli del nostro mondo, dal momento che viene richiesto loro di sopprimere dei potenziali dubbi sulla natura cognitiva dei sugarelli. Questa attenzione per le pratiche specialistiche non riceve, però, un’enfasi esclusivamente psicologica, ma anche concreta. Tra pagina pagina 18 e 19, infatti, ci troviamo di fronte a una dettagliata rappresentazione del metodo di sfilettatura normalmente attuato per i sugarelli parlanti; evento che avviene proprio davanti agli occhi dell’incerta protagonista. Come dicevo, il processo è molto curato e rappresentato con minuzia di particolari, quasi a voler enfatizzare l’intento dimostrativo (e quasi manualistico) dell’operazione.
Un invito da un granchio.
Prendiamo il ritaglio che va da pagina 17 a pagina 18. Mentre è ancora in vita, il sugarello parlante è rappresentato con uno stile di disegno molto simile a quello della protagonista e di altri personaggi presenti nei racconti. Nel momento in cui, però, il povero sugarello inizia a essere sfilettato, il disegno diventa molto dettagliato e materiale, con uno stile analogo a quello usato dalla protagonista per rappresentare oggetti inanimati e ambienti cittadini. Ci sarebbe da riflettere su questa scelta stilistica, proprio perché trova un caso analogo nel racconto che apre la raccolta.
La mia ipotesi è che, in certi casi, panpanya alterni due modalità di rappresentazione per descrivere una stessa cosa a partire da come questa è percepita dalla protagonista. Scartando altre proposte interpretative che ritengo sbagliate e che allungherebbero inutilmente il commento, credo che la lettura più adatta è che questo cambio di stile possa essere presente in due casi: il primo è quando la protagonista-autrice non considera certe cose come oggetti mentre il secondo caso riguarda il fatto che la protagonista sviluppi una carica affettiva o un rapporto peculiare con certe cose. Per spiegare il primo punto possiamo considerare proprio questa storia: nel momento in cui il malcapitato sugarello viene sfilettato, questo cessa, anche agli occhi della protagonista, di essere un organismo vivente che può interagire con lei, ma diventa del cibo, un oggetto di consumo. Allo stesso modo, il granchio di Un invito da un granchio viene rappresentato realisticamente dalla protagonista dal momento che il suo obiettivo è proprio di mangiarselo. Il fatto che lo stile di disegno del granchio cambi, diventando simile a quello di panpanya, nel momento in cui lei lo prende in braccio per trasportarlo potrebbe invece rispecchiare proprio il secondo caso. La protagonista è ancora intenzionata a mangiarsi il povero crostaceo, ma il fatto di averlo preso con sé toccandolo ed entrando in contatto con lui lo rende, in qualche modo “unico”, segnando un qualche tipo di (crudele) avvicinamento affettivo.
Quarta storia: innovation.
Seguendo l’ordine della raccolta, innovation è il primo racconto a superare le poche pagine di estensione, arrivando intorno alla trentina. Una domanda che può sorgere spontanea è se questo cambio di formato abbia una conseguenza non banale19 sulle caratteristiche della narrazione, differenziando la storia dalle precedenti. Il discorso è complesso. Possiamo notare, prima di tutto, che, seppur a fronte di una maggiore quantità di pagine, la struttura più generale delle storie di panpanya resta immutata: c’è un evento bizzarro che avviene / la protagonista nota qualcosa di strano – quasi un mistero da risolvere – e la storia si conclude con la fine dell’investigazione sull’evento, che può avere risoluzione sia positiva che negativa.20 Questa impostazione quasi-investigativa viene mantenuta anche in innovation. Ciò che mi colpisce, però, è come la maggiore estensione della storia abbia una conseguenza su come questa astratta struttura narrativa vada a concretizzarsi. Prendiamo, per esempio, le prime tre storie della raccolta. Le poche pagine di Un invito da un granchio danno una natura più impressionistica al racconto: nelle poche pagine che compongono il racconto la protagonista non può dare spazio a troppi pensieri che – al contrario – si presentano come frettolosi e frammentari. Analogamente, questa frammentarietà può essere ritrovata proprio nella composizione dell’inseguimento, in cui gli ambienti si susseguono in modo disomogeneo. Se penso a ciò che provo mentre devo correre per inseguire qualcosa – che sia un autobus o altro – posso notare che l’ambiente che percepisco intorno a me diventa parziale e meno vivido; sicuramente questa parzialità è legata al fatto che io sia concentrato verso un obiettivo e non abbia tempo e modo di osservare con calma i dintorni. Questo aspetto di incompletezza è, in qualche modo, catturato dalla storia, anche in virtù della sua brevità materiale. Se pensiamo, invece, a Ricordi incomprensibili e al La storia dei pesci, entrambe le storie sono impostate come un investigazione che non trova soluzione. Da una parte le intenzioni della nonna rimangono impenetrabili, dall’altra rimane insoluto se i sugarelli parlanti siano davvero consapevoli di ciò che stanno dicendo. È vero che la struttura generale dei racconti di panpanya è spesso definibile come quasi-investigativa, però vorrei far notare che un’investigazione può avere varie forme. Poniamo di leggerci un bel romanzo giallo in cui però, alla fine di estenuanti investigazioni, il caso si rivela così complesso che l’assassino non viene trovato. Qui la mancata risoluzione del caso può esprimere vari sentimenti: l’incertezza del detective, il senso di difficoltà nel comporre delle prove o il senso di paranoia legato alla paura di accusare un innocente. Plausibilmente un romanzo che vuole esprimere questi stati d’animo sarà favorito nel caso in cui il libro fosse particolarmente lungo. Anche nel secondo e nel terzo racconto di An invitation from a crab ci troviamo di fronte a degli interrogativi irrisolti; la lunghezza di entrambe le storie, però, veicola un altro tipo di sentimenti. Da un certo punto di vista, entrambi i racconti possono essere viste come degli enigmi, degli indovinelli, delle sorte di kōan che servono a chi legge per riflettere su alcune questioni.
Passiamo ora a innovation. La lunghezza di innovation può essere interessante se messa in rapporto a questioni che riguardano il senso di ripetizione lavorativa che possiamo trovare nella storia. Innovation si svolge in due ambienti principali: la scuola in cui panpanya studia e la centrale elettrica in cui svolge un lavoro part-time. Ora, concentrandoci sull’ambiente più importante dei due per la narrazione, la centrale richiama, molto più in generale, alcuni dei grandi temi dell’arte tra ‘800 e ‘900 come quello della vita in fabbrica, della conseguente alienazione dal proprio prodotto da parte degli operai o, ancora, della meccanizzazione del lavoro manuale. Tutti temi complessi e molto raffinati di cui possiamo trovare un’istanza anche all’interno di innovation. Ciò su cui vorrei concentrarmi, però, è il fatto che la lunghezza della storia permetta di costruire, in relazione alla centrale, una sorta di micro-quotidianità tutta interna alla storia. Chiunque abbia fatto un lavoro ripetitivo, che non ha veramente voglia di fare, per mettere da parte qualche soldo avrà provato probabilmente qualcosa di simile: esistono una dimensione e un ritmo che sono esclusivamente interni al lavoro e che, in qualche modo, influenzano anche ciò che dobbiamo fare fuori dal lavoro. Se, per esempio, dobbiamo presentarci abitualmente in un luogo di lavoro a una certa ora, probabilmente svilupperemo dei ritmi e delle abitudini che sono legati all’atto di andare a lavorare. Anche solo l’atto di compiere un percorso per raggiungere il luogo di lavoro, per esempio, potrebbe assumere una dimensione diversa, quasi rituale, che va a “prepararci” per “passare” all’interno di un mondo in cui vigono delle regole differenti. Questo aspetto è catturato molto bene da un parte del racconto compresa da pagina 28 a 30, in cui dei sobborghi malinconici e solitari accompagnano la protagonista nel suo percorso per il lavoro.
panpanya nasce da un interrogativo che riguarda il suo lavoro: in che modo il mio lavoro – quello di rompere ripetutamente delle noci di cocco – dovrebbe essere legato alla produzione di energia elettrica? Tornando ai grandi temi legati al lavoro di fabbrica a cui facevo riferimento prima, la domanda di panpanya può essere vista, sì, come una manifestazione più generale dell’alienazione operaia verso il prodotto finale del loro lavoro, ma anche come un’interrogazione che riflette uno specifico approccio investigativo sul rapporto tra oggetto prodotto e produzione. Ciò che interessa a panpanya qua non è tanto fare un’affermazione politica, quanto di comprendere questo assurdo processo che ha come risultato la produzione di energia elettrica. La ripetizione degli ambienti, concessa dalla maggiore lunghezza, qua ha sia una funzione simbolica che una climatica. Simbolica perché possiamo notare come, con il ripetersi degli ambienti e, parallelamente, con il procedimento dell’investigazione, l’architettura della fabbrica diventi sempre più deforme e opprimente. Il riferimento qua è alle pagine 44 – 46, che sembrano richiamare nel modo organico – quasi metastatico – del loro sviluppo una versione abbozzata delle forme del Blame! Di Nihei Tsutomu. In questo caso il fatto che la fabbrica sia anche per noi un ambiente familiare è importante nel momento in cui la protagonista, decidendo di addentrarsi nei meandri della centrale per scoprire la verità, viola un luogo a cui non avrebbe dovuto accedere. Scoprire il segreto della centrale equivale a valicare degli spazi che non associavamo alle nostre abitudini lavorative. Una volta valicato questo spazio, l’edificio diventa sempre più opprimente, costituendo una vera e propria costruzione simbolica del climax investigativo e comico della vicenda. La risoluzione di questo climax ha come conseguenza un travolgente effetto comico provato dall’assurdità della scena. Capiamo bene, però, come questo non sarebbe stato possibile senza aver descritto la centrale come un luogo – seppur sgradevolmente – familiare.
Quinta storia: Inferno.
Su questa divertente storia ho poco da dire, se non qualche rapida considerazione sul contrasto grafico-narrativo su cui gioca la narrazione. Mentre il titolo e le prime pagine sembrano presagire una situazione tragica e oscura, la risoluzione va a dissipare comicamente queste aspettative nefaste. Questo contrasto è incarnato anche dall’uso del colore: mentre le prime pagine sono dominate dalla presenza di acquerelli scuri che acuiscono l’atmosfera drammatica della scena, nell’ultima tavola i colori si schiariscono d’improvviso. Il bianco diventa infatti predominante e la quantità di testo aumenta nettamente dando l’idea, nel momento in cui si volta la pagina, che la tensione drammatica sia svanita e siamo davanti a una risoluzione inaspettata.
Terza nota: Oscillazione.
Se dovessi isolare il femomeno che la “ricerca psicologica” di panpanya vuole descrivere in questa nota, probabilmente parlerei del legame tra concentrazione e percezione interiore del tempo. Come in tanti altri elementi della raccolta, il processo che l’autrice vuole descrivere è innescato da un evento che viola le sue aspettative. Nello specifico, parliamo di un fenomeno visivo: la strana oscillazione di un albero porta infatti panpanya a interrogarsi sui possibili motivi di questo avvenimento. A muoverlo non può essere il vento, che è assente; che sia un bambino che è salito sull’albero per giocare? Oppure no, chissà. Questa anomalia percettiva porta l’autrice a concentrarsi, formulando un fiume di ipotesi da cui si lascia trascinare. A un certo punto, però, questo fiume viene interrotto da un’osservazione meta-riflessiva: questa continua formulazione di ipotesi sembrava un lavoro che era andato avanti per un arco di tempo molto disteso mentre, in realtà, non era durato poco più di una manciata di secondi. C’è quindi un legame tra concentrazione e passaggio del tempo interiore? Maggiore è la concentrazione che usiamo nello svolgere un’azione, più il tempo sembra dilatarsi nella nostra interiorità: questa è la regolarità interiore che panpanya sembra voler documentare indagando il proprio animo. Non è infatti un caso che, dopo che la narratrice ha descritto minuziosamente le proprie ipotesi per diverse righe senza trovare soluzione, vada poi ad affermare di aver avuto la sensazione di averlo [l’albero] osservato a lungo, mentre invece si è trattato solo di un breve istante. Che la nostra capacità attenzionale sia legata alla sua coscienza temporale è qualcosa che si ritrova spesso nella produzione giapponese. Anche solo pensando a qualche titolo mainstream contemporaneo legato all’azione, un richiamo di questo fenomeno può essere ritrovato in grandi opere come Hunter x Hunter di Togashi Yoshihiro o Jujutsu Kaisen di Akutami Gege. Passando a casi meno popolari – ma sempre legati al tema dell’azione o dello sport – è possibile trovare dei fenomeni analoghi anche in forme più realistiche come quelle presenti in Shigurui di Yamaguchi Takayuki o all’interno di Ping Pong di Matsumoto Taiyō. Questi sono solo alcuni esempi ma, in generale, non è raro trovare un’attenzione particolare per fenomeni che riguardano l’alterazione della percezione del tempo in opere che descrivono azioni molto intense e condensate, come negli sport o nelle lotte. Molto più difficile è trovare racconti che esemplificano questi meccanismi in contesti quotidiani.
Terzo appuntamento: N.D.
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Note
L’ultimo volume pubblicato è Fish Society, uscito nell’agosto del 2023. ↩︎
Anzi, a volte può anche succedere che non ci sia niente da scrivere durante un viaggio. ↩︎
D’ora in avanti mi permetto di fare due operazioni indebite: la prima sarà riferirmi a panpanya usando il genere femminile; parlo di operazione indebita dal momento che il genere di panpanya è tutt’ora sconosciuto. Il motivo per cui decido comunque di usare il femminile è – ahimé – per la mia mancanza di abitudine nell’uso del neutro nei contesti più formali in cui devo usare la lingua scritta; per questo motivo ho deciso di accodarmi alla traduzione italiana, che si riferisce alla protagonista delle storie con il femminile. La seconda operazione indebita sarà proprio quella, in certi casi, di usare il nome panpanya sia per riferirmi all’autrice che alla protagonista delle storie; per fare ciò mi sento in parte legittimato dalla natura molto personale dell’opera, che permette un’identificazione tra autrice e personaggio fittizio. ↩︎
Degli esempi richiedono, solitamente, di andare verso forme più sperimentali di fumetto, come può succedere per il Rusty Brown di Chris Ware. ↩︎
Io per primo. ↩︎
L’espressione è volutamente pacchiana, perché spero riesca a dare l’idea di qualcosa che richiede un tipo di “immobilità” e passività esperenziale. ↩︎
Tanto che farne reverse engineering sembra praticamente impossibile. ↩︎
Prendo questa storia come riferimento, ma credo sia una riflessione estendibile a buona parte della sua produzione. ↩︎
Seppur spesso, in virtù di un uso decisamente bizzarro dei volumi, gli oggetti ambientali sembrano quasi capaci di deformare, curvare lo spazio intorno ai soggetti viventi. ↩︎
La mia idea è che questa differenza nelle modalità di rappresentazione sia legata a una distinzione che panpanya implicitamente fa tra agenti e ambienti. Ciò che ho più volte notato durante la lettura, infatti, è che la seconda modalità di rappresentazione è riservata a quel tipo di cose che possono agire attivamente con l’ambiente: esseri umani, pesci, salamandre et cetera. Questa idea entra in contrasto con un fatto abbastanza fondamentale, presente già in questo racconto: se quella che ho chiamato seconda modalità viene usata per gli agenti biologici, perché il granchio della storia è, invece, rappresentato con la prima modalità (ovvero in modo dettagliato, tendente al realistico)? Si osservi che, in realtà il granchio viene rappresentato in entrambi i modi durante il racconto: il secondo stile viene adottato nel momento in cui la protagonista lo prende con sé, entrandoci in contatto. La mia ipotesi (che ritornerà anche nel commento di uno dei racconti successivi) è che la seconda modalità valga per esseri viventi che panpanya non percepisce come oggetti: l’alternanza tra primo e secondo stile dipenderebbe, forse, dal fatto di considerare un po’ crudelmente il fuggitivo come qualcosa da mangiare (come un oggetto quindi) o come un essere vivente con cui interagire (nel momento in cui viene sollevato). ↩︎
Pag. 6, vignette 3,4,5. ↩︎
Io direi che, in questo caso, “vedere” può essere inteso in modo più generale come “avere esperienza”. ↩︎
Sicuramente dei testi sull’argomento possono essere trovati nella letteratura scientifica nata dalla produzione pionieristica di James Gibson. Altrimenti, se qualcuno non fosse troppo interessato ad approfondire le questioni dal punto di vista delle scienze psicologiche, mi viene a mente che questo concetto è stato presentato anche in un breve testo: Ambienti Umani e Ambienti Animali scritto dal biologo Jakob von Uëxkull, ultimamente riscoperto anche nell’ambito dell’ecocritica letteraria. ↩︎
In un senso ampio, anche gli ambienti urbani, le tradizioni, le costruzioni linguistiche e simili sono produzioni artefattuali. Io invece voglia parlare specificamente di oggetti maneggiabili, come gli utensili. Preferisco non usare il termine “utensile”, però, perché, come vediamo in questa storia, in realtà non è ben chiaro se gli oggetti descritti abbiano un qualche tipo di utilità pratica. ↩︎
Da questo punto di vista, sarebbe molto interessante approfondire la questione cercando affinità e differenze tra panpanya e altri importanti artisti pop che si sono interessati alla rappresentazione di oggetti meccanici o cimeli nel panorama giapponese, quali Otsuka Yasuo, Miyazaki Hayao, Okawara Kunio, Anno Hideaki, Otomo Katsuhiro, Toriyama Akira, Nagano Mamoru, Urasawa Naoki e tanti altri. ↩︎
Pag. 15. ↩︎
Pag. 18, vignette 5,6. ↩︎
Pag. 19, vignetta 5. ↩︎
Qui con “non-banale” mi riferisco a caratteristiche che non riguardino solo la maggiore quantità di immagini o cose simili. ↩︎
Nella prima storia, per esempio, la presenza di un granchio in un ambiente cittadino ha una risoluzione positiva e il mistero viene “risolto”. Nelle altre due storie brevi, al contrario, la situazione non arriva a una vera e propria soluzione, in questo senso possiamo considerarle “negative”. ↩︎
Etica, Dilemmi e Scelta in Togashi Yoshihiro
Questo articolo è stato scritto originariamente tra agosto e novembre del 2021. La mia intenzione iniziale era quella di pubblicarlo esclusivamente all’interno di una raccolta su fumetto e animazione, evitando di prendere un altro spazio sul blog di Matteo. Riflettendoci, non c’erano ragioni vere e proprie per non pubblicarlo online. Semplicemente, quando si scrive è anche bello sperimentare e variare gli ambiti di pubblicazione. In ogni caso, negli anni ho comunque passato il testo a vari amici come Matteo, Paolo Toti, Matteo Cardelli, Luca, Danilo Manzi e Lorenzo Di Giuseppe, che hanno fatto sempre seguire a un’attenta lettura delle fruttuose discussioni. Oltre a loro, lo scritto è arrivato anche a un’altra persona che ne è rimasta particolarmente entusiasta, tanto da voler scrivere un nuovo articolo che fosse (idealmente) il proseguimento del mio. Pensavo che fosse un’esagerazione, invece è andata effettivamente così: Settembre è il mese più crudele - perché vale la pena perdersi dentro York Shin City, che sarà presente in Keiko - Bedroom Comics Criticism #1, si pone proprio in continuità con Etica, Dilemmi e Scelta in Togashi Yoshihiro. Nonostante l’articolo di Keiko (che mi è stato già inviato) sia in linea di principio apprezzabile anche senza aver letto il mio, mi sembrava comunque una buona cosa che i lettori e le lettrici vi avessero accesso, in modo da avere sotto gli occhi il quadro completo. Spero la troverete una lettura gradevole.
Ecco perché i tipi troppo seri sono difficili da trattare.
Yū Yū Hakusho)
Introduzione
Quando ci approcciamo alle narrazioni (realistiche o meno) non è difficile ritrovarci a dare una valutazione morale degli eventi che ci si presentano davanti. Questo succede con ogni tipo di storia, dai romanzi, al cinema fino ai fumetti. Si potrebbe forse sostenere che, in qualche misura, ogni tipo di narrazione ha un impegno morale sottostante; allo stesso modo, però, è innegabile che in alcune opere questo valore traspaia con maggiore lucidità.
Devilman, Akira, Monster o Nausicaä della valle del vento è veramente difficile non notare una forte componente etica al centro dell’opera. Storie di questo tipo possono infatti avere un ruolo fondamentale per il lettore: Monster può portare a interrogarsi sul valore di certi dilemmi morali nel momento in cui la propria deontologia si trova in contrasto con un particolare contesto, mentre Nausicaä può farci riflettere sul modo in cui concepiamo la natura e come dobbiamo agire nei suoi confronti1.
2 e che alcune possano essere più adatte rispetto ad altre per questo ruolo. Lo scopo di questo articolo è mostrare che il mangaka Togashi Yoshihiro dovrebbe essere compreso tra gli autori che presentano un’attenta problematizzazione morale all’interno delle loro opere.
mainstream, in particolare per Yū Yū Hakusho (conosciuto in Italia come Yu degli spettri) e Hunter x Hunter (opere già considerabili come classici nella produzione giapponese); questo non implica però che l’autore scelga delle tematiche o delle narrazioni superficiali nelle sue opere3. Ciò che proveremo a sostenere è che nelle opere di Togashi la componente etica sia, infatti, fondamentale per comprendere la poetica stessa dell’autore.
Level E), mentre l’ultima si focalizzerà su quelle più famose.
Nausicaä e la Natura: Un'analisi critica del fumetto di Miyazaki Hayao di Yupa
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Etiche humeane a grana grossa
Come abbiamo già accennato, il quadro interpretativo che prenderemo come riferimento per analizzare le opere di Togashi vede come figura cardine il filosofo scozzese David Hume. Qualcuno potrebbe trovare questo richiamo a Hume nel ventunesimo secolo come anacronistico. Tale accusa è aggravata dalla sua applicazione a opere pop di recente pubblicazione, come quelle di Togashi.
4: da una parte assistiamo a una ripresa delle cosiddette etiche della virtù (di cui le etiche humeane fanno parte), da un’altra è innegabile un interesse sempre maggiore per argomenti come le emozioni o la natura sociale dell’uomo. Oltre a questo, le etiche humeane si prestano particolarmente bene a essere integrate in un quadro naturalistico, cosa che permette loro di interagire fruttuosamente con ambiti come la psicologia cognitiva e la biologia.
5.
etiche delle virtù6 e che abbiano una matrice sentimentalista.
compassione verso il paziente e al coraggio verso delle regole che si avvertono come scorrette. Notiamo già, quindi, che le etiche della virtù possono essere considerate come teorie in cui il contesto ha un valore fondamentale, così come lo hanno le intenzioni e le ragioni dell’agente. A differenza di altre teorie etiche, il carattere e i bisogni degli individui coinvolti nell’azione morale sono estremamente importanti per un teorico delle virtù. Questa idea si sposa benissimo con la seconda caratteristica delle etiche humeane, cioè il fatto che i sentimenti siano usati come risorse che ci permettono di distinguere un’azione virtuosa da una viziosa.
approvazione o di biasimo che proviamo di fronte a una certa azione7.
Predicati come “agire moralmente” andrebbero quindi ancorati a chi enuncia il giudizio morale.
“essere virtuoso/vizioso per x”.
8.
9. La cosa interessante è che in etiche di questo tipo uno spazio rilevante non è occupato solo dai sentimenti degli individui, ma anche dalla nostra capacità di comprendere le ragioni degli altri quando compiono particolari scelte. Chiaramente comprendere le ragioni altrui potrebbe non essere sufficiente per ritenere un’azione come virtuosa, poiché potremmo trovare un’azione riprovevole pur comprendendone le ragioni. Quello che è importante tenere a mente è che la comunicazione dialogica tra individui e lo scambio di punti di vista diversi ha un ruolo centrale all’interno delle etiche humeane.
10.
La regola del gusto e altri saggi di David Hume (a cura di Giulio Preti)
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Come abbiamo già accennato, un’idea centrale in queste teorie è che le scelte morali non siano realisticamente sganciabili dagli interessi e dai desideri degli individui11: quando ci troviamo a fare delle scelte, potremmo non essere “trasparenti a noi stessi” e desiderare cose estremamente differenti tra di loro. Questo potrebbe portarci a non saper decidere che azione compiere in un particolare contesto. Riassumendo, ci troviamo di fronte a teorie che relativizzano la distinzione tra morale e immorale ai singoli individui che giudicano un’azione e che potrebbero non condannare come immorale la possibilità da parte di un agente di non saper agire di fronte a certi dilemmi morali. Arrivati a questo punto, un’obiezione abbastanza ovvia che potrebbe essere mossa alla teoria che abbiamo presentato è questa: se un’azione morale è veramente fondata sui sentimenti che proviamo singolarmente, allora non è possibile un vero e proprio disaccordo morale12. È normale che, quando compio un’azione, io approvi ciò che sto facendo, in quel caso l’azione sarebbe buona per me. Io potrei, però, compiere un’azione che danneggia molte persone e approvare comunque la mia stessa condotta. In questo modo un assassino potrebbe compiere un’azione virtuosa almeno quanto può compierla un santo, dal momento che entrambi hanno delle ragioni e dei sentimenti che permettono di approvare le loro stesse azioni. Questo problema viene parzialmente risolto considerando il concetto di simpatia che Hume presenta nel Trattato sull’intelletto umano13. Con simpatia ci riferiamo a un meccanismo psicologico non-inferenziale che ci permette, in gradi diversi, di provare le stesse sensazioni esperite da un individuo quando si trova in una particolare situazione14. Quella della simpatia è una sorta di tendenza naturale che gli uomini hanno di immedesimarsi nei panni degli altri, comprendendo le loro passioni e i loro interessi. In questo senso, quando compiamo un’azione che sia utile o piacevole per gli altri noi possiamo sentire che questi provano un piacere derivante dalla nostra azione, proprio in virtù della simpatia. Allo stesso modo, la simpatia ci permette di comprendere quando arrechiamo danno a qualcuno.
disaccordo: un’azione morale non sarà solo un’azione che noi stessi approviamo, ma che potrà essere approvata anche dagli altri in un contesto più generale possibile. In questo modo l’azione di un assassino potrebbe essere approvata da lui, ma trovare una disapprovazione totale da parte degli altri. La simpatia si presenta quindi come una guida necessaria per imparare ad agire moralmente.
dipende dal contesto sociale in cui è effettuata e può essere continuamente perfezionata15 a causa della variabilità dei nostri rapporti sociali. Questa idea permette di considerare una visione dell’etica fortemente vincolata ai contesti sociali e storici, in cui gli individui possono cambiare continuamente prospettiva rispetto alle cose tramite l’interazione virtuosa con gli altri. Da questo punto di vista, agire moralmente non è tanto un fatto, quanto un ideale a cui aspirare.
Come trattare uno stomaco invisibile
Dopo aver fornito le coordinate concettuali che useremo d’ora in avanti, possiamo iniziare a vedere come queste si applichino alle opere di Togashi Yoshihiro partendo da una storia breve presente in Level E, manga serializzato su Weekly Shōnen Jump dal 1995 al 1997 e pubblicato in Italia da Planet Manga nel 2012.
Ci sono diverse ragioni per dare a Level E un ruolo centrale all’interno di questo articolo. La prima ragione riguarda la sua scarsa popolarità tra i lettori italiani; tra le opere di Togashi portate in Italia, infatti, Level E è sicuramente la meno letta e conosciuta. Dietro questa analisi c’è quindi la speranza che qualche lettore interessato possa avvicinarsi a un manga decisamente meritevole. La seconda è che, a livello editoriale, l’opera risulta essere abbastanza peculiare: non solo Level E rappresenta un caso di pubblicazione mensile su rivista settimanale, ma, in un’intervista pubblicata per i 50 anni della rivista Weekly Shōnen Jump, è Togashi stesso ad affermare che la creazione dell’opera avesse lo scopo di mostrare un lato del suo carattere che non era riuscito a emergere in Yū Yū Hakusho16. Oltre a questo, Togashi parla di un suo interesse “duplice” per il fumetto, che l’autore paragona al rapporto dialettico tra yin e yang: mentre da una parte rimane costante la sua voglia di pubblicare per una rivista mainstream, dall’altra non nega un profondo interesse per riviste alternative come Garo. Queste due informazioni possono servirci per comprendere perché ritenere Level E così interessante. Di fatto è impossibile negare che, nella produzione dell’autore, l’opera sia quella che si allontana di più da strutture e tematiche mainstream; se consideriamo che questa natura più alternativa nasce proprio dalla volontà del mangaka di svelare “uno dei suoi lati nascosti”, è abbastanza plausibile pensare che Level E sia un’opera fondamentale per comprendere il pensiero e la poetica di Togashi.
Level E possiamo infatti trovare, seppur spesso a livello germinale, quasi tutti i nuclei tematici presenti nelle opere di Togashi: dal rapporto tra natura e cultura al tema del cannibalismo, dalla riflessione sull’importanza delle informazioni fino alla natura della finzione e del gioco. Questi e molti altri temi fondamentali appaiono in modo evidente all’interno di Level E; capiamo quindi come l’opera sia necessaria sia per comprendere meglio gli interessi dell’autore che per avere un quadro più chiaro degli argomenti affrontati nelle altre opere.
La storia breve che analizzeremo, cioè quella dei capitoli 004 e 005, affronta proprio il tema del cannibalismo, argomento già presente in Yū Yū Hakusho ma poi ampliato in Hunter x Hunter.
Level E e alter ego dell’autore) che viene esposto a un editor decisamente poco brillante. Quello che il principe Baka cerca di spiegare è che la sua opera può svolgere un ruolo di perfezionamento morale, permettendo ai lettori di comprendere punti di vista differenti dai propri. Un’idea simile è perfettamente in linea con una teoria humeana, dal momento che questa assume che le narrazioni abbiano proprio il ruolo di raffinare i sentimenti dei lettori nei confronti degli altri individui17.
Level E, anche la storia dei capitoli 004 e 005 parla di alieni che popolano la Terra all’insaputa degli umani; occasione che l’autore sfrutta per permettere a culture, società e visioni del mondo diverse di interagire. È infatti fondamentale notare che, sin dal primo capitolo dell’opera, l’interesse di Togashi sembra essere squisitamente socio-antropologico: l’immenso immaginario della fantascienza non è solo uno strumento narrativo ma anche un banco di prova per costruire culture e valori alternativi che possono facilmente entrare in conflitto con i nostri. Proprio questo interesse sembra giustificare in modo brillante la presenza nel racconto del tema del cannibalismo.
18. Yamamoto e gli altri componenti della sua famiglia sono gli ultimi conwelliani rimasti e si trovano nella terribile situazione di continuare a provare fame per coloro verso le quali provano attrazione sessuale, senza però potersi riprodurre. Come viene specificato, infatti, l’assimilazione di carne non conwelliana non ha alcuna funzione nella loro riproduzione. La cosa interessante da tenere a mente è proprio il fatto che i conwelliani continuano a provare questo tremendo senso di fame finché non si nutrono della partner e che questo sentimento non è placabile in altro modo (questo fenomeno xeno-biologico nella storia è chiamato stomaco invisibile); in un certo senso i conwelliani si “trovano costretti” a nutrirsi di carne umana, seppur sia completamente inutile a fini riproduttivi.
Il fenomeno del cannibalismo è molto complesso non solo per ragioni scientifiche ma anche per la sua forte connessione con le nostre intuizioni morali. Dal nostro punto di vista è abbastanza comune trovare il cannibalismo come un’azione immorale; interessante è riflettere sul fatto che, invece, non tendiamo a dare giudizi così netti quando il cannibalismo è effettuato da specie diverse dalla nostra. Intuitivamente, un motivo valido potrebbe essere che le azioni di un cannibale umano dipendano da azioni volontarie o razionali, cosa che magari non succede per altri animali19.
volontà in virtù della quale riusciamo ad attribuire responsabilità ad altri individui e a riconoscere le loro azioni come morali.
se gli fosse ordinato di non dormire20. Addormentarsi, infatti, sembra essere un’azione che non può essere controllata dalla volontà o da altri atti intenzionali (se non in minima parte), a differenza di azioni come leggere, scrivere o afferrare una palla. Una chiara applicazione delle etiche humeane si lega proprio a questo problema: il fatto che i conwelliani non abbiano controllo delle loro azioni li rende effettivamente colpevoli di azioni immorali? Mentre per certe etiche che si appellano a regole astratte il comportamento dei conwelliani è inequivocabilmente immorale (ad esempio teorie che ritengono che uccidere sia intrinsecamente sbagliato), possiamo capire che per un’etica humeana la cosa è molto più difficile.
avrebbe voluto parlare con Yamamoto, ma non avrebbe avuto niente da dirgli, e nella scelta, altrimenti ingiustificabile, dei protagonisti di continuare a lavorare nella clinica aliena che gli aveva fornito informazioni sui conwelliani. L’interpretazione più plausibile, perfettamente in linea con il quadro humeano, è proprio che i protagonisti, di fronte alla loro impotenza nella risoluzione del dilemma, abbiano deciso di fare maggiore esperienza con specie differenti per avere una sensibilità più sviluppata all’interno di quei contesti e capire quale sia il modo migliore di agire di fronte ad altri problemi simili21.
Esempi e spunti
Mentre la sezione precedente aveva lo scopo di presentare un caso che avesse una valenza generale, facilmente comprensibile anche da un lettore lontano dalle opere di Togashi, quella attuale serve a fornire una serie di esempi che possano rendere evidente la plausibilità di un approccio humeano alle opere dell’autore. D’ora in avanti si assume che il lettore abbia almeno una conoscenza basilare delle trame e dei temi di Yū Yū Hakusho e Hunter x Hunter.
Ancora carne, ma più ironia
Nonostante Yū Yū Hakusho sia principalmente ricordato per le sue scene di combattimento, è interessante notare come una forte tematizzazione morale emerga negli ultimi 60 capitoli dell’opera. Basti pensare che leggendo il capitolo 117, in modo totalmente inaspettato, il lettore si ritrova, tramite gli occhi di Sensui, ad assistere a un festino in cui decine di persone vengono perversamente torturate, fatte a pezzi e gettate in pozze di sangue. Questo cambiamento di stile, esplicitamente horror, fa da “apripista simbolico” all’interesse per i temi morali che l’opera inizia a sviluppare. Lo scopo evidente di questi ultimi capitoli è chiedersi fino a che punto dei principi morali possano essere generalizzabili22, mostrando come i rapporti tra bene e male siano in realtà estremamente sfumati: dopo aver combattuto con i demoni per buona parte della storia, i personaggi inizieranno infatti a interagire maggiormente con loro, fino a giustificare molte delle loro pratiche.
23. Questa scelta, a prima vista contraddittoria, può essere facilmente interpretata da un quadro humeano. Dobbiamo infatti ricordare che, dopo un anno passato nel regno dei demoni, Yusuke ha tutto il tempo di comprendere i valori dei demoni e le loro pratiche di vita. I demoni al seguito di Raizen si nutrono di carne umana, ma non ritengono il fatto così importante, tanto che alcuni ammettono tranquillamente di voler smettere di farlo24. All’interno di un’ipotetica scala dei valori, per i sottoposti di Raizen ciò che è importante è il divertimento provocato dallo scontro, la carne umana ha solo la funzione di accrescere la forza dei demoni permettendo loro di avere performance migliori durante il combattimento. Yusuke mostra di aver compreso pienamente questa scala di valori, per questo si propone di procurare della carne al padre. In quel contesto sociale l’azione non è sicuramente vista come immorale, mentre lo sarebbe stata nel caso il consumo di carne umana fosse stata già abolita nel regno di Raizen.
25, che non risparmia nessuno dei demoni con cui combatte. Dopo aver incontrato Itsuki, questo lo corrompe “come si fa con una bambina innocente facendole vedere un porno senza censure”26 mostrandogli le mostruosità di cui sono capaci gli esseri umani; proprio da lì Sensui decide di voler causare un genocidio umano. Nonostante siano entrambi detective del mondo degli spiriti, Sensui pare essere una versione degenerata di Yusuke e la ragione principale di questa differenza è radicata nel concetto di moralità che hanno i due. Mentre Yusuke viene scherzosamente considerato come un detective poco serio da Koenma, Sensui, al contrario, ha un ferreo senso di giustizia. Se Yusuke si adatta particolarmente bene a un’etica più concreta (come quelle humeane), Sensui è associabile a visioni etiche astratte e universalistiche. Di fatto, Sensui sembra voler sterminare gli esseri umani perché, come i demoni, anche questi sono malvagi per natura, se non peggio. L’imperativo di far estinguere i malvagi, che inizialmente era applicato solo ai demoni da parte di Sensui, subisce un cambio di dominio: dopo aver realizzato che gli umani sono capaci di azioni orribili, allora la norma deve essere applicata anche a loro. Posizioni di questo tipo sono chiaramente in contrasto con un’etica humeana e il fatto che Sensui sia descritto come un personaggio negativo, potrebbe essere interpretato come una critica verso un modo eccessivamente astratto di intendere le distinzioni morali. Dopotutto, il finale di Yū Yū Hakusho sembra suggerire proprio che mondi diversi hanno sistemi di valori complessi e ugualmente ricchi che, nonostante le differenze, possono in qualche modo provare a integrarsi e comunicare.
Yu degli spettri - New Edition di Togashi Yoshihiro
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“Forse perché non li conosciamo?”
Mentre in Yū Yū Hakusho le questioni morali iniziano a emergere solo nell’ultimo terzo dell’opera, Hunter x Hunter sembra ereditare sin dal principio una certa complessità tematica da Level E, complessità tematica spesso sviluppata in modi decisamente brillanti. È inutile dire che temi come quello di natura e cultura siano fondamentali nella saga delle Formichimere, così come per un lettore attento sarà impossibile non notare che il rapporto tra Komugi e Meruem viene impostato secondo quelle dinamiche comunicative e di comprensione dei valori reciproci che sono fondamentali nelle etiche humeane. Poiché lo spazio rimanente è veramente poco (e poiché sarebbe necessaria una serie di articoli per esaurire la ricchezza delle Formichimere), preferiamo fornire esempi tratti da una saga meno esplicita su queste tematiche, ciò quella di York Shin City.
York Shin City è una saga decisamente peculiare, sia dal punto di vista stilistico che da quello narrativo: di fatto la storia alterna momenti noir ad altri di thriller investigativo, sempre all’interno di un contesto horror di sfondo. Nonostante queste componenti estetiche siano fondamentali durante la lettura della saga27, uno spazio importante viene dedicato anche al modo in cui le azioni della Brigata Fantasma vengono percepite dai personaggi della storia.
shōnen classica ci troveremmo in un conflitto morale che rispecchia la divisione tra fazioni: da una parte avremmo i protagonisti della storia che incarnano valori corretti, dall’altra i nemici che rispecchiano dei comportamenti inaccettabili.
non li conoscono28.
Una simile affermazione si presta, chiaramente, a essere interpretata tramite il concetto di simpatia: il fatto che esista una distanza tra i membri della Brigata e altri individui esterni è ciò che li porta a valutare le loro azioni come non-immorali. La questione è facilmente comprensibile analizzando la struttura del Ragno. Questo si presenta come un gruppo in cui i membri versano un contributo di fedeltà verso un ente astratto, cioè il gruppo stesso. All’interno della Brigata esistono ruoli e funzioni e ognuno dei membri si rende conto della sua dispensabilità (o meno) nell’economia del Ragno29. Ciò che ha un valore primario è la sopravvivenza del gruppo.
compatta e comunitaria30, in cui i membri si identificano in un ruolo e provano fiducia solo per gli altri membri del gruppo, distanziandosi da strutture sociali più ampie. In un contesto simile è facile vedere come i membri della Brigata non provino alcun tipo di tendenza emotiva positiva verso gli esterni. Il lato più affascinante e profondo della questione si ha, però, dopo il rapimento di Chrollo. In quel caso il Ragno si spacca in due sottogruppi con opinioni differenti, tra chi vuole seguire gli ordini del capo (cosa che porterebbe alla morte di Chrollo) e chi vorrebbe sottostare alle regole dello scambio di ostaggi. Questa complicazione ulteriore è perfettamente in linea con la teoria che abbiamo presentato: nonostante esistano delle forti uniformità all’interno di un gruppo, è impossibile che i singoli individui non abbiano idee, desideri e necessità differenti.
a priori, ci permettano di classificare degli individui come santi o assassini. Piuttosto è più sensato concepire gli altri come coacervi di comportamenti virtuosi e viziosi, spesso in contraddizione; questa perdita di generalità nelle classificazioni morali non è da considerare come un difetto, ma come un fattore fondamentale per comprendere meglio le ragioni altrui e sviluppare in modo più adatto la nostra sensibilità morale.
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Bibliografia
Balistreri, M. (2010). Etica e romanzi. Firenze, Le Lettere.
Botti, C. (2014). Prospettive femministe. Milano-Udine, Mimesis.
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Greco, L. (2008). L’io morale: David Hume e l’etica contemporanea. Napoli, Liguori.
Greco, L. (2013). Toward a Humean Virtue Ethics. In Julia Peters (ed.), in Aristotelian Ethics in Contemporary Perspective (pp. 210-23). Londra, Routledge.
Hume, D. (1987). Trattato sulla natura umana. Roma-Bari, Laterza.
Hume, D. (2017). La regola del gusto e altri saggi. Milano, Abscondita.
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Sitografia
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Lo Spazio Bianco (2015), Yu degli spettri di Y. Togashi: l’equilibrio del male, consultato il 10/11/2021, da https://www.lospaziobianco.it/spettri-togashi-lequilibrio/.
Matteo Caronna - Terre Illustrate (2020, 12 Dicembre), Yoshihiro Togashi: rimedi alla noia feat Danilo Manzi [video], reperibile su https://www.youtube.com/watch?v=GlaMIZyZSF0 .
r/HunterXHunter (2018), Togashi’s Interview Translated – Jump 90’s Star Road of Glory!!, consultato il 14/11/2021, da https://old.reddit.com/r/HunterXHunter/comments/83js58/togashis_interview_translated_jump_90s_star_road/.
Note
Per una lettura approfondita sul ruolo della natura in Nausicaä si veda Yupa (2014). ↩︎
Questa assunzione è meno pacifica di quello che sembra, ma non sarà scopo dell’articolo approfondire la questione. Per un quadro generale si veda Balistreri (2010). ↩︎
Per una infarinatura divertente sulla complessità dell’autore si consiglia di recuperare il video Yoshihiro Togashi, rimedi alla noia sul canale YouTube Terre Illustrate. ↩︎
Basti vedere Slote (2010), oppure la possibile integrazione con alcune etiche femministe in Botti (2014). ↩︎
Cfr. Greco (2008). ↩︎
Come succede sempre con testi classici, è possibile trovare versioni molto diverse del pensiero di un certo autore. Hume non sfugge a questo fenomeno, trovando interpretazioni che vanno dall’etica delle virtù, al consequenzialismo. Per una visione più chiara del dibattito si veda Swanton (2007). ↩︎
Hume (1987), pp. 481-503. ↩︎
La questione è molto più complessa. In questo articolo abbiamo preferito rifarci all’interpretazione presentata in Greco (2014), sia perché più attinente all’autore originale, sia perché più in linea con la poetica di Togashi. Come sottolineato, questo tipo di teoria non implica alcun tipo di impegno ontologico nei confronti delle proprietà morali, ma questo non vuol dire che non possano essere integrate in una teoria humeana come in Swanton (2007). ↩︎
Questa idea si vede molto bene in Hume (2017), pp. 21-27, seppur ci si riferisca al problema del gusto estetico. ↩︎
Cosa che invece potrebbe essere condannata come immorale in tipi di etiche più astratte; in quel caso l’azione di Thomas potrebbe essere considerata come una negligenza rispetto a certe prescrizioni morali. ↩︎
Williams (1982). ↩︎
Foot (2002). ↩︎
Hume (1987) pp. 332-340, si veda anche Greco (2008), pp. 105-122. ↩︎
In Slote (2010) viene problematizzata una differenza tra simpatia ed empatia; Slote stesso afferma che l’empatia è un principio psicologico molto più solido per le etiche humeane rispetto alla semplice simpatia. In questo articolo la questione non sarà affrontata e il concetto di simpatia sarà preso a grana molto grossa, per essere usato come strumento interpretativo per le opere di Togashi. ↩︎
Balistreri (2010), p. 165. ↩︎
Una traduzione inglese dell’intervista si può ritrovare in
https://old.reddit.com/r/HunterXHunter/comments/83js58/togashis_interview_translated_jump_90s_star_road/ ↩︎
Per un approfondimento si veda Balistreri (2010), cap. 3. oppure Hume (2017). ↩︎
Level E cap. 005, p. 191. ↩︎
Se questa ragione sia effettivamente valida è qualcosa che potrebbe essere discusso. Nel contesto che stiamo fornendo, però, cerchiamo di assumere una posizione che potrebbe essere argomentata a livello di senso comune. ↩︎
Level E, p. 194. ↩︎
La questione è effettivamente controversa, poiché si potrebbero fornire una serie di obiezioni in cui si cerca di dimostrare che i protagonisti si sono comportati in modo immorale nel lasciar perdere la questione. L’obiezione è comprensibile ma, agli occhi di chi scrive, non riuscirebbe a cogliere troppo bene il punto del racconto. Prima di tutto, non sappiamo niente di ciò che succede ai vari personaggi nell’arco di tempo in cui avviene il suicidio della famiglia Yamamoto, quindi non sappiamo se erano possibili delle soluzioni valide per salvare la situazione. In secondo luogo, questo andrebbe contro alle intenzioni del principe Baka nella scrittura della storia, poiché egli stesso afferma di voler mostrare che certi individui non compiono volontariamente azioni malvagie. Un finale in cui, per salvare delle possibili vittime, i protagonisti decidono di denunciare Yamamoto alla polizia avrebbe sicuramente avuto un impatto minore, poiché avrebbe comunque fatto passare i cornwelliani come personaggi ingiusti e “da punire”. Sicuramente immaginare situazioni alternative non espresse dalla storia è uno dei fattori che rende interessante il nostro rapporto con l’arte, ma a volte potrebbe farci sfuggire il punto di un’opera. ↩︎
Questa interpretazione era già stata presentata, seppur in modo molto generale, da Nathan Quaranta in un suo articolo per lo Spazio Bianco. Si veda https://www.lospaziobianco.it/spettri-togashi-lequilibrio/ . ↩︎
Un altro esempio fondamentale è la rivelazione relativa alla politica del Regno dei Morti che Kurama fa a Yusuke, cap. 170. ↩︎
Yū Yū Hakusho cap. 156. ↩︎
Yū Yū Hakusho, cap. 126-127. ↩︎
Parafrasi di cap. 139. ↩︎
Per avere delle coordinate che permettono di cogliere dei lati più sottili dell’estetica di York Shin si veda https://web.archive.org/web/20220922100826/https://bosozoku.it/shintaro-kago-a-york-shin-city-ero-guro-in-hunter-x-hunter/. ↩︎
Hunter x Hunter, cap. 111. Una cosa interessante è che Gon stesso esibisce un comportamento fortemente contraddittorio durante l’asta dei vasi, fattosta che Sepail nel capitolo 088 si riferisce a Gon descrivendolo come un individuo che non discrima tra bene e male. Giudizio abbastanza bizzarro, considerando le accuse quasi moralistiche che Gon farà contro Nobunaga e Chrollo. ↩︎
Hunter x Hunter, cap. 104 e 114. Non è un caso che i personaggi si riferiscano a questo usando una metaforica anatomica, in cui i membri si identificano nella testa, nel corpo o nelle zampe. ↩︎
Probabilmente il racconto dell’attentato da parte degli abitanti del Paese delle Stelle Cadenti (cap. 102) può servire a presentare un paradigma culturale di carattere comunitario che viene anche adottato all’interno del Ragno. Chiaramente questo non vuol dire che non esistano forti differenze tra i due gruppi. ↩︎
GoGo Monster, realtà, finzione, spazi di gioco
Introduzione
In questo articolo verrà presentata l’analisi di un’opera di Matsumoto Taiyō pubblicata come volume unico nel 2000, cioè GoGo Monster (GOGO モンスター). Nello specifico, l’articolo cercherà di fornire una chiave di lettura che permetta di comprendere adeguatamente un’opera percepita come complicata e difficilmente penetrabile. Va inoltre considerato che scopo dell’articolo è anche quello di continuare uno studio già iniziato con il precedente elaborato su Ping Pong, sempre reperibile sul blog di Terre Illustrate. Vi sono almeno due ragioni per dare spazio a GoGo Monster. La prima è di carattere editoriale: GoGo Monster è il fumetto che Matsumoto ha realizzato dopo Ping Pong e si tratta dell’unica opera lunga (più di 400 pagine) che l’autore non ha pubblicato su rivista. Questa scelta editoriale è rispecchiata anche dalla struttura dell’opera, divisa in capitoli di lunghezza eterogenea. La pubblicazione di GoGo Monster ha richiesto tre anni di lavoro in cui Matsumoto ha corretto e ricorretto le proprie pagine, al punto di non saper più se erano buone o meno1.
Considerando che GoGo Monster riprende esplicitamente alcuni dei temi più importanti di Ping Pong, è abbastanza naturale pensare che questa lunga gestazione coincida con una maggior consapevolezza e profondità degli argomenti trattati.
2. Succede di frequente, però, che le opere di Matsumoto trattino temi molto vari, spesso sfumando da un’unica situazione raccontata3. GoGo Monster, da questo punto di vista, sembra essere abbastanza uniforme negli argomenti che affronta. L’opera non fa deviazioni tematiche e sembra andare in una direzione ben precisa, che probabilmente è quella pensata dall’autore4.
GoGo Monster possa permettere di avere una presa abbastanza solida sulla poetica generale del mangaka.
immagine e quello di gioco. Chi è avvezzo alla letteratura specialistica di estetica e teoria dell’arte difficilmente rimarrà sorpreso dall’importanza di questi temi, al centro di molti dei dibattiti contemporanei5. I profani potrebbero, invece, rimanere maggiormente spiazzati dal secondo concetto tirato in ballo. Comunemente tendiamo a vedere il gioco come un’azione puerile, di scarso valore, da relegare al periodo dell’infanzia. Giocare è una forma di svago, un divertimento che va distinto dalla serietà richiesta dall’entrata nella società “dei grandi”. Anche da adulti il gioco continua a esistere, ma in forma estremamente limitata: esempi possono essere una cena con amici, oppure la presenza in tribuna per un evento sportivo. L’idea comune, comunque, è che i giochi siano una parte marginale delle nostre vite, da associare a esperienze e sensazioni frivole nella nostra esperienza quotidiana. Ci sono le cose importanti, poi c’è il gioco. Basta dare una rapida occhiata a vari ambiti scientifici per vedere come questa intuizione non sia solo superficiale, ma persino sbagliata. Non solo i giochi sono parte integrante delle nostre vite, ma sono una pratica sociale importantissima per la produzione della cultura. Non è strano, quindi, che il concetto di gioco possa ricevere un grande interesse anche in ambito artistico. Anche solo nel mondo dei manga, è sufficiente pensare a grandi autori come Araki Hirohiko, Togashi Yoshihiro o Urasawa Naoki per vedere quanto l’atto di “giocare” sia importante. L’articolo cercherà di chiarire questi due concetti, alternandoli all’analisi testuale dell’opera. Un simile approccio è rispecchiato dalla struttura dell’elaborato, diviso in due sezioni principali: una dedicata alle immagini e una dedicata al gioco.
Essendo un’analisi dell’opera, è inutile dire che è richiesto, almeno, di aver letto il manga in questione e aver familiarizzato con le sue tematiche.
Apertura sulle immagini
GoGo Monster è una storia che viene raccontata intorno a pochi personaggi. Il protagonista è Tachibana Yuki, affiancato dal compagno di classe Suzuki Makoto, il giardiniere Gantsu e il brillante IQ. Un lettore che volesse essere provocatorio potrebbe contestare queste affermazioni dicendo che, in realtà, i personaggi di GoGo Monster sono molti di più. Non ho infatti considerato Superstar o Chance o tutti gli altri mostri, nemici di Yuki, che invadono la scuola portandola a una progressiva decadenza. Tutti i personaggi a cui ci siamo riferiti ora però sono invisibili: non vengono mai presentati con la stessa vividezza di Yuki, Makoto e gli altri. Eppure, stando a ciò che dice Yuki, loro ci sono e sono parte integrante del racconto, seppur non vengano mai mostrati.
Come possiamo già intuire, GoGo Monster è un’opera in cui ciò che si può vedere o meno ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo della storia, così come per le sue tematiche.
Il rapporto tra visibile e invisibile può essere fruttuosamente analizzato all’interno dell’opera da due punti di vista, sia da quello diegetico che da quello extra-diegetico. Iniziamo analizzando il ruolo che questo rapporto ha a livello extra-diegetico, per poi passare al suo uso interno alla storia.
La narrazione di GoGo Monster vive di suggestioni e di non-detti.
Qui troviamo, in modo abbastanza chiaro, una differenza tra i punti di vista di Yuki e quello del compagno di classe Makoto. Nella seconda vignetta è possibile notare delle strane linee, simili a volti, disegnate all’interno delle gocce di pioggia che scendono sul vetro. Quello è, plausibilmente, il punto di vista di Yuki6. Nella quarta, invece, questi volti sono assenti. Questo è il punto di vista di Makoto. Un simile stratagemma si presenta più volte all’interno della storia, fino a diventare difficilmente decifrabile nel capitolo Inverno, in cui è presente un’alternanza continua di prospettive. Allo stesso modo, uno dei motori dell’opera, cioè il bullismo compiuto dai bambini verso insegnanti e altri compagni, non è mai realmente esplicitato, se non da frasi fugaci o scene specifiche. Leggendo da pagina 93 a pagina 99, per esempio, è possibile comprendere che Yuki è stato picchiato dai compagni per recuperare l’orologio di Makoto. Un simile evento, però, non viene mai rappresentato visivamente nella narrazione. Allo stesso modo non si vede mai nessuno dei bambini rompere un vetro, oppure boicottare la lezione di uno degli insegnanti. Tutte queste informazioni possono essere ricavate solo da elementi disseminati per tutta l’opera.
È abbastanza interessante notare, però, che un simile tema non sia affatto secondario. Al contrario, questo è un ingrediente necessario per la comprensione della storia. Matsumoto sembra essere ben consapevole del potere che le immagini hanno sul lettore, sulla sua capacità di decifrare in modo adatto particolari eventi. Eppure, durante la lettura di GoGo Monster, è possibile che questi elementi sfuggano totalmente a un lettore poco attento. È plausibile pensare che lasciare un simile elemento narrativo come invisibile al lettore non sia solo una disattenzione da parte dell’autore, ma sia una scelta ponderata e consapevole7. Come dovremmo interpretare una simile scelta stilistica?
Diamo subito una risposta che, però, sarà più chiara dopo che il lettore avrà confrontato questo punto con il modo in cui il non visibile è affrontato all’interno della storia. Matsumoto sembra voler mettere il lettore nella stessa situazione di Yuki. Proprio come il protagonista, anche il lettore si ritrova a dover decifrare gli eventi della storia come se fossero causati da entità invisibili (che, nel nostro caso, sono i compagni di classe). L’idea sembra proprio quella di voler far sentire al lettore cosa si prova a vedere degli effetti che sono provocati da entità che non vediamo mai per tutta la narrazione, fattosta che non è difficile credere al racconto di Yuki sui mostri cattivi. Dopotutto anche il lettore non ha mai alcuna prova visiva che a provocare tutte le disgrazie scolastiche siano gli altri bambini. Detto questo, speriamo che la cosa diventi più chiara andando avanti con l’analisi. Facciamoci ora la domanda più spinosa.
All’interno della narrazione8 cosa sono i mostri citati anche nel titolo dell’opera?
Come viene più volte esplicitato nella storia, i mostri non hanno una natura strettamente sensibile. Non possono essere visti come vediamo tavoli e sedie. Una simile idea è affermata da Yuki, che sostiene di avvertirli grazie al “potere della mente”, quanto dal giardiniere Gantsu, che riporta le testimonianze di altri bambini sensibili a queste presenze. L’interpretazione più plausibile è che i mostri siano in realtà delle “proiezioni” psicologiche che il piccolo Yuki fa a causa della sua fervida immaginazione. Questa interpretazione trova un forte riscontro anche nel personaggio di IQ, il primo a svelare a Yuki la natura finzionale di Superstar e Chance. Oltre a questo, vi è anche un altro elemento testuale che va in questa direzione. A pagina 112 è presente una scena in cui uno dei compagni di classe di Yuki legge un estratto come compito assegnato dalla maestra. È chiaro come un simile fenomeno possa essere interpretato meta-narrativamente come un modo per rappresentare il processo con cui Yuki arriva a “costruire” i mostri:
A volte leva un profondo ruggito dentro di me.
Non solo il riferimento a qualcosa che “fuoriesce” dalla propria interiorità è centrale, ma questo qualcosa è anche dipendente da noi (Non ha il coraggio di riconoscere spontaneamente la propria identità.). Banalmente, una fantasia cessa di esistere una volta che smettiamo di immaginarla. I “mostri” non sono altro se non una fantasia di Yuki, qualcosa che non esiste realmente9. Di un’idea simile pare essere anche la maestra di Tachibana che, parlando con il custode, classifica il comportamento del bambino come una sorta di delirio10. Si potrebbe quindi sostenere che Yuki (preda delle sue fantasie) viva in un mondo “tutto suo”, totalmente disancorato dalla realtà, che lo porta a estraniarsi dagli altri. Considerando la componente morale/pedagogica che è facilmente intuibile nell’opera, qualcuno particolarmente avventato potrebbe dare quindi una prima interpretazione del tema principale del manga. Cioè che GoGo Monster inviti ad abbandonare le proprie finzioni per “abbracciare la realtà” e le altre soggettività che la popolano.
Quello che sosteniamo in questo articolo non è solo che una simile interpretazione sia banale, ma che nasca da una lettura superficiale dell’opera11. Pensandoci bene, Matsumoto ci fornisce un appiglio grafico abbastanza efficace che può, plausibilmente, portarci in una direzione totalmente differente da quella sostenuta dal recensore avventato. Una direzione in cui scopriamo che il comportamento di Yuki, che normalmente definiremmo “delirante”(proprio come fa la maestra), non è così differente da una serie di azioni che anche noi lettori compiamo quotidianamente. Cerchiamo di spiegare questo punto. All’interno della storia possiamo trovare diversi modi in cui i mostri possono essere individuati dal lettore. Uno di questi è l’uso di vignette in cui non viene esplicitato chi stia parlando e in cui le frasi enunciate sono stilisticamente affini a quelle che solitamente vengono dette da Yuki12. La strategia preponderante per rappresentare i mostri, però, è quella grafica. Osservando bene i disegni, infatti, è possibile notare delle linee che richiamano dei volti in specifici oggetti naturali come fiori, foglie o gocce di pioggia. Che un simile artificio grafico serva a rappresentare la presenza dei mostri è chiaramente esplicitato già dalle prime pagine dell’opera. Già nelle pagine 10, 11 e 12 possiamo infatti notare una scena in cui Yuki, inizialmente preoccupato per la scomparsa dei suoi amici, dà loro il buongiorno dopo aver visto un volto in una delle gocce di pioggia. È chiaro quindi che i mostri si possano trovare osservando attentamente queste scene.
Ora potremmo farci una domanda particolarmente sofisticata dal punto di vista semiotico. La risposta a questa domanda, però, potrebbe portarci verso una strada interessante, essenziale per comprendere adeguatamente l’opera. Chiediamoci infatti se le linee che vediamo all’interno del disegno (e che solitamente associamo ai mostri) valgano o meno come simboli per il lettore. Detta in modo più semplice, possiamo notare come spesso all’interno di un fumetto vi siano degli elementi del disegno che non sono realmente parte dell’evento descritto. I baloons sono un esempio evidente per spiegare ciò di cui stiamo parlando. Per il lettore che sta approcciando la storia, le vignette sono una componente grafica della tavola (stesso discorso per le lettere al loro interno), ma a nessuno verrebbe mai in mente di pensare che queste facciano realmente parte della storia. Nessun personaggio, all’interno del mondo descritto dalla storia a fumetti, ha realmente intorno a sé un’enorme nuvoletta con delle lettere all’interno13. Discorso identico per le onomatopee. Entrambi sono strumenti grafici a cui i lettori danno un valore simbolico, per rappresentare altro nella storia (ad esempio voci, pensieri o suoni). Quello che ci stiamo chiedendo è se i volti che Matsumoto rappresenta all’interno dell’opera servano solo a individuare la presenza dei mostri per il lettore (un po’ come un’onomatopea rappresenta un suono), oppure se sia ciò che effetivamente Yuki e altri bambini percepiscono nella storia. La posizione che sosteniamo in questo articolo è la seconda. Ciò che noi lettori vediamo quando leggiamo il manga è anche ciò che viene percepito da Yuki. Come emergerà più avanti nell’articolo, questa è la posizione che ci sembra più plausibile in quanto la più coerente con le tematiche e la narrazione dell’opera. La ragione per prendere la posizione opposta è che, all’interno di GoGo Monster, viene ribadito anche da Yuki che i mostri sono invisibili. Siamo tornati al punto di partenza però, quindi dovremmo capire meglio cosa si intende per “invisibile” e cosa per “visibile”.
Vedere mostri, nel quotidiano
Quando diciamo di vedere qualcosa ci riferiamo a una gamma molto ampia di significati, metaforici o meno. Possiamo dire infatti di vedere quello che sta succedendo, poiché comprendiamo ciò che sta accadendo, così come possiamo vedere dove un nostro conoscente andrà a finire, se continuerà a uscire con certe compagnie. Quello che ci interessa, in questo caso, è il significato più semplice e diretto (il meno metaforico potremmo dire), cioè quello percettivo. Noi vediamo colori, tavoli, piante e persone, nel senso che abbiamo una particolare funzione cognitiva che ci permette di ricevere informazioni dall’esterno secondo un certo formato, cioè quello visivo. Fin qua il discorso è banale. Ciò che potremmo osservare, però, è che nella gamma degli oggetti che diciamo di percepire visivamente esistono delle profonde differenze. Di fatto, non diciamo solo di vedere colori, tavoli o persone, durante la nostra esperienza percettiva ma anche forme e strutture14. Per rendere le cose più concrete, si consideri il seguente esempio. Ci troviamo di fronte a una delle illusioni di Jastrow, una delle classiche illusioni ottiche che spesso ci vengono presentate già durante la nostra infanzia. Osservando l’immagine notiamo subito una lepre. Questo però non basta: chi ci ha presentato l’illusione ottica ci dice di osservare attentamente, poiché vi è un’altra figura nascosta nell’immagine. Noi, confusi, iniziamo a osservarla più attentamente, la esploriamo cercando di capire quale sia l’altra figura di cui sta parlando. Improvvisamente abbiamo una risposta: oltre a una lepre, nella stessa immagine possiamo vedere anche un’anatra.
Di fatto, prima vi era qualcosa che non vedevamo, ora lo vediamo. Se non troviamo questa specifica illusione convincente poiché estremamente inflazionata, non è importante. Possiamo infatti notare che casi simili possono essere ritrovati continuamente nella nostra vita quotidiana. A chiunque è capitato sicuramente di notare che le parti frontali o posteriori di un’automobile sembrano richiamare dei volti15; allo stesso modo è alquanto raro che qualcuno non abbia mai notato che le nuvole hanno spesso forme che ci sono familiari. Noi in questi casi vediamo più cose. Se un cumulo di nubi ci ricorda un cagnolino, noi vediamo sicuramente le nuvole con tutte le loro caratteristiche, ma vediamo anche un cane. Magari ciò che notiamo è molto lontano da un cane come lo conosciamo normalmente: un cagnolino di nuvole non ha ossa, né muscoli, né cervello. Un cane di nubi non può abbaiare né, tantomeno, uscire per una passeggiata. Rimane il fatto che, in questi casi, noi interpretiamo delle informazioni visive in qualche modo e questo ci rende in grado di vedere un cane che, fino a un secondo prima, non riuscivamo a vedere. In qualche modo la nostra immaginazione “si infiltra” nella nostra percezione e ci permette di interpretare certe informazioni in modo nuovo. Pensandoci attentamente, questo fenomeno avviene continuamente quando ci approcciamo alle immagini. Quando vediamo un bel ritratto, ci sembra normale parlarne come se questo fosse una persona: possiamo parlare della pelle di chi è rappresentato, dei suoi capelli o del vestito. Concretamente, non esiste alcuna pelle di fronte a noi, non ci sono capelli e nemmeno un vestito. Se non avessimo alcuna capacità di interpretare le immagini, ci sembrerebbe un delirio collettivo andare a una mostra d’arte e sentire altre persone parlare dell’enfasi di una battaglia o della grazia di un cherubino di fronte a tele macchiate di colore. Questo però non succede.
come se ci trovassimo di fronte a un conflitto.
immaginazione spontanea16 particolarmente fervida possa vedere in modo più vivido certe forme all’interno della propria percezione. Semplicemente, l’immaginazione di Yuki gli permette di cogliere una serie di immagini e strutture che noi non riusciamo a cogliere, per motivi legati alle nostre capacità immaginative. L’idea fondamentale all’interno della storia è che vi sia una differenza di sensibilità percettiva tra Yuki e gli altri personaggi17. Proprio come gli altri bambini, anche noi lettori potremmo trovarci nella situazione di non vedere le stesse cose che Yuki vede.
18.
Un’interpretazione simile risulta ancora più plausibile se la confrontiamo con il dialogo tra Gantsu e Makoto nelle pagine da 155 a 159. Qui viene esplicitamente detto dal guardiano che non è la prima volta che incontra un bambino come Yuki, sensibile a ciò che non si vede e non si sente.
Inverno, parte criptica e densa che costituisce il capitolo più lungo dell’opera. Ciò che sosterremo nella prossima sezione è che, al fine di comprendere meglio quel capitolo, sarà necessario connettere la spiegazione sulle immagini che abbiamo appena esposto con una nozione ancora più generale.
Dalle immagini al gioco
Le immagini hanno un ruolo fondamentale nella nostra vita. Possiamo veramente dire che, specialmente nella società contemporanea, siamo costantemente ricoperti da un telo di immagini. Banalmente, basti pensare che anche chi leggerà questo articolo dovrà per forza interagire con immagini che vengono proiettate da uno schermo (che sia da smartphone o da pc).
GoGo Monster si fa un riferimento a un mondo parallelo in cui Yuki è immerso. Finora abbiamo analizzato solo questa funzione delle immagini. Questa loro caratterizzazione è, però, in qualche modo superficiale. Le immagini non hanno solo un ruolo informativo. Certamente, tramite le immagini possiamo avere informazioni su altre zone del mondo
reale, come succede guardando un telegiornale. Oppure le immagini possono darci consapevolezza di cose che nessuno avrebbe mai esperito nel nostro quotidiano, come succede quando queste vengono usate nei modelli scientifici, oppure nel cinema o in pittura. Ma questo non è sufficiente. Ciò che sfugge a una caratterizzazione puramente conoscitiva delle immagini è che queste esercitano un potere nei nostri confronti. Vedere certe immagini ci fa piangere o ridere, ci porta a fare certe scelte invece che altre. Le immagini di un trailer hanno un effetto psicologico su di noi, spingendoci ad andare al cinema. Quelle che vediamo durante la lettura di un fumetto possono farci ridere, oppure straziarci. Pensandoci qualche minuto, è abbastanza assurdo che una rappresentazione di qualcosa che è irreale abbia un effetto così sconvolgente sul nostro animo.
GoGo Monster. Come abbiamo già puntualizzato, gli amici mostruosi di Yuki sono immagini che il bambino vede in modo molto vivido. Questa vividezza dipende dal fatto che gli oggetti forniscono certi insights su cui Yuki riesce a costruire usando la propria immaginazione.
quale sia il ruolo che i mostri hanno all’interno della vita del bambino. In altre parole, che potere i mostri esercitino su Tachibana. Dopotutto, è proprio perché Yuki non fa altro che parlare dei suoi amici che gli altri compagni di classe lo schivano, bollandolo come bizzarro. Per comprendere meglio questo punto, è necessario richiamarsi a certe posizioni in estetica che vedono il concetto di immagine come strettamente legato a quello di gioco19. Secondo queste prospettive i giochi sono una componente fondamentale delle nostre vite, sia durante l’infanzia che nell’età adulta. Quando siamo piccoli i giochi occupano una parte consistente delle nostre giornate. Giocando noi ci immedesimiamo, in qualche modo, in una particolare situazione che non staremmo vivendo realmente. Da bambini possiamo fare finta che un masso sia un drago, mentre il ramoscello che abbiamo raccolto è una spada lucente. In quel particolare contesto noi facciamo finta di essere realmente nel mezzo di un conflitto con una creatura mitica, almeno durante la durata del gioco.
20. Capiamo quindi come le immagini abbiano spesso un ruolo fondamentale per i giochi. Uno scrittore particolarmente evocativo ci porta più facilmente all’interno del suo mondo. Se i bambini di cui parlavamo prima scelgono di combattere un masso che ricorda un drago anche nella forma, è chiaro che l’immedesimazione nel gioco sarà maggiore. Ciò che stiamo dicendo non è che i giochi richiedono sempre delle immagini per immedesimarsi (si pensi a sport come il tennis), ma che le immagini possono avere un ruolo importantissimo in questo. Proprio come la nostra vita è immersa nelle immagini, allo stesso modo potremmo definirla come un’intersezione di giochi a cui spesso partecipiamo senza esserne realmente consapevoli. Data questa interpretazione, diventa facile comprendere in che senso le immagini esercitino un potere nei nostri confronti. Quando guardiamo un film, per esempio, le immagini che vediamo ci fanno commuovere perché in qualche modo partecipiamo al gioco che è implicito nel film. Allo stesso modo, potremmo dire che un’icona sacra può commuovere un credente perché ha un aspetto rilevante nel gioco di essere credente. Non è strano che certe immagini di guerra strazino certe persone mentre lasciano totalmente indifferenti altri; questo dipende dalla loro capacità di partecipare a un gioco (seppur straziante) in cui si immedesimano nelle vittime. Quest’ultimo esempio serve a dire che il concetto di gioco non è qualcosa che dovrebbe essere relegato all’intrattenimento (come invece il nostro modo comune di pensare ci suggerisce). “Giocare” a immedesimarsi nelle vittime di un conflitto è tutto meno che qualcosa che riguarda l’intrattenimento o il divertimento.
Partecipazione sociale: “Grazie al contenuto simbolico delle forme ludiche d’interazione e comunicazione e, soprattutto, grazie ai processi performativi d’interazione e generazione di significato le comunità si costituiscono, si trasformano e garantiscono la loro stabilità nel gioco. Causa originaria, processo ed effetto dell’emergere di azioni ludiche, le comunità non si distinguono tra loro soltanto per mezzo del sapere simbolico condiviso collettivamente, ma anche per mezzo delle forme d’interazione e comunicazione ludiche nelle quali e con le quali i membri delle comunità mettono in scena il loro sapere. Queste messe in scena rispondono al tentativo di auto-rappresentare e riprodurre l’ordine sociale, di generare sapere simbolico condiviso e soprattutto di dischiudere spazi d’interazione e campi di azione drammatica per i membri della comunità. I giochi generano comunità in senso emozionale, simbolico e performativo: sono campi d’azione scenici e performativi, nei quali i partecipanti al gioco armonizzano reciprocamente i rispettivi mondi percettivi e i loro universi di rappresentazione […].”21
Superamento delle crisi: “I giochi consentono alle comunità di gestire in maniera produttiva esperienze di differenza e situazioni di crisi. Nel corso del gioco i membri della comunità sono in grado di elaborare esperienze d’integrazione e/o di segregazione. I giochi possono dunque contribuire al raggiungimento di un accordo comunicativo circa una situazione nuova, avvertita come una minaccia e che mette in crisi la quotidianità.”22
Comprensione della realtà: “Situazioni che nella vita reale non si lasciano completamente dominare e controllare possono essere messa in scena e “testate” nei giochi, […]. I giochi, perciò, possono essere considerati come arrangiamenti in grado di ridurre la complessità del reale e grazie ai quali gli individui entrano in rapporto a un “altro”, a un “esterno”: stabiliscono linee di demarcazione, oltrepassano distanze e sviluppano la credenza che le forze performative e mimetiche che si sviluppano nel gioco non solo operino verso l’interno, ma anche verso l’esterno e siano perciò in grado di esercitare un influsso sulla “realtà”. Quando gioca, l’uomo si trasforma in un “altro”. Questa trasformazione, da un lato, è catalizzata dalla componente simbolica del gioco, che rinnova e modifica ’esperienza traslandola sul piano dei significati sacrali; dall’altro, è resa possibile e incentivata dall’azione performativa in comune, che genera nuova realtà.”23
Possiamo quindi capire come i giochi abbiano un ruolo essenziale per compiere particolari azioni della nostra vita. Arrivati a questo punto, possiamo provare ad applicare queste nozioni a GoGo Monster. Risponderemo, con ordine, a due domande: quale sono le regole del gioco di Yuki? Quale sono le funzioni che questo gioco ha per la vita del bambino?
bastone d’argento, oppure di aiutare Chance nei suoi dispetti. In questo modo il rapporto tra Yuki e i mostri non è solo di incoraggiamento, ma di vera e propria partecipazione. Compiendo le azioni richieste dai suoi amici, Yuki diventa parte, seppur simbolicamente, del gruppo di Superstar. In questo modo possiamo spiegare anche l’interesse di Yuki per il giardinaggio. Come viene più volte esplicitato dal bambino, la fioritura e fenomeni affini sono eventi causati da Superstar. È naturale, quindi, che Yuki trovi piacere ad accudire il giardino, punto di contatto tra lui e il mondo invisibile. In totale contrasto esistono dei mostri “cattivi” che devono essere eliminati e vengono combattuti da Superstar e soci. Partecipando con le sue azioni, in qualche modo anche Yuki può aiutare i suoi amici a vincere sui cattivi.
L’ipotesi che il gioco di Yuki abbia una natura comunicativa e cooperativa sembra essere confermata anche da IQ. Nelle stesse pagine in cui viene spiegata al protagonista la natura dei mostri, viene azzardata anche una spiegazione di queste apparizioni. Secondo IQ i mostri sono delle proiezioni immaginative che nascono dal bisogno di Yuki di socializzare con gli altri, mentre i mostri cattivi rappresentano la sua parte asociale, che si distanzia dai compagni. Vediamo che dietro a questa spiegazione è sottintesa una risposta alla seconda domanda che ci siamo posti. Secondo IQ, quindi, i mostri nascono da un desiderio alla socializzazione che affiora in Yuki, senza però che lui riesca a sfogarlo. Se è così, possiamo capire come le azioni di Yuki rispecchino le tre funzioni che abbiamo individuato. Il gioco di Yuki è un gioco solitario. È comunque interessante notare, però, come il bambino leghi con Makoto e Gantsu proprio quando loro cercano di comprendere le regole del suo gioco. Gantsu non si rivela mai dubbioso sulla natura dei mostri, oppure sul fatto che Yuki stia mentendo o meno su ciò che vede. Al contrario, è proprio il vecchio a suggerire al protagonista dei luoghi dove “loro” potrebbero essersi nascosti. Allo stesso modo, Makoto lega in modo unico con il suo compagno di banco quando inizia a interessarsi a ciò che dice sui mostri. Sono Gantsu e Makoto a entrare un poco alla volta nello “spazio di gioco” di Yuki. Ma è innegabile che sia proprio tramite questo gioco che i due stringono un rapporto di amicizia con il protagonista. Infine, è chiaro che lo scontro tra i mostri buoni e i mostri cattivi rappresenti un modo usato da Yuki per comprendere meglio il mondo che lo circonda.
GoGo Monster inizia con l’arrivo di nuovi alunni che causano uno squilibrio nell’ambiente scolastico. Dopo il loro arrivo, il numero dei vetri che vengono rotti aumenta, così come aumentano i casi di bullismo ed emarginazione all’interno della scuola. Questo conflitto, che ha una natura sociale molto complessa, viene metaforizzato in modo molto più semplice come una lotta tra mostri buoni e mostri cattivi. Non è un caso che Yuki attribuisca ai cattivi la responsabilità dei danni che la scuola subisce. È proprio in relazione a quest’ultimo punto che la figura di IQ diventa particolarmente affascinante da esaminare. Come Yuki, anche lui viene emarginato dagli altri poiché diverso, seppur questo dipenda da una spiccata intelligenza. A differenza di Yuki, questa spaccatura viene metabolizzata da IQ come una forma di superiorità sociale, che lo fa ergere sopra tutti gli altri. Basti pensare che il personaggio passa buona parte del suo tempo in una conigliera, nella quale proietta un parallelismo simbolico tra i conigli e i suoi compagni di scuola. Dal suo punto di vista, il rapporto tra lui e gli altri alunni è come quello che ha con dei conigli; creature tenere, ma intellettualmente inferiori. Nonostante questo, ha un coniglio preferito che chiama, in modo indicativo, Yuki. IQ percepisce un’affinità tra lui e il protagonista, per questo prova più volte a interagire con lui.
Inverno/Conclusione
Arrivati a questo punto, diventa molto più facile comprendere il capitolo più corposo dell’opera, cioè Inverno. Nelle (poche) analisi che si trovano a riguardo, di solito questo capitolo viene descritto come onirico, metafisico o lynchiano. Stiamo parlando di aggettivi adeguati, specialmente se ci riferiamo alla componente “visiva” delle scene rappresentate. Questo appello a qualcosa di assurdo o ineffabile non dovrebbe però impedirci di comprendere cosa stia succedendo, a vari livelli, nella storia. Il capitolo inizia dopo l’avvicinamento di Tachibana ad IQ. Questo avvicinamento è dovuto al senso di angoscia che Yuki inizia a provare notando che, gradualmente, i suoi amici mostruosi non si stanno più manifestando. Per questo motivo il bambino decide di entrare in relazione con IQ che, in modo aridamente razionale, riesce a dargli una spiegazione solida dei suoi cambiamenti. Questo senso di angoscia è simboleggiato in modo evidente dalle metafore mortifere che Yuki usa durante tutta l’opera. Il fatto di “non poter più vedere Superstar e gli altri” equivale a un cambiamento corporeo: il cervello si indurisce come pietra e il corpo inizia a decomporsi. In questa situazione, Yuki trova un contatto con l’unica persona che riesce a spiegargli i suoi cambiamenti. Di fronte a questa angoscia, diventa anche facile comprendere perché Yuki decida di rifugiarsi con IQ al quarto piano della scuola. Rifugiarsi, nascondere e scappare sono visti come un modo di fermare questa decomposizione parziale; questo è possibile solo abbandonandosi totalmente alla propria immaginazione. Chiaramente questa è un’occasione anche per IQ, che finalmente può trovare qualcuno con cui condividere la propria “scatola”.
Inverno ed è difficile discriminare i due piani. Ciò che è importante, però, è comprendere i motivi per cui il gioco tra Yuki e IQ viene rotto. Perché, in altre parole, i due escono dal quarto piano che, anche nella mappa iniziale, era descritto come una tana delle creature invisibili. La questione può essere compresa facilmente riprendendo tutti i punti che avevamo già discusso. Yuki si costruisce un ambiente immaginario che ha una funzione compensativa: i mostri rappresentano, in qualche modo, il suo desiderio di partecipare comunicativamente con altri individui. Poiché l’ambiente a cui il bambino è abituato (e che vede come positivo) è quello, è facile capire come possa sentirsi angosciato dalla sua perdita. Questa perdita di immaginazione dipende proprio dal fatto che Yuki stia legando con Makoto, e che quindi non abbia più bisogno di strumenti compensativi. Yuki però non comprende questa cosa, almeno fino al finale, in cui vede Makoto cercarlo all’interno del quarto piano. Yuki decide volontariamente di uscire dal mondo dei mostri perché si rende conto che esiste un ambiente che lui trova molto più importante. Come avevamo già accennato, questo punto non deve essere interpretato mettendo in contrapposizione realtà e fantasia.
Nella sua scelta di uscire dal quarto piano Makoto non “rigetta simbolicamente” la fantasia per “entrare nella realtà”. Semplicemente capisce che il gioco dei mostri è un gioco che può anche non essere più giocato. L’idea è sottile e si riallaccia all’articolo su Ping Pong pubblicato su Terre Illustrate. Matsumoto non sembra suggerire un primato tra varie dimensioni quanto, piuttosto, il fatto che nella nostra vita ci ritroviamo continuamente a giocare. Giocare ci serve a comunicare, a stringere rapporti, a capire meglio il mondo. Però, allo stesso modo, un gioco non deve essere qualcosa che va mantenuto se smette di svolgere la sua funzione, oppure se non riesce più a soddisfarci. Abbastanza indicativo, infatti, che le ultime pagine dell’opera siano dedicate a descrivere una scena in cui Yuki è ancora intento a giocare (questa volta in bicicletta), ma insieme a Makoto. In linea con la sua opera precedente, anche qua Matsumoto sembra suggerire una visione del gioco come una cassetta degli attrezzi fondamentale nella nostra vita, ma i cui pezzi possono essere tranquillamente gettati una volta che non ne abbiamo più bisogno.
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Bibliografia
Huizinga J. 2002. Homo Ludens. Einaudi.
Furuya U. 2019. La musica di Marie. Coconino Press.
Kago S. 2014. Uno scontro accidentale sulla strada per andare a casa può portare a un bacio?. Hikari Edizioni.
Matsumoto T. 2000. GoGo Monster. J-POP Edizioni.
McCloud S. 1994. Understanding Comics: the invisible art. HarperPerennial.
Walton K. 1990. Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts. Harvard University Press.
Wittgenstein L. 2017. Ricerche filosofiche. Einaudi.
Wulf C. 2018. Homo imaginationis. Le radici estetiche dell’antropologia storico-culturale. Mimesis.
Sitografia
Tutti i siti sono stati visitati l’ultima volta in data 05/05/2024
https://dellecosenascoste.wixsite.com/home/post/ping-pong-the-animation-desiderio-e-crescita-nella-relazione-di-maestria
https://www.du9.org/en/entretien/matsumoto-taiyou/
https://terreillustrate.blogspot.com/2021/10/ping-pong-di-matsumoto-taiyo-arte.html
Note
https://www.du9.org/en/entretien/matsumoto-taiyou/ ↩︎
Si pensi a Ping Pong o a I Gatti del Louvre, in cui i momenti concettualmente più profondi si legano al culmine del climax narrativo e alla sperimentazione stilistica. Oppure si pensi alla varietà tematica di Sunny, rispecchiata dalla natura frammentaria ed episodica della narrazione. ↩︎
In Ping Pong il rapporto tra Peko e Smile può essere interpretato dal punto di vista estetico, come nell’articolo pubblicato su Terre Illustrate, ma anche da quello della crescita tramite la mimesi, come è stato esposto in https://dellecosenascoste.wixsite.com/home/post/ping-pong-the-animation-desiderio-e-crescita-nella-relazione-di-maestria. ↩︎
Anche questa, in realtà, può essere vista come una conseguenza della diversa modalità di pubblicazione. ↩︎
Già solo in Italia, basti pensare alla produzione accademica sulle immagini di Andrea Pinotti.
↩︎
Cfr. pag. 11 in cui vi è una prima presentazione di questo fenomeno. ↩︎
Come abbiamo già ricordato, una simile interpretazione non pare nemmeno plausibile. Lo stesso Matsumoto afferma di essere tornato una quantità innumerevole di volte sull’opera per rifinirla; credere che un elemento cardine della narrazione non sia esplicitato per via di una svista è un’interpretazione ingenua. ↩︎
Cioè considerandoli all’interno delle regole del mondo di GoGo Monster, senza interpretarli come simboli, metafore o altri artifici metanarrativi. ↩︎
Pag. 186 ↩︎
Pag. 202 ↩︎
Dopotutto, anche Gantsu non sembra convinto dell’affermazione della maestra sullo stato psicologico di Yuki, pag. 202. ↩︎
A esempio, pag. -3 ↩︎
Shintaro Kago sfrutta in modo brillante questa ambiguità tra rappresentazione effettiva e simbolo in un divertente racconto della raccolta Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio?. ↩︎
Cfr. Wittgenstein. 2017. ↩︎
Questo punto viene osservato in modo abbastanza divertente anche in McCloud. 1994. ↩︎
Cfr. Walton. 1990. ↩︎
L’idea che esistano differenze percettive tra singoli individui è un’idea che, nell’articolo su Ping Pong, è emersa in relazione al concetto di competenza motoria. In questo caso sembra che il fenomeno sia invece legato alle capacità immaginative di chi percepisce. Non ho mai riflettuto troppo su questo tema, ma è plausibile pensare che anche altre opere di Matsumoto approfondiscano questo punto. ↩︎
Un confronto interessante sarebbe con la geniale opera La musica di Marie di Furuya Usumaru. In quel caso il tema della differenza percettiva viene messo a confronto con l’esperienza religiosa e l’opera, in modo non così dissimile da GoGo Monster, termina con un’interrogazione conclusiva sul ruolo delle finzioni nella nsotra vita. L’uso di un sarcasmo pungente da parte di Furuya è sicuramente un modo di narrare differente da quello di Matsumoto, ma proprio questa differenza potrebbe portare a una comparazione fruttuosa. ↩︎
Un punto di riferimento sarà Walton. 1993. ↩︎
Chiaramente qui stiamo facendo esempi abbastanza banali. Alcuni autori sostengono che anche una aprte delle nostre pratiche sociali, come fare la guerra, siano interpretabili a partire dalla nozione di gioco. Si veda Huizinga. 2002. ↩︎
Wulf. 2018. p. 171. ↩︎
Wulf. 2018. p. 172. ↩︎
Wulf. 2018. pp. 172-173 ↩︎
Hard boiled, ma con un cuore d'oro - Il Lupin III di Hayao Miyazaki pt. 1 di 3
L’autore dell’articolo desidera ringraziare Mario Pasqualini per l’aiuto con la traduzione delle fonti in giapponese usate e Mario A. Rumor per l’aiuto nel reperimento di una di queste.
Per la maggior parte dei titoli in italiano degli episodi, delle serie e dei film menzionati in questo articolo si è scelto di usare una traduzione più fedele ai titoli giapponesi. Queste traduzioni sono state realizzate dall’autore dell’articolo o da Mario Pasqualini. Ciascuno di questi titoli sarà contrassegnato da una nota riportante il titolo giapponese originale e i titoli usati negli adattamenti ufficiali italiani.
Un ringraziamento anche a tutte le persone che hanno letto questo articolo in anteprima e mi hanno aiutato con i loro feedback.
Introduzione
Gli anni ‘70 sono stati per Lupin III un decennio importante. È in quegli anni, infatti, che il personaggio creato da Monkey Punch fa il passaggio dalla carta stampata all’animazione, dando il via a una lunga serie di adattamenti per il cinema e per la televisione che prosegue ancora oggi e che lo hanno reso un caposaldo della cultura popolare giapponese. Nel corso di questo processo, Lupin III si è reso indipendente dal materiale originale, cambiando, evolvendo e trasformandosi in base al gusto, allo stile e alle esigenza di ciascuno degli artisti che si sono avvicendati al timone delle sue avventure animate (e cartacee). Tra questi artisti spicca sicuramente il nome di Hayao Miyazaki, futuro fondatore e regista di punta dello Studio Ghibli, che proprio negli anni ‘70 ha diretto diverse opere aventi per protagonista Lupin III, lasciando sul personaggio e sulla sua storia un’impronta ormai indelebile. Lo scopo di questa serie di articoli sarà proprio quella di tracciare i contorni di quello che si potrebbe definire “il Lupin III di Hayao Miyazaki”, ricostruendo la storia e i dietro le quinte del suo coinvolgimento nel franchise e analizzando ciascuna delle opere che portano la sua firma. Il primo articolo si occuperà della prima serie, Lupin III Part 1 (1971-1972) (colloquialmente soprannominata dai fan “giacca verde”), di cui Miyazaki ha diretto, insieme a Isao Takahata, la seconda metà. Il secondo articolo sarà invece incentrato su Lupin III - Il castello di Cagliostro (1979), secondo lungometraggio animato del franchise nonché primo film della carriera da regista di Miyazaki. Infine, nel terzo e ultimo articolo sarà la volta degli episodi 145 e 155 della seconda serie di Lupin III, Lupin III Part 2 (1977-1980) (“giacca rossa”), gli unici da lui diretti, che hanno segnato la fine del coinvolgimento di Miyazaki.
L’uscita dalla Toei
Alla fine degli anni ‘60 Hayao Miyazaki era ancora un animatore Toei Dōga (futura Toei Animation), studio d’animazione in cui aveva esordito nel 1963. In quel periodo, Toei era nel pieno di un processo di razionalizzazione delle proprie risorse: molti degli animatori della vecchia guardia assunti a tempo pieno stavano venendo “invitati” a dimettersi1 e lo studio iniziava a concentrarsi sempre più sulla produzione di serie animate per la televisione2. Fu questo il clima che spinse Yasuo Ōtsuka, veterano della Toei Dōga nonché mentore di Miyazaki, a lasciare lo studio nel Dicembre 1968, dopo il completamento delle animazioni del film Il gatto con gli stivali (1969), per passare allo studio A Production, dove Daikichirō Kusube, fondatore dello studio nonché ex-animatore della Toei Dōga, lo aveva invitato3 a lavorare come animatore al Pilot Film di Lupin III2 che stava venendo prodotto per conto della casa di produzione Tōkyō Movie (futura TMS) sotto la regia di Masaaki Ōsumi. Questo cortometraggio di poco più di una decina di minuti fu realizzato con lo scopo di attirare l’interesse dei finanziatori per produrre un lungometraggio per il cinema tratto dal popolare manga di Monkey Punch. Il progetto fu percepito però come troppo rischioso e finì in stallo4. Ōsumi e Ōtsuka vennero quindi assegnati alla produzione della serie animata dei Mumin4, i personaggi creati dall’autrice finlandese Tove Jansson, che iniziò la messa in onda a partire dall’Ottobre del 19695.Secondo lo stesso Ōtsuka6, questa serie attirò l’attenzione di Miyazaki e Isao Takahata, che nel frattempo avevano già lasciato Toei, e li spinse, insieme all’animatore Yōichi Kotabe, a trasferirsi in A Production, dove nel 1971 tenteranno di realizzare un’altra serie animata ispirata a un classico della letteratura per l’infanzia occidentale: Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren. Il progetto non ottenne però l’approvazione dell’autrice e non vide mai la luce.
La prima serie di Lupin III e l’arrivo di Miyazaki e Takahata
Nel 1971 il progetto dell’adattamento animato di Lupin III si concretizzò in una serie per la televisione7. Ōsumi mantenne la sua posizione di regista mentre Ōtsuka venne promosso a character designer e direttore delle animazioni. I due decisero di mettersi al lavoro con l’intenzione di realizzare un tipo di animazione per adulti come non si era mai visto prima in televisione7. Ōtsuka diede seguito a questa intenzione concentrandosi sul realismo degli oggetti di scena: le armi e i veicoli non dovevano avere un aspetto generico, poco definito, ma dovevano sempre rifarsi ad armi e veicoli realmente esistenti8. Ōsumi si concentrò invece su altri aspetti, principalmente quelli legati alla regia e alla caratterizzazione dei personaggi: le atmosfere, per esempio, dovevano comunicare una certa noia esistenziale9 e il suo Lupin essere attraversato dall’apatia tipica di una persona ricca che si trova senza obiettivi e con troppo tempo tra le proprie mani10. Questo atteggiamento si rifletteva anche nelle pose che Ōtsuka chiese ai suoi animatori11: Lupin e Jigen dovevano essere personaggi scomposti, spesso allungati sul divano, con le spalle perennemente rilassate e mai con la schiena dritta, l’esatto contrario delle pose composte ed energetiche dei personaggi di Tommy La stella dei Giants a cui lavorarono fino a pochi mesi prima. A questa caratterizzazione per i personaggi si aggiunsero tutta una serie di influenze dal cinema live action, soprattutto dai film western o di Yakuza, che saranno ben evidenti nel corso della serie.
La serie esordì il 24 Ottobre 1971 su Yomiuri TV, ma il tanto ambizioso progetto di Ōsumi, Ōtsuka e del loro staff non andò incontro ai favori del pubblico: sin da subito gli ascolti furono infatti tremendamente bassi e arrivarono a toccare perfino il 4% di share12. In seguito alla trasmissione dei primi episodi vennero quindi indette diverse riunioni con lo staff e i produttori. Lo sponsor, il produttore di caramelle Asada, diede tutta la colpa del fallimento alla decisione di realizzare un cartone animato per adulti. L’azienda era fermamente convinta che l’animazione dovesse rivolgersi ai bambini e per questo fece promettere allo staff di adeguarsi a questo target eliminando gli elementi fuori luogo come, per esempio, quelli erotici12.Ōsumi si ritrovò una considerevole pressione addosso e, trovatosi alle strette, non sentì di poter far altro che dimettersi13. Per sostituirlo Kusube decise di affidare la regia della serie a Miyazaki e Takahata che, titubanti, accettarono unicamente perché lo studio non aveva altre alternative14. I due decisero quindi di prendere le redini della serie firmandosi con lo pseudonimo Gruppo dei registi A Production.
Lupin III - La prima serie
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La coppia si approcciò alla serie con delle idee precise, in parte opposte a quelle di Ōsumi, che Miyazaki, nonostante l’anonimato iniziale, diversi anni dopo ha esposto pubblicamente in più di un’occasione151617. Contrario al mantenere l’apatia dei primi episodi che era, secondo lui, un riflesso della società dei primi anni ‘70, Miyazaki desiderava portare nella serie quello spirito entusiasta e affamato di nuove esperienze che caratterizzava il Giappone della crescita economica della fine degli anni ‘60 e lo stesso manga originale di Monkey Punch. Non più un ricco annoiato che metteva in dubbio la propria esistenza, nella sua interpretazione Lupin III era un personaggio che non aveva mai conosciuto la ricchezza accumulata e sperperata dal suo illustre antenato, una figura spensierata e ottimista, incapace di rimanere ferma e sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo ed eccitante da fare. Jun’ichi Iioka, responsabile del dipartimento di sceneggiatura della serie, riporta che a sua volta Takahata avrebbe espresso durante le riunioni con lo staff l’intenzione di rendere Lupin III un personaggio più eroico e di alleggerire le atmosfere della serie introducendo diverse gag e scene slapstick18. Per le trame degli episodi Takahata guardava a dei modelli letterari19, alle storie scritte da Maurice Leblanc con protagonista Arsène Lupin, l’originale ladro gentiluomo, e a quelle scritte da Edogawa Ranpo con protagonisti il detective Akechi Kogorō (che era anche apparso in alcuni capitoli del manga originale e nel Pilot Film) e la sua nemesi, l’astuto ladro soprannominato “L’uomo misterioso dalle venti facce”. Nei primi episodi diretti da Ōsumi i furti erano un elemento secondario, se non spesso proprio assente: il suo Lupin III era prima di tutto una celebrità del sottobosco criminale e solo secondariamente un ladro professionista. Al contrario, Takahata aveva l’intenzione di riavvicinare Lupin al mestiere di ladro dando maggiore spazio ai furti, ai piani ingegnosi e strampalati con cui li portava a termine e alle sfide tra lui e Zenigata, che così sarebbe apparso molto di più di quanto sarebbe dovuto apparire se fosse rimasto Ōsumi al timone19. Con queste direzioni in mente, Miyazaki e Takahata rivoluzionarono la prima serie di Lupin III, donandole una seconda anima che, affiancandosi a quella di Ōsumi, la rese un lavoro unico e irripetibile.
Il passaggio dalla visione artistica di Ōsumi a quella di Miyazaki e Takahata non avvenne in maniera drastica ma fu graduale e non privo di problemi. Il primo cambiamento visibile della serie riguardò l’introduzione di una nuova sigla d’apertura a partire dall’episodio 4. La nuova sigla consisteva in un montaggio di scene dell’anime e del Pilot Film accompagnato da un breve monologo con cui Yasuo Yamada, doppiatore del personaggio di Lupin III, introduceva la serie e i suoi protagonisti. L’utilizzo di animazioni riciclate lascia supporre che si trattasse probabilmente di un cambiamento dell’ultimo minuto dovuto a quanto stava avvenendo dietro le quinte della serie. Infatti, prima ancora che Takahata esprimesse questa intenzione, a insistere che venisse reso più chiaro che Lupin III fosse un ladro e non un semplice criminale fu la stessa Yomiuri TV20. Il cambiamento della sigla di apertura segnò inoltre la scomparsa del nome di Ōsumi dai crediti: fatta eccezione per l’episodio 9, tutti gli episodi dal 4 al 15 non presentano infatti nessuna indicazione su chi fosse il regista della serie. Stando alle testimonianze1213, Ōsumi deve aver lasciato la produzione della serie proprio nel periodo della messa in onda degli episodi 3 e 4. Inoltre, Ōtsuka riferisce che Miyazaki e Takahata si sarebbero fatti carico di organizzare e correggere gli storyboard, un compito che prima spettava a lui e a Ōsumi, a partire dall’episodio 521. I due devono quindi essere subentrati prima della messa in onda del suddetto episodio. Ovviamente in quel momento i lavori per diversi degli episodi successivi erano in uno stato già piuttosto avanzato e lo stesso Ōtsuka22 riteneva che la regia vera e propria di Miyazaki e Takahata fosse iniziata con gli episodi 11 e 13 e che gli episodi precedenti, pur avendo subito alcune modifiche e tagli, rimanessero principalmente il frutto del lavoro di Ōsumi. Comunque, al loro arrivo Miyazaki e Takahata presero immediatamente la situazione in mano e bloccarono tutti gli storyboard e le sceneggiature degli episodi che non erano ancora stati trasformati in animazione, analizzando il materiale esistente per decidere cosa tenere, cosa cambiare e cosa scartare completamente1522. Per via di queste revisioni, i lavori di animazione incapparono in molti ritardi e Miyazaki stesso si ritrovò a dover contribuire disegnando diverse scene22 degli episodi a cui aveva lavorato Ōsumi, rendendo così ancora più difficile distinguere in maniera netta dove finisca il lavoro di quest’ultimo e dove inizi quello della coppia che lo ha sostituito.
Il cambio di direzione provocò un terremoto anche tra gli sceneggiatori. Secondo Jun’ichi Iioka19, quando Miyazaki e Takahata presero in mano la serie le sceneggiature per i primi 21 episodi erano già state completate sotto la supervisione di Ōsumi. Tutte quelle i cui lavori di animazione non erano ancora iniziati, fatta eccezione per una, furono però scartate e riscritte da zero19. Inoltre, buona parte del team iniziale di sceneggiatori decise di andarsene seguendo Ōsumi perché non interessata alla direzione che la serie avrebbe preso19. Fu Takahata a farsi quindi carico di supervisionare le nuove sceneggiature: la suddivisione dei compiti prevedeva che lui si occupasse di studiare i materiali originali e di lavorare con gli sceneggiatori alle trame degli episodi, prestando soprattutto attenzione a definire l’aspetto logico degli intrecci23. È probabilmente a questo lavoro di Takahata che si deve la presenza costante di piani e trucchi negli episodi della seconda metà della serie, elemento che si farà invece secondario per lasciare spazio all’azione e all’avventura nelle opere su Lupin III che anni dopo Miyazaki dirigerà in solitaria. Durante i lavori a questa prima serie, quest’ultimo non partecipava alle riunioni con gli sceneggiatori, ma si riuniva solo in seguito con Takahata per discutere di ciascun episodio19. Inoltre, Miyazaki collaborava con Ōtsuka alla creazione dei design dei veicoli e dei personaggi14 e, ovviamente, alla supervisione delle animazioni. Come accennato prima, l’obiettivo della nuova direzione della serie era non solo di riavvicinare Lupin III alle sue origini di ladro, ma anche quello di aumentare le gag e gli elementi slapstick per avvicinare gli spettatori più giovani18. In questo il contributo di Miyazaki agli storyboard e alle animazioni della serie fu fondamentale24.
Le avventure di Arsenio Lupin - Ladro gentiluomo di Maurice Leblanc
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La fase di transizione
Date le tempistiche descritte in precedenza, è improbabile che Miyazaki e Takahata fossero riusciti ad apportare modifiche rilevanti agli episodi 5 e 6. Discorso diverso per gli episodi immediatamente successivi che, nonostante fossero già a buon punto, subirono probabilmente alcuni tagli, aggiunte e modifiche, seppur in maniera non invasiva14. Nell’episodio 7, Lupo chiama lupo25, Lupin III è intenzionato a rubare le pergamene che contengono il segreto della spada di Goemon. L’episodio contiene diverse scene di violenza ed è in generale in linea con i precedenti di Ōsumi. Allo stesso tempo, però, la seconda metà dell’episodio vede Lupin coinvolto in due duelli che si risolvono, senza violenza, con delle gag che stemperano di molto le atmosfere, già piuttosto leggere nella prima metà. Non è possibile sapere con certezza se queste scene fossero state pensate così già sotto la supervisione di Ōsumi, anzi, viste le tempistiche, è probabile che lo fossero, ma è possibile ipotizzare che alcune di queste gag, come quella in cui uno dei samurai avversari rincorre Lupin agitando la spada, siano state ritoccate, magari allungate e animate, sotto la supervisione di Miyazaki o da Miyazaki stesso. Discorso diverso invece per l’episodio 8, Tutti riuniti nell’Operazione Carte da gioco26, al cui interno sembrano iniziare a convivere le due anime della serie. In questo episodio Lupin si impossessa di un mazzo di carte leggendario soffiandolo a un affarista senza scrupoli che, ovviamente, tenterà di tutto pur di riprenderselo. Già durante la fase di pre-produzione era stato deciso che l’episodio 8 sarebbe stato il primo a presentare la gang di Lupin al completo (da qui il titolo)27 e, per la maggior parte del minutaggio, l’episodio è in piena continuità con i precedenti, oltre che ispirato a due capitoli del manga, il 57 e il 59, di cui uno già adattato nel Pilot Film diretto dallo stesso Ōsumi. Al contrario, la prima parte dell’episodio è molto vicina al tipo di vicende che Takahata e Miyazaki avevano intenzione di mettere in scena: Lupin avvisa la sua vittima prima di compiere il furto e con una serie di trucchi riesce nei suoi intenti senza che Zenigata possa fare nulla per fermarlo. Inoltre, fino all’episodio precedente le vicende della serie si erano svolte principalmente in ambientazioni spoglie, isolate e lontane dalla società. Il furto all’inizio dell’episodio 8 si svolge invece in un contesto di vita mondana, non solo distante dai precedenti ma anche più vicino al modello letterario rappresentato dalle avventure di Arsène Lupin scritte da Maurice Leblanc. Sin dagli inizi della produzione pare che l’emittente televisivo facesse pressioni su Ōsumi affinché si concentrasse di più su questo tipo di storie20 ed è quindi molto probabile che l’idea di iniziare l’episodio in questo modo fosse già nei suoi piani. Nonostante questo, alcuni dettagli della messa in scena di questa prima parte potrebbero essere stati rimaneggiati in qualche misura da Takahata e Miyazaki. L’idea di un Lupin che si traveste da formosa signora di mezz’età o che usa un pallone gonfiabile con le fattezze di suo nonno per attuare la fuga sembrano infatti più vicine alla versione del personaggio dal carattere giocoso che Takahata e Miyazaki svilupperanno più avanti. A destare i maggiori sospetti, comunque, è la scena successiva: in essa, Lupin spiega di aver commesso il furto unicamente con lo scopo di farla pagare alla sua vittima accusandola di essere una persona avida che ha costruito la propria fortuna sulle spalle dei più poveri. Per quanto si tratti di un elemento totalmente secondario nell’economia dell’episodio, questo discorso contraddice un po’ la figura del personaggio che agisce seguendo unicamente i propri interessi e la propria curiosità che era stata costruita fino a quel momento, anticipando così quella vena eroica che Takahata e Miyazaki erano intenzionati a sviluppare.
Tra gli episodi che compongono questa fase centrale di transizione, l’episodio 9, Il sicario canta il blues28, rappresenta un caso piuttosto particolare. In esso fa la sua comparsa un sicario di nome Poon che apre una finestra sul misterioso passato di Fujiko. In apertura l’episodio ripropone la sigla dei primi tre episodi dove Ōsumi viene nuovamente indicato come regista della serie. Un segno, forse, di quanto l’episodio sia rimasto fedele alla sceneggiatura e agli storyboard realizzati sotto la sua supervisione. In effetti, non solo è in piena continuità con il lavoro di Ōsumi nell’intreccio e nel taglio registico, ma ripropone anche i temi e le atmosfere malinconiche presenti principalmente nella prima manciata di episodi. Come nell’episodio 2, L’uomo chiamato mago29, viene esplorato il personaggio di Fujiko e il suo rapporto con Lupin: quello femminile negli episodi di Ōsumi è un universo misterioso e inconoscibile e Fujiko, la sua rappresentante principale, è una figura enigmatica dal passato sconosciuto, fedele solo a sé stessa e impossibile da comprendere per gli uomini della serie, unicamente destinati a fare da pedine nelle sue macchinazioni. In questo episodio non solo viene fatta luce su una parte dei suoi trascorsi, ma la vediamo aprirsi e mostrare una fragilità e dei sentimenti apparentemente sinceri, soprattutto nei confronti di Lupin. Di fatto Ōsumi sembrava voler aprire qui uno spiraglio per sviluppi successivi nel rapporto tra i due che però non hanno mai avuto modo di concretizzarsi per via del suo abbandono. Con i cambiamenti a cui è andata incontro la serie e, soprattutto, con l’enorme successo raggiunto dal franchise negli anni seguenti, i cinque protagonisti hanno finito per cristallizzarsi nei loro ruoli, azzerando quasi del tutto la possibilità che il loro rapporto evolva in qualche modo. Questo è uno dei motivi per cui l’episodio 9 occupa un posto speciale in questa fase di transizione della serie. Nonostante tutti questi fattori, l’episodio fu anche il primo in cui l’apporto di Miyazaki si fece realmente rilevante: la mano dietro le animazioni di buona parte delle scene d’azione della prima metà dell’episodio è, infatti, inconfondibilmente la sua. Nonostante ciò, il numero di gag rimase ridotto al minimo e i toni adulti della trama vennero in larga parte rispettati, anche se proprio questi elementi furono causa di un contenzioso tra lo staff. Ōsumi ha raccontanto30 che la sceneggiatura originale prevedeva che lo stratagemma adoperato da Lupin per distrarre il compagno di Poon si concludesse con il lancio di una lancia di bambù affilata che lo avrebbe infilzato e ucciso. Sempre stando a quanto riportato in una sua intervista30, qualcuno dei membri dello staff riteneva che si trattasse però di un omicidio troppo crudele da disegnare e pare che per questo Miyazaki abbia proposto di concludere la scena con una gag: sulla punta della lancia di bambù sarebbe apparso un guantone da boxe che avrebbe steso il nemico. Non è chiaro quanto questo aneddoto riguardante Miyazaki possa essere attendibile dato che Ōsumi non era da tempo più presente. In ogni caso, alla fine si adottò una via di mezzo: il lancio di un sasso che, colpendolo sulla testa, finisce per tramortire e far precipitare il compagno di Poon.
Con l’episodio 10, Punta al falsario!31, si fa ancora più evidente la coesistenza di due anime diverse all’interno della serie. L’episodio vede Lupin in competizione con il Barone Ukraine su chi tra i due riuscirà per primo a reclutare Ivanov, un famoso falsario di banconote che si è da tempo ritirato dal mondo criminale. Oltre ad anticipare diversi aspetti della trama di Lupin III: Il castello di Cagliostro, il film che Miyazaki dirigerà nel 1979, l’episodio contiene più di un elemento che riflette il gusto e la direzione ricercata dalla coppia Miyazaki/Takahata e che pertanto possiamo provare ad attribuire a loro. Il primo elemento, quello più inconfondibile, è quello del volo: la passione di Miyazaki per gli aeroplani è ampiamente documentata nonché onnipresente nelle sue opere, e proprio nella prima metà di questo episodio ritroviamo diverse scene di volo, inclusa una battaglia aerea, che è impossibile non attribuire a lui. Difficile invece attribuire a qualcuno con certezza la paternità dell’enigma sul nascondiglio di Ivanov: è uno snodo di trama perfettamente in linea con l’intenzione di Takahata di avvicinare la serie alle storie di Leblanc ed Edogawa, ma nulla esclude che questo elemento fosse già presente nella sceneggiatura inizialmente supervisionata da Ōsumi. Infine, l’episodio presenta un notevole contrasto di tono tra le scene con protagonista Lupin e quelle incentrate su Ivanov. Se da un lato si toccano infatti in maniera fugace temi maturi e inusuali come la depressione di Ivanov, i suoi rimpianti per i crimini commessi e la sua relazione platonica con Silver Fox, dall’altro lato le atmosfere sono spesso stemperate dalle gag e le scene d’azione che coinvolgono Lupin. L’apice di questo contrasto di tono avviene nel finale che vede Lupin e Flinch scontrarsi a mani nude in una scena di stampo marcatamente comico mentre Ivanov, perduta la donna amata, decide di farsi saltare in aria assieme al suo rifugio.
Secondo Ōtsuka, l’episodio 11, Tempo che il settimo ponte cada32 è il primo la cui regia si può attribuire pienamente alla coppia Miyazaki/Takahata22. Indubbiamente, gli elementi che è possibile ricondurre a loro sono molti, anche se nasce comunque sotto la direzione di Ōsumi, ispirato al capitolo 17 del manga, e prevedeva inizialmente il fratello di Pycal nei panni del villain33. La trama vede Lupin indagare su una figura che sta facendo saltare in aria tutti i ponti di una città spacciandosi per lui; rintracciato il colpevole, il ladro scopre di essere finito in una trappola e viene costretto sotto ricatto a compiere il furto di un’auto blindata. Innanzitutto, l’ambientazione dell’episodio è completamente diversa da quella dei precedenti: i fatti si svolgono in una piccola città costiera attraversata da diversi canali la cui architettura ricorda, per quanto generica, più una città europea che una giapponese. Come detto in precedenza, Miyazaki e Takahata prima di prendere le redini di Lupin III avevano tentato di realizzare un anime tratto da Pippi Calzelunghe e negli anni successivi realizzeranno diverse opere tratte dalla letteratura europea o semplicemente ambientate in Europa. È quindi possibile che l’ambientazione di questo episodio rifletta questo interesse per l’Europa e i suoi paesaggi. Passando all’intreccio, l’episodio prosegue il lavoro di ridefinizione del personaggio di Lupin: l’apatia delle sue prime avventure è ormai completamente sparita e lo vediamo qui invece interpretare per la prima volta il ruolo dell’eroe in maniera del tutto disinteressata. Il suo obiettivo è quello di salvare una fanciulla innocente, un tipo di personaggio ricorrente nelle opere della prime fasi della carriera di Miyazaki e nel resto del franchise di Lupin III, anche grazie proprio all’influenza del suo Lupin III: Il castello di Cagliostro. Anche per questo, è probabile che il suo design dai tratti delicati sia opera dello stesso Miyazaki. Non è un caso, forse, che l’incipit dell’episodio veda Lupin intenzionato a ripulire il proprio nome da dei crimini che non ha commesso: è, infatti, come se la serie stesse tracciando una linea di confine tra il Lupin III criminale introdotto nella prima metà e il Lupin III ladro gentiluomo che andrà definendosi da qui in avanti. Nel cambiare il personaggio Takahata e Miyazaki non fanno però l’errore di eliminare un tratto distintivo del personaggio: la sua coolness. L’episodio infatti si distingue non solo per la sua trama divertente, articolata e piena di trucchi, ma anche per la sequenza che vede un Lupin ammanettato caricare la pistola con i denti e prendere la mira per colpire il nemico in barca: il lavoro di sound design, la colonna sonora western, l’attenzione della regia sul gesto e il sangue freddo di Lupin rendono questo momento una delle scene più cool di sempre. La scena però è subito controbilanciata da una gag, che comunque non stona troppo con l’episodio né rovina il momento come si potrebbe pensare. Nonostante Ōtsuka attribuisca l’episodio a Miyazaki e Takahata, visto che in realtà i semi erano stati già piantati da Ōsumi non è perfettamente chiaro a chi dovrebbe spettare la paternità di questa scena tanto iconica. L’aspetto cool del personaggio rimarrà anche negli episodi successivi, seppur continuamente stemperato dai momenti comici, e sarà più centrale nelle opere di Lupin III che Miyazaki dirigerà in solitaria. Tuttavia, una scena di questo tipo non si ripeterà più nella serie, sia nella sua dimensione narrativa, che vede Lupin uccidere un’altra persona, sia in quella registica, con le sue influenze western. Questo ci permette di sollevare un punto che andrebbe sempre tenuto a mente quando si parla di un lavoro collettivo come quello che si nasconde dietro la produzione di una serie animata: non tutte le idee possono essere attribuite al regista, anzi, tutto il contrario. Il tentativo che si sta facendo in questo articolo di comprendere sotto quale regista siano state realizzate determinate scene non significa che sia tutto frutto delle idee di questi registi. In questo caso, per esempio, è possibile che la scena sia nata o si sia sviluppata in questo modo anche grazie all’influenza della persona che si è occupata degli storyboard, di uno degli animatori o dello stesso Ōtsuka. Esattamente come l’episodio 13, l’ultimo con ancora qualche influenza del lavoro di Ōsumi, che presenterà elementi atipici per la serie dovuti probabilmente alla realizzazione degli storyboard da parte di un artista d’eccezione: Osamu Dezaki3.
Sempre stando a Ōtsuka, l’episodio 12, Alla fine chi riderà?34, era l’ultimo i cui lavori erano già avviati mentre Ōsumi era ancora al timone della serie22. È forse il meno riuscito di questa fase di transizione per via di più di un fattore. In questo episodio Lupin deve vedersela con Hayate, l’esponente di un’organizzazione criminale non meglio identificata, per il possesso dell’ultimo tesoro di un villaggio sperduto tra le montagne. In questo episodio, ancora più che nel decimo, le scene con protagonisti Lupin, Jigen e Fujiko presentano dei toni sopra le righe completamente diversi rispetto a quelli più drammatici delle scene con Hayate e i suoi sottoposti, per cui l’onore è una questione di vita o di morte. Anche qui, il finale è piuttosto esplicativo di questa tendenza: per Lupin e Jigen l’intera vicenda non è stata niente più che un gioco e quando prendono in scacco Hayate lo invitano ad andarsene senza causare ulteriori spargimenti di sangue, ma quest’ultimo, sollecitato da un suo sottoposto, preferisce gettarsi tra le fiamme per lavare con il suicidio l’onta dei suoi fallimenti. Rispetto all’episodio 10, però, tutto il resto non funziona: il piano di Lupin sembra un insieme di mosse scelte a caso, senza alcuna logica concreta, mentre la storia del villaggio e dell’organizzazione di cui fa parte Hayate è priva di dettagli e non ha alcuna profondità. Quest’ultimo aspetto potrebbe essere in realtà dovuto alla censura: stando a Ōsumi, la sceneggiatura originale toccava argomenti tabù come gli Ainu e i Burakumin e pertanto venne manomessa in maniera consistente35. Di questi riferimenti sembra essere sopravvissuto solamente il vestito del capo del villaggio le cui decorazioni ricordano quelle del vestiario tipico degli Ainu. È curioso notare, tra l’altro, che Miyazaki e Takahata fossero già incappati in un’esperienza simile: anche il film Il principe del sole - La grande avventure di Hols36 (1968) diretto da Takahata presso la Toei Dōga sarebbe dovuto essere ambientato in un villaggio Ainu, ma così non è stato per via delle interferenze dello studio.
Come già detto, l’episodio 13, Attenzione alla macchina del tempo!37, è l’ultimo episodio a essere stato influenzato in qualche misura dall’operato di Ōsumi. Si tratta, infatti, dell’unica sceneggiatura, tra quelle realizzate sotto la sua supervisione ma di cui non erano ancora iniziati i lavori di animazione, a non essere stata scartata19. Il titolo originale della sceneggiatura doveva essere “Solo dicendo addio si vive”1938. La storia, ispirata al capitolo 83 del manga, vede Lupin alle prese con Kyōsuke Mamō, un uomo in possesso di una macchina del tempo intenzionato a fare fuori Lupin III per impedire a Lupin XIII di distruggere la sua famiglia nel XXIX secolo. Ovviamente, anche se la sceneggiatura originale era stata realizzata prima del loro arrivo, Miyazaki e Takahata realizzarono un episodio che riflette pienamente la nuova direzione della serie. Dopo un prologo carico di pathos e di mistero, l’episodio si apre con Lupin e Jigen intenti in uno dei loro soliti furti. Ormai il canovaccio che diverrà una delle colonne portanti della serie è stato impostato: Lupin avvisa in anticipo la sua vittima, Zenigata prova a fermarlo ma non riesce a opporsi ai suoi piani ingegnosi. Portato a termine il colpo, i due si fermano a celebrare e a commentare il loro successo tra le risate e la soddisfazione. La scena serve chiaramente a preparare il secondo ingresso in scena di Mamō, pronto a spegnere il loro entusiasmo, ma è anche un primo segno di quanto sia diverso questo Lupin rispetto a quello visto in precedenza: non più irrigidito dalla sua noia esistenziale, il nuovo Lupin pratica il furto per puro divertimento, per amore del rischio e della sfida. Il resto dell’episodio ci mostra inoltre un personaggio più sopra le righe, spensierato, a tratti spavaldo e bambinesco. Questo non è più il Lupin dell’episodio 4, Una sola chance di fuga39, che dinanzi alla possibilità di venire giustiziato resta fermo a contemplare la morte ponderando se abbracciarla o meno; questo Lupin della morte ha invece paura, e, messo alle strette da un personaggio quasi onnipotente come Mamō, rimane profondamente turbato e cerca di nascondere questo suo stato d’animo facendo il buffone. Discorso simile anche per Jigen e Goemon i cui caratteri sono stati alleggeriti per prestarsi meglio ai toni comici dell’episodio che, nonostante metta Lupin in una situazione disperata, è comunque pieno di gag. A questo proposito, un cambiamento apportato da Miyazaki e Takahata rispetto alla sceneggiatura originale di cui siamo a conoscenza con certezza riguarda il finale: inizialmente era previsto che Lupin uccidesse Mamō con una falce19, ma nell’episodio finito si limita a metterlo in fuga dopo averlo ridicolizzato assieme a Jigen e Goemon, prima disarmandolo e privandolo dei suoi vestiti, e poi distruggendo a martellate la sua macchina del tempo.
Un discorso a parte andrebbe fatto per il personaggio di Fujiko. Mentre Lupin e i suoi due compagni, anche se in misura minore, hanno subito un cambiamento drastico ma ben ragionato, lei da questo episodio ne esce unicamente impoverita. Il suo personaggio è una figura piatta che fa da sfondo: il suo rapporto complesso e contraddittorio con Lupin è completamente spazzato via e i due diventano qui una sorta di coppia generica di fidanzati. Dopo vari tentativi di appuntamento interrotti dall’intervento di Mamō, Lupin arriva persino a chiederle la mano per poterla sposare prima di morire. Fujiko non solo accetta con piacere, ma nella scena finale, dopo che ormai il pericolo è stato scongiurato, rivendica la promessa d’amore fattagli e cerca di costringere Lupin a sposarla nonostante le sue proteste. Si tratta di una dinamica completamente aliena al personaggio e alla serie, che non verrà più riproposta e il cui tiro verrà, per fortuna, aggiustato già a partire dall’episodio successivo.
Gli episodi di Miyazaki e Takahata
L’episodio 14, Il segreto dello smeraldo40, segnò la fine della fase di transizione della serie. Da qui in avanti, tutti gli episodi, questo incluso, furono concepiti e realizzati per intero sotto la regia di Miyazaki e Takahata. La trama di questo episodio vede Lupin e Fujiko infiltrarsi a una serata di gala su una nave per rubare uno smeraldo chiamato “Occhio del Nilo”; lo smeraldo, però, non si trova dove loro credevano che fosse e i due dovranno scoprirne la vera ubicazione senza insospettire Zenigata, anche lui presente sulla nave. Si tratta di un intreccio vivace, e, come si potrebbe aspettare da Miyazaki, la regia gioca soprattutto a esaltare i movimenti dei personaggi, adottando uno stile meno ricercato rispetto a quello ricco di influenze dal cinema dal vivo di Ōsumi per dare così maggiore spazio alle animazioni. L’episodio, come i successivi d’altronde, è infatti pieno di momenti comici e gag slapstick, tra cui colpisce soprattutto la buffa e articolata sequenza di ballo tra Zenigata e Fujiko. L’ambientazione è, come all’inizio dell’episodio 8, mondana, aristocratica, ma è completamente scomparsa qualsiasi figura negativa o criminale, a eccezione ovviamente dei ladri protagonisti: da qui in avanti le apparizioni di personaggi di questo tipo saranno poche e circoscritte a una manciata di episodi. Infine, in questo episodio fa la sua apparizione una Fujiko completamente nuova. I suoi capelli non sono più lunghi e mossi ma sono diventati un caschetto mentre il suo fisico e il suo vestiario sono stati ridisegnati per ridurre l’accento che veniva dato alle curve del suo corpo. Al livello caratteriale, non più la donna indecifrabile degli episodi precedenti, questa nuova Fujiko è a tutti gli effetti una rivale e una collaboratrice saltuaria di Lupin, anche se non disdegnerà, nei prossimi episodi, di continuare a tradirlo o ad approfittarsi di lui facendo leva sul suo fascino.
L’episodio 15, Catturiamo Lupin e andiamo in Europa41, dà inizio al filone di episodi in cui le sfide e gli inseguimenti tra Lupin e Zenigata sono al centro o occupano una parte prominente delle storie. In questi episodi la dinamica tra i due diviene un misto tra il gioco Guardie e ladri e gli inseguimenti in stile Tom & Jerry. Sono sfide le cui mosse e contromosse sono sia mentali che fisiche: il divertimento di questi episodi, infatti, non sta solo nei trucchi assurdi e ingegnosi escogitati da Lupin, ma anche nel modo con cui vengono messi in pratica e nelle conseguenze che hanno sui personaggi. Spesso, anche per via delle intromissioni di Zenigata, le mosse di Lupin riescono, o non riescono, solo per un soffio, lasciando col fiato sospeso lo spettatore e generando una risata nel momento in cui qualcosa va storto e Lupin ne paga le conseguenze fisiche. Rispetto ai precedenti, in questi episodi Zenigata si fa più vivace e intraprendente, un vero e proprio terremoto, pronto a tutto pur di battere Lupin al suo stesso gioco. Alla fine, però, il ladro ha sempre la meglio, generando ulteriori risate per via delle reazioni scomposte del povero Zenigata, destinato a essere l’eterno sconfitto anche quando sembra avere la vittoria in pugno. A questo nuovo filone appartengono, chi più e chi meno, tutti gli episodi successivi, fatta eccezione per il 20 e il 21. Tutta questa evoluzione nella loro dinamica sarebbe riuscita la metà se Miyazaki e Ōtsuka non avessero fatto evolvere anche lo stile di animazione della serie: in questi episodi, lo stile di disegno si fa più morbido, meno realistico, i volti si fanno più tondeggianti e le espressioni più esagerate, ma soprattutto i movimenti vengono accentuati per dare maggiore carica alle gag slapstick e agli inseguimenti tra i personaggi. Questa evoluzione nelle animazioni non arriva però senza alcun singhiozzo: l’episodio presenta diversi momenti in cui i tratti e la capigliatura di Fujiko cambiano continuamente da un’inquadratura all’altra, a volte imitando il design dei primi episodi, come se gli animatori non fossero ancora venuti pienamente a patti con il nuovo design del personaggio.
L’episodio 16, Tattiche di furto alla gioielleria42, porta due cambiamenti importanti. Il primo riguarda l’esordio di una nuova sigla di apertura interamente composta da clip degli episodi precedenti. La selezione, ovviamente, pesca principalmente dagli episodi di Miyazaki e Takahata ma riprende anche scene dai precedenti, concentrandosi soprattutto sul mostrare gli inseguimenti e le disavventure che coinvolgono Lupin, i suoi compagni e la polizia. Il testo del nuovo brano perlopiù ripete il nome di Lupin III, come quello usato per la prima sigla di apertura, ma il ritmo è più vivace e il tono più allegro, perfettamente in linea con il cambiamento della serie stessa. Solo per questo singolo episodio, la sigla è accompagnata da un monologo di Goro Naya, doppiatore di Zenigata, che, sotto forma di rapporto ufficiale, descrive i cinque protagonisti (sé stesso incluso), riassumendo così le premesse della serie esattamente come faceva Yasuo Yamada nella seconda sigla d’apertura. Infine, questa nuova sigla è importante perché introduce per la prima volta i nuovi registi della serie sotto lo pseudonimo Gruppo dei registi A Production. L’altro cambiamento importante riguarda l’introduzione della Fiat 500 a sostituzione della Mercedes Benz SSK che Lupin aveva guidato in molti degli episodi precedenti e nella prima sigla. Il motivo del cambiamento fu principalmente di natura pratica: il design della Mercedes Benz SSK era piuttosto complesso da animare e pare che solo Ōtsuka e Yuzo Aoki, uno degli animatori di punta della serie, fossero in grado di disegnarla nelle varie angolazioni necessarie; Miyazaki avrebbe quindi proposto di usare una macchina come la Fiat 500 perché molto più facile da disegnare43. La Fiat 500 da cui presero ispirazione apparteneva allo stesso Ōtsuka e pare che Miyazaki abbia giustificato la scelta spiegando che un’utilitaria alla portata di tutti per un ladro che spesso rimane a bocca asciutta avesse anche più senso di una costosissima Mercedes Benz SSK43. In effetti, l’episodio 16 è proprio uno degli episodi in cui Lupin, pur avendola vinta, perde la refurtiva un attimo prima di farla franca. La macchina riflette probabilmente il gusto dello stesso Miyazaki che, come renderà poi esplicito in film come Porco Rosso (1992) e Si alza il vento (2013), apprezza l’Italia e l’ingegneria italiana. Inoltre si sposa bene con il cambiamento del personaggio, che in questi episodi dimostra un carattere molto più alla mano e spensierato. Già nel primo episodio diretto da Ōsumi Lupin si era travestito da idraulico per infiltrarsi in un edificio, ma è con la direzione di Miyazaki e Takahata che i suoi piani iniziano a implicare quasi sempre un nuovo travestimento, spesso da lavoratore manuale impegnato, di volta in volta, nei mestieri più disparati, senza nessuna paura di sporcarsi le mani o di svolgere mansioni poco dignitose per una figura del suo lignaggio. Infine, che la Fiat 500 si prestasse meglio a essere animata e utilizzata negli episodi della seconda metà della serie fu subito evidente: già al suo esordio la macchina si fa protagonista di diversi inseguimenti e gag, dimostrando una malleabilità ben diversa dalla Mercedes Benz SSK, che veniva invece utilizzata perlopiù in scene statiche e impostate. Rimanendo in tema veicoli, negli episodi appaiono di nuovo diversi mezzi di volo, alcuni realistici e altri ben più strampalati, che riflettono sicuramente il gusto e la passione di Miyazaki. Infine, l’episodio stabilisce un altro tratto caratteriale importante di Fujiko: a quanto visto in precedenza si aggiunge qui un’avidità esagerata, quasi parodistica, che diverrà tanto un suo tratto distintivo quanto un suo punto debole, un po’ come lo è per Lupin il suo debole per le donne, su cui, tra l’altro, si concentra proprio l’episodio successivo, il 17.
L’episodio 19, Quale sarà la terza generazione vincente?44, vede l’Ispettore Ganimard III, nipote dell’ispettore che dava la caccia all’originale Arsène Lupin, sfidare Lupin III in occasione di una mostra dedicata ai cimeli di suo nonno. Si fa quindi riferimento esplicito alla fonte letteraria del personaggio. Al contrario, l’episodio successivo, il 20 è, assieme al 13, l’unico episodio diretto da Miyazaki e Takahata a rifarsi a un capitolo del manga. Gli episodi nati sotto la regia di Ōsumi avevano spesso fatto riferimento al manga pescando a piene mani situazioni e stratagemmi oppure estendendo, approfondendo e riscrivendo storie e personaggi di alcuni capitoli per adattarle alla durata standard di un episodio. Quelle realizzate per intero da Miyazaki e Takahata sono invece per la maggior parte storie completamente originali, a eccezione, per l’appunto, dell’episodio 20, Cattura il falso Lupin45, che vede Lupin infiltrarsi su un’isola per indagare su una serie di furti che sono stati commessi sfruttando il nome e gli stratagemmi di suo nonno. L’incipit si rifà ai capitoli dal 2 al 5 di Lupin IIII - Le nuove avventure46, una serie di storie scritte e disegnate da Monkey Punch in concomitanza con la messa in onda dell’anime. L’intreccio dell’episodio, comunque, è perlopiù inedito ed è probabilmente il meno riuscito tra quelli diretti da Miyazaki e Takahata: le gag sono esagerate e piatte mentre gli stratagemmi troppo banali e facili.
L’episodio 21, Aiutate la bisbetica!47, è l’ultima eccezione al filone incentrato sulle sfide tra Lupin e Zenigata. In questo episodio Lupin deve salvare e proteggere la figlia dell’ex-partner di suo padre, Lupin II, mentre è inseguito dai rapitori e dalla polizia. Come per l’episodio 11, anche qui viene fuori il lato gentile ed eroico del personaggio, pronto a sacrificarsi e a mettere i propri interessi e la propria reputazione al secondo posto rispetto alla sicurezza di un innocente. Si tratta di nuovo di una giovane fanciulla, ma questa volta il suo carattere è più sfrontato e irrequieto. Il suo aspetto comunque, persino più di quello di Lisa, la ragazza dell’episodio 11, ricorda le future protagoniste delle opere di Miyazaki. L’episodio è inoltre uno dei pochi tra quelli diretti da Miyazaki e Takahata a presentare alcuni elementi emotivi e melodrammatici, pur rimanendo principalmente una storia d’avventura dai toni leggeri. Come nei finali dell’episodio 11, di Lupin III: Il castello di Cagliostro e dell’episodio 155 della seconda serie, anche qui la storia si chiude con una certa nota malinconica, con l’idea che Lupin non appartenga al mondo di cui fanno parte le giovani fanciulle che di volta in volta si ritrova a salvare. Pur nascondendo un cuore d’oro, Lupin rimane pur sempre un ladro che quindi non può far altro che sparire dopo aver compiuto le sue buone azioni, senza possibilità di rimanere a prendersene i meriti.
L’episodio 23, La grande competizione per l’oro48,è il finale della serie: un’enorme quantità di monete d’oro viene ritrovata per caso durante i lavori per costruire la metropolitana di Tōkyō e divengono l’oggetto della sfida finale tra Lupin III e l’Ispettore Zenigata. Miyazaki successivamente raccontò che che tutto lo staff si divertì parecchio a realizzare questo episodio, a inservirvi tutto ciò che piaceva loro e ad alzare al massimo il livello di assurdità49. Il risultato è uno degli episodi più intensi, divertenti e rifiniti della serie, ricco di tutte le caratteristiche migliori di questa seconda metà diretta da Miyazaki e Takahata. Animazioni e fondali sono decisamente più curati ed elaborati, e l’intreccio è un continuo susseguirsi di mosse e contromosse, inseguimenti e gag slapstick. In un finale che sembra anticipare tutte le volte che verrà dato per morto nelle opere successive, Lupin decide di farsi saltare in aria insieme al suo ultimo covo e ai suoi compagni per sfuggire alle grinfie dell’Ispettore Zenigata che, convinto di aver perso la sua ragione di vita, scoppia a piangere. Nella scena seguente viene svelato che non si trattava di nient’altro che dell’ennesimo trucco di Lupin, salvo in un barile alla deriva nel mare e pronto a ricominciare da capo in un’altra nazione. Il suo acerrimo nemico, però, lo raggiunge subito e inizia a inseguirlo a nuoto, strappando così al pubblico un’ultima risata prima di chiudere la serie con l’unico finale possibile: la riconferma che l’inseguimento tra Lupin e Zenigata non avrà mai fine.
Conclusione
Purtroppo, l’episodio 23 chiuse prematuramente la serie. Gli episodi previsti erano infatti 2643, ma con un indice degli ascolti medio dell’8.8% in un periodo in cui gli anime erano soliti ottenere il 20%30 non si poté far altro che cancellarla in anticipo. Negli anni successivi la serie fu riscoperta dal pubblico e le repliche arrivarono persino a ottenere ascolti di oltre il 30%1050. Da questo successo nacque l’idea di realizzare una seconda serie animata e un primo film cinematografico, da cui prese poi il via uno dei franchise più longevi della storia degli anime e dei manga. Mentre succedeva questo, Miyazaki e Takahata si erano ormai spostati su progetti di altro tipo. Insieme realizzeranno i due mediometraggi della serie Panda! Go, panda! (1972-1973) e le serie di Heidi (1974) e Marco dagli Appennini alle Ande (1976) per poi separarsi durante la lavorazione di Anna dai capelli rossi (1979). Da lì, Miyazaki avvierà definitivamente la sua carriera da regista creando nel 1978 la serie di Conan - Il ragazzo dal futuro. Ma proprio quando il suo lavoro su Lupin III sembrava essere ormai un lontano ricordo, ecco che l’anno successivo il ladro gentiluomo tornerà nuovamente a bussare alla sua porta con un’opportunità da non lasciarsi scappare.
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Gli altri articoli di questa serie
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Bibliografia
100Tenrando anime komikusu 4 Rupan Sansei PART-1 (100てんランド・アニメコミクス4 ルパン三世 PART-1). 1982. Futabasha.
Kaze no tani no Naushika GUIDEBOOK (風の谷のナウシカ GUIDEBOOK). 2010. Tokuma Shoten.
THE Rupan Sansei FILES– Rupan Sansei zen kiroku (THEルパン三世FILES―ルパン三世全記録). 1998. Kinema Junpo.
Clements, Jonathan. 2013. Anime: a history. British Film Institute.
Miyazaki, Hayao. 2014. (Trad. di F.L. Schodt e Beth Cary) Starting Point: 1979-1996. Viz.
IIoka, Jun’ichi (飯岡順一). 2015. Watashi no「Rupan Sansei」funtouki: anime kyakuhon monogatari (私の「ルパン三世」奮闘記: アニメ脚本物語). Kawade Shobō Shinsha.
Kanoh, Seiji (叶 精二). 2021. Rupan Sansei PART1 e-konte shuu「TV 1st series」hizou shiryou korekushon (ルパン三世 PART1 絵コンテ集 「TV 1st series」秘蔵資料コレクション). Futabasha.
Ōtsuka, Yasuo (大塚康生). 2014. Sakuga ase mamire (作画汗まみれ 改訂最新版). Bungeishunjū.
Sitografia
Tutti i siti sono stati visitati l’ultima volta in data 21/09/2023
https://animetudes.com/2020/07/25/the-history-of-tms-part-6-lupin-the-third/
https://ja.wikipedia.org/wiki/%E3%83%A0%E3%83%BC%E3%83%9F%E3%83%B3_(%E3%82%A2%E3%83%8B%E3%83%A1)
https://sites.google.com/site/lupinthethirdcom/anime/films/-1979-the-castle-of-cagliostro/interviews/1981-4-june-hayao-miyazaki-yasuo-ohtsuka
http://lupinfes2003.fc2web.com/NEW2/interview/ohtsuka/oh02.htm
https://www.videor.co.jp/tvrating/past_tvrating/anime/01/post-3.html
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol2-16c1.html
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol6-02a7.html
Note
Anime: a history p.133 ↩︎
Sakuga ase mamire p.179-180 ↩︎ ↩︎
https://animetudes.com/2020/07/25/the-history-of-tms-part-6-lupin-the-third/ ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.184 ↩︎ ↩︎
https://ja.wikipedia.org/wiki/%E3%83%A0%E3%83%BC%E3%83%9F%E3%83%B3_(%E3%82%A2%E3%83%8B%E3%83%A1) ↩︎
http://osumi.air-nifty.com/blog/2008/09/vol2-16c1.html ↩︎
Sakuga ase mamire p.191 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.192 ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.24 ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.25 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.193 ↩︎
Sakuga ase mamire p.194-195 ↩︎ ↩︎ ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.71 ↩︎ ↩︎
Sakuga ase mamire p.206-207 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Kaze no tani no Naushika GUIDEBOOK p.148-157 ↩︎ ↩︎
Starting Point p. 277-284 ↩︎
https://sites.google.com/site/lupinthethirdcom/anime/films/-1979-the-castle-of-cagliostro/interviews/1981-4-june-hayao-miyazaki-yasuo-ohtsuka ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.23 ↩︎ ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.24-25 ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.18-19 ↩︎ ↩︎
Rupan Sansei PART1 e-konte shuu p.72-73 ↩︎
Sakuga ase mamire p.206-207 ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎ ↩︎
http://lupinfes2003.fc2web.com/NEW2/interview/ohtsuka/oh02.htm ↩︎
Sakuga ase mamire p.202 ↩︎
Titolo originale: 「狼は狼を呼ぶ」
Titoli italiani: Il segreto delle tre pergamene / La spada invincibile ↩︎
Titolo originale: 「全員集合トランプ作戦」
Titoli italiani: Le carte da gioco di Napoleone / Il segno della fortuna ↩︎
Watashi no「Rupan Sansei」funtouki p.16 ↩︎
Titolo originale: 「殺し屋はブルースを歌う」
Titoli italiani: Il documento segreto del calcolatore elettronico / Il passato ritorna ↩︎
Titolo originale: 「魔術師と呼ばれた男」
Titoli italiani: La barriera invisibile / Poteri magici ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.72 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Titolo originale: 「ニセ札つくりを狙え!」
Titoli italiani: Microfinger il re dei falsari / La principessa delle nevi ↩︎
Titolo originale: 「7番目の橋が落ちるとき」
Titoli italiani: Furto alla cassa della banca centrale / Il settimo ponte ↩︎
100Tenrando anime komikusu 4 Rupan Sansei PART-1 ↩︎
Titolo originale: 「誰が最後に笑ったか」
Titoli italiani: Le due statuine gemelle / Il villaggio assediato ↩︎
THE Rupan Sansei FILES p.72 ↩︎
Titolo originale: 「太陽の王子 ホルスの大冒険」
Titolo italiano: La grande avventura del piccolo principe Valiant ↩︎
Titolo originale: 「タイムマシンに気をつけろ!」
Titoli italiani: Una sfida dal futuro / La statua d’oro ↩︎
Titolo originale:「さよならだけが人生だ」 ↩︎
Titolo originale: 「脱獄のチャンスは一度」
Titoli italiani: L’evasione di Lupin / Prigioniero! ↩︎
Titolo originale:「エメラルドの秘密」
Titoli italiani: Caccia allo smeraldo / La fuga ↩︎
Titolo originale:「ルパンを捕まえてヨーロッパへ行こう」
Titoli italiani: Il busto d’oro del Sig. Kimman / Il dubbio ↩︎
Titolo originale: 「宝石横取り作戦」
Titoli italiani: Rapina alla gioielleria / Un gioco da ragazzi ↩︎
Sakuga ase mamire p.208-209 ↩︎ ↩︎ ↩︎
Titolo originale: 「どっちが勝つか三代目!」
Titoli italiani: I cimeli della famiglia Lupin / Nemici per la pelle ↩︎
Titolo originale: 「ニセルパンを捕まえろ!」
Titoli italiani: La corona di Gengis Kahn / L’onore in pericolo ↩︎
Titolo originale: 「ルパン三世 新冒険]. In Italia queste storie sono state pubblicate integralmente da Planet Manga (2016) in coda alla prima serie del manga (Vol. 11-15, Cap.95-129). I capitoli menzionati nell’articolo corrispondono quindi ai capitoli 96-101. ↩︎
Titolo originale: 「ジャジャ馬娘を助けだせ!」
Titoli italiani: Il rapimento di Jenni / Un amico fedele ↩︎
Titolo originale: 「黄金の大勝負!」
Titoli italiani: L’isola dei sogni perduti / Antiche monete d’oro ↩︎
Starting Point p.280 ↩︎
https://www.videor.co.jp/tvrating/past_tvrating/anime/01/post-3.html ↩︎
Introduzione al nuovo Terre Illustrate
Terre Illustrate nacque nell’Agosto del 2012. Avevo appena compiuto 16 anni, da qualche tempo ormai leggevo fumetti con una certa assiduità e pertanto decisi di aprire un blog dove pubblicare i miei pensieri sulle opere che leggevo. A essere sinceri, all’inizio scrivevo principalmente con il desiderio di farmi notare. Nonostante il motivo futile, negli anni non ho mai smesso di scrivere e alla fine la scrittura stessa è diventata un altro mio hobby. Non solo la scrittura, ma anche il lavoro di ricerca e approfondimento che precede ogni mio articolo sono diventati una vera e propria passione e probabilmente Terre Illustrate continuerà a esistere, in una forma o nell’altra, finché rimarranno tali.
Nella sua incarnazione originale, Terre Illustrate non era nient’altro che un blog pubblicato tramite Blogspot, la piattaforma di blogging gratuita di Google, e, seppur con qualche rimaneggiamento, è sempre rimasto tale. L’argomento dei miei post, invece, nel tempo si è evoluto con l’evolversi dei miei gusti e dei miei interessi, dai fumetti si è quindi espanso ai cartoni animati e al cinema dal vivo, ma soprattutto si è concentrato sulle opere provenienti dal Giappone. Così come sono cambiate queste cose, anche i miei approcci alla scrittura e le mie idee su Internet sono cambiati notevolmente. Gli strumenti e le possibilità che mi offriva Blogspot hanno iniziato a starmi sempre più stretti e per questo ho iniziato prima a diversificare il mio lavoro, aprendo canali Youtube (qui e qui) e Twitch (qui), e poi a pianificare una nuova casa per Terre Illustrate. L’idea nasceva anche dal desiderio di possedere uno spazio su Internet che mi appartenesse veramente e di non essere più un “ospite”" di una grande azienda come Google. Negli anni, Internet si è fatto sempre più centralizzato e la maggior parte degli spazi “abitati” appartiene ormai a una manciata di aziende che virtualmente può fare qualsiasi cosa con quel che gli utenti pubblicano, in primis renderlo inaccessibile sia agli altri sia agli autori stessi. Per questo sono convinto che sia importante riappropriarsi dei propri pensieri, del proprio lavoro creativo, e lavorare per un web più decentralizzato. I social media e le piattaforme delle grandi aziende possono essere un ottimo mezzo per stringere nuovi contatti e un importante megafono per far conoscere a più persone il nostro lavoro, ma non dovrebbero mai essere la nostra base, il nostro quartier generale, perché basterebbe poco per perdere tutto. Ecco quindi perché ho scelto di aprirmi uno spazio indipendente: perché a prescindere da quel che potrebbe succedere al server che mi ospita, ogni aspetto di questo sito è salvo sui miei hard disk e mi basterebbe poco per spostarlo altrove.
L’obiettivo dietro questo cambiamento era anche quello di dare una nuova forma e una nuova organizzazione al mio lavoro. Internet è un mezzo meraviglioso perché dà a tutti la possibilità di esprimersi e di avere un proprio spazio dove farlo. Internet, però, è anche un luogo viziato da cattive abitudini, spesso dovute proprio ai modelli economici delle grandi aziende di cui si parlava sopra. In particolare, Internet è anche un posto dove si parla troppo, anche quando non ce n’è bisogno. Ogni giorno siamo costantemente inondati da nuovi post, nuovi articoli e nuovi video proposti in un flusso continuo e inarrestabile. Il risultato è che ognuno di essi tende a perdersi come un ago in un pagliaio, a emergere con fatica e a sparire dopo pochi giorni, se non poche ore. Questo, in un meccanismo che si morde la coda, alimenta ulteriori abitudini sgradevoli, come quella di produrre sempre di più per avere la certezza di essere costantemente visibili, sminuendo quindi il singolo frutto del proprio lavoro a favore della costruzione della propria persona pubblica, o come quella di rincorrere l’argomento sulla cresta dell’onda, anche a costo di produrre articoli, video e post clickbait, approssimativi o semplicemente vuoti, privi di contenuto. È un discorso lungo che meriterebbe molto più spazio per essere trattato seriamente, ma il punto a cui volevo arrivare è che con Terre Illustrate vorrei continuare a seguire un approccio rilassato e dare il giusto spazio a ogni singolo articolo o video prodotto, senza inseguire trend e senza sprecare energie a curare i canali social più del minimo indispensabile.
Questo ideale si è concretizzato e si concretizzerà in diversi modi. Innanzitutto si è concretizzato con diverse scelte fatte in merito al “nuovo” Terre Illustrate. Tra le mie priorità per la creazione del nuovo sito web c’era la presenza di funzionalità di ricerca e di tag degli articoli che fossero il più efficienti possibile, così da permettere ai lettori di proseguire con facilità il loro personale percorso di lettura e agli articoli di non esaurire il loro ciclo vitale una volta spariti dalla home page. Inoltre, il nuovo sito web mette a disposizione un buon sistema di note, totalmente assente su Blogspot, e, su desktop, un indice dei contenuti, così da rendere la consultazione il più agevole possibile. Per motivi pratici e non solo, ho anche optato per un sito web che fosse (quasi completamente) statico. Si tratta forse di una definizione che alla maggior parte dei lettori non dirà molto e io, a esser sinceri, non sono la persona più adatta per spiegarvi cosa sia un “sito statico”, ma vi basti sapere che questo si traduce in un sito molto più leggero e veloce da caricare, sia per me sia per l’utente finale.
Infine, il nuovo approccio “sinergico” e il metablog. Passando per l’url https://metablog.terreillustrate.it/ è possibile raggiungere un secondo sito web che avrà diverse funzioni. La prima, molto banalmente, sarà quella di contenere e archiviare le poche comunicazioni che ho necessità di fare. L’uscita di un nuovo video, l’archiviazione di una nuova live, le collaborazioni con altri siti e riviste e la mia partecipazione a panel e conferenze verranno comunicati, oltre che sui canali social di Terre Illustrate, sul metablog, ma non è questa la sua funzione principale. Il metablog nasce infatti per integrare ed espandere gli articoli pubblicati su Terre Illustrate. Al suo interno, per esempio, ho intenzione di pubblicare scritti più personali in cui racconto e discuto la lavorazione di alcuni degli articoli del sito principale con l’intento sia di rendere più chiari gli obiettivi che mi ero posto che di demistificare il processo che c’è dietro i suddetti articoli. Così facendo mi sembra di rendere i lettori un po’ più partecipi e, soprattutto, di dare ancora più rilievo a ciascun articolo. Già con quest’ultimo scopo in mente, due anni fa provai a sperimentare una piccola “campagna pubblicitaria” sui social per l’ultimo articolo di quello che è ormai il vecchio Terre Illustrate, la recensione di Ankoku Shinwa di Daijirō Morohoshi, realizzando una serie di post con curiosità aggiuntive sull’opera e sull’autore. L’esperimento ebbe un certo successo e mi ripromisi di ripeterlo, ma trovai anche uno spreco lasciare che tutte quelle informazioni si disperdessero nel mare dei social media. Per questo il metablog farà anche da archivio per questo tipo di post raccogliendoli in articoli appositi così che possano essere più facili da reperire e consultare. Sempre con lo scopo di dare maggiore rilievo, di approfondire e di espandere gli argomenti del blog principale, ho intenzione di far seguire ad alcuni degli articoli una live dedicata dove, per esempio, potrei mostrare alcuni dei materiali usati, nel caso di una ricerca storica, o invitare ospiti per discutere ulteriormente delle opere, degli autori o dei temi trattati. L’ultima funzione, per ora, del metablog non riguarda invece i miei articoli, ma quelli degli altri. Ho intenzione infatti di realizzare una piccola rubrica, una “metarivista”, in cui presenterò, con piccoli commenti, articoli e video presenti sul web e che ho trovato interessanti. Nulla di troppo elaborato, l’obiettivo è semplicemente quello di dare risalto al lavoro altrui, sempre nel tentativo di arginare in qualche misura la volatilità di Internet.
Questi, in sintesi, sono i motivi per cui il nuovo Terre Illustrate e il metablog sono nati. Di ciò che troverete su questo nuovo sito, invece, non c’è molto da aggiungere a quanto detto all’inizio di questo stesso articolo. L’approccio e la consapevolezza dietro sono sicuramente cambiati, e di molto, ma il nuovo Terre Illustrate rimarrà in piena continuità con il vecchio. Gli argomenti principali saranno sempre il fumetto e l’animazione, con un focus speciale sulle opere giapponesi, ma non sono assolutamente da escludere possibili incursioni in alcuni campi affini come il cinema dal vivo, la letteratura o, perché no?, i videogiochi. Così come non è da escludersi la pubblicazione di articoli scritti da autori ospiti, in piena continuità con l’intenzione di dare maggiore spazio ad altre voci, nonostante Terre Illustrate rimanga comunque un mio progetto personale.
Buona lettura.
Un ringraziamento di cuore va a Eduard che mi ha aiutato con la realizzazione di questo sito e del metablog occupandosi di praticamente tutti gli aspetti tecnici. Senza il suo contributo, il nuovo Terre Illustrate non esisterebbe.
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Terre Illustrate è il blog di Matteo Caronna dedicato al fumetto, all’animazione e affini. Si estende anche su Youtube (qui e qui), su Twitch (qui) e sul metablog (qui).
Manifesto di Terre Illustrate: https://terreillustrate.it/posts/00-introduzione-al-nuovo-terre-illustrate/
Pagina dell’autore: http://terreillustrate.it/authors/matteo-caronna/
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